In
bianco e nero
“...¿ Por qué me suenan tan mal
todas la cuerdas
de mis deseos?..”
(Estopa,
“Luna lunera”)
6. L'uomo
oltre la cravatta
Yukiko schiuse appena gli occhi, la mente ancora
assopita in una stanchezza che non si azzardava a scivolare in un tranquillo
sonno ristoratore. Stropicciò il viso sul cuscino, consapevole, in fondo, che
anche dormire qualche ora era un'utopia. Accanto a lei non c'era il marito:
quella notte Yusaku non aveva fatto altro che girarsi
e rigirarsi tra le lenzuola, e probabilmente non si sarebbe nemmeno steso
accanto a lei se non avesse capito che, per quanto forte, sorridente,
incosciente e coraggiosa, anche lei era rimasta scossa da tutti gli avvenimenti
della serata. Erano stati destati, se mai davvero si erano addormentati, da uno
Shinichi tornato Conan. Il bambino aveva chiesto alla
madre di svegliare Ran, di dirle per l'ennesima volta
che non aveva potuto fare altro che andare via, uscire di soppiatto e di
fretta, senza poter rimanere a godersi ancora un altro minuto, altri sessanta
secondi di vita vera. Non era stato un compito facile. Yukiko
aveva richiamato alla coscienza una Ran che dormiva
ancora con il sorriso sulle labbra, il volto disteso e rilassato nonostante
tutti gli scossoni della notte. Alle volte basta qualche forte emozione
personale per farci dimenticare, forse egoisticamente ma in fondo
involontariamente, le sventure altrui. Il sorriso si era spento piano non
appena aveva visto il divano vuoto, come una candela che si scoglie su se
stessa le labbra si erano ripiegate e gli occhi rabbuiati. Yukiko
ripensò a come la ragazza l'avesse salutata, scusandosi per il disturbo,
nonostante ben sapesse di essere come una seconda figlia per lei. Ran era sempre stata così: educata, un po' riservata, ma
con un cuore grande come quello di nessun altro. Non avrebbe potuto desiderare
una ragazza migliore per il figlio: eppure il destino si rivelava così ingiusto
con chi non avrebbe dovuto esserlo. Ran non aveva
chiesto di Shinichi. Aveva capito dallo sguardo della
donna che le stava davanti le parole che di lì a poco sarebbero arrivate: e
aveva preferito non sentirle. Non ce n'era bisogno. Nonostante le insistenze di
Yukiko, non si era fermata a colazione: non aveva
fame ed era già in ritardo. Doveva correre a casa a cambiarsi, aveva un compito
in classe quel giorno. Prima di varcare la porta, aveva sussurrato solo: “Ha
lasciato detto qualcosa per me?”
Yukiko le aveva risposto sorridendole dolcemente:
“Gli dispiace, non sai quanto. Prima o poi tutto questo finirà, vedrai.”
Ran aveva sorriso a sua volta, e poi era
scappata via di corsa, pensando che forse, nella vita, l'arte di accontentarsi
era quella che avrebbe assicurato la miglior cura, lenendo le più profonde
delusioni.
Con
il testa il volto di Ran e il pensiero di Yusaku che non aveva voluto tornare a dormire, aspettando
piuttosto il telegiornale della mattina, Yukiko non
era riuscita a prendere sonno. Si alzò, cercando a tastoni con i piedi le
ciabatte mentre legava alla meno peggio i capelli. Vide il proprio riflesso
nello specchio posto accanto all'armadio. Il volto tirato, il mascara ripulito
alla meno peggio che le aveva annerito il contorno degli occhi. Si sorrise. La
vita bisognava prenderla al volo, con lo spirito giusto.
Trovò
il marito in cucina. Sul tavolo una colazione mai consumata, stava sorseggiando
quello che, a giudicare dalla tazzina e dal profumo, doveva essere un buon
caffè. La televisione, ora spenta, doveva essere stata accesa fino a poco
prima, come indicava la lucetta rossa che ricordava al proprietario che con un
piccolo gesto avrebbe potuto staccare ogni collegamento e risparmiare l'energia
che tanto serviva al mondo. Ma, quella mattina, Yusaku
non aveva nessuna energia da spendere per risparmiare energia altrui.
“Ma
che buon profumino, penso proprio che prenderò anche io un caffè.”
Yukiko sorrideva, nel tentativo di portare un
raggio di buon umore. Salutò il marito con un bacio leggero, non potendo
evitare di notare le occhiaie scure che gli contornavano lo sguardo.
“Speravo
che almeno tu riuscissi a dormire un pochino.”
La
voce suonava stanca, eppure si sforzò di sorridere. Quel gesto bastò a
rincuorare in parte Yukiko.
“Non
importa. Insieme nel bene e nel male, ti ricordi?”
“Non
potrei mai dimenticarlo.”
Yusaku aveva ancora indosso la camicia della
notte prima, sbottonata e sgualcita. Aveva invece messo i primi pantaloni che
gli erano capitati sotto mano, non preoccupandosi nemmeno di cercare le
pantofole: era a piedi scalzi. I capelli disordinati stonavano con la barba
perfettamente fatta e i baffetti al loro posto, in completo ordine. Accanto a
lui Yukiko che, nonostante il volto stanco e il
trucco ancora un po' sbavato, manteneva la sua solita eleganza, il corpo sottile
e longilineo si muoveva agile nella leggera camicia da notte, e le mani senza
ancora una ruga, con quelle unghie curate e perfette. Anche se i capelli non
erano acconciati con cura, lei era perfetta e bellissima anche così.
“Hai
guardato il telegiornale?”
“Si,
ma non c'è nessuna novità. Non hanno ancora trovato il corpo di Arthur. Mentre
vorrei incontrare personalmente la famiglia del signor Sakamoto,
per far loro le condoglianze e per scusarmi per quanto successo.”
“Non
devi addossarti colpe che non hai.”
Yusaku posò la tazzina sul tavolo, accanto al
cibo dimenticato. Si sedette, lasciandosi scivolare sullo schienale.
“Ho
portato io Arthur in quell'hotel.”
Yukiko percepì tutto il dolore e la sensazione di
totale impotenza che attanagliava in quel momento l'animo del marito. Si
avvicinò, sedendosi con grazia sulle ginocchia di lui. Gli prese dolcemente il
volto tra le mani e lo guardò negli occhi, cercando di trasmettergli tutta la
forza che in quel momento poteva dargli. Non le importava di poter rimanere
senza energia alcuna, Yusaku ne aveva bisogno più di
lei, e in amore non esiste la paura di regalare all'altro tutto quello che si
ha.
“Tu
non potevi sapere, nessuno poteva. Andrà tutto bene, vedrai. Ci sono qui io.
Perché non fai una doccia per rilassarti? Ti sentirai meglio, fidati.”
Yusaku la strinse a sé, cingendole la vita con le
braccia. Quella che aveva con lui era una donna meravigliosa. Si avvicinò fino
a sfiorarle le labbra.
“Te
l'ho mai detto che ti amo?”
Lei
rise. Farla ridere era sempre la soddisfazione e la gioia più grande. La baciò,
stringendola ancora di più a sé, mentre lei si divertiva a solleticargli la
nuca con i suoi piccoli polpastrelli.
Fu
allora che sentirono un rumore sordo, come se la porta di ingresso fosse stata
chiusa con un tonfo. Si separarono improvvisamente, e Yukiko
guardò d'istinto oltre l'entrata della cucina. Tutto quello che vide fu il muro
del corridoio.
“C'è
qualcuno?” chiese piano a Yusaku, balzando in piedi.
“Forse
l'amico di Shinichi che abita di solito qui. Vado a
vedere, resta in cucina.”
“No,
vengo con te.” disse lei, seguendolo, attaccata al polsino slacciato della
camicia di lui. I loro passi risuonarono per il corridoio. Sentirono delle voci
familiari. Una maschile e una femminile. Le voci di due bambini.
Seduti
sul gradino dell'ingresso, affannati e sudati, stavano Conan e Ai. La bambina
sembrava sconvolta e impaurita, e continuava a guardarsi intorno, nonostante
fosse ormai al sicuro.
“E
se ci avessero visti?” diceva. “Avevo la sensazione di essere osservata e..”
“Non
c'era nessuno, Ai, sta tranquilla.” le rispondeva Conan, mentre sfibbiava alla
meno peggio le scarpe.
“Ma
che ci fate voi qui?” irruppe la voce di Yukiko,
stupita. A quell'ora le lezione scolastiche dovevano già essere cominciate.
I
due bambini si girarono contemporaneamente. Conan cercò automaticamente lo
sguardo del padre: bastarono quegli occhi per far capire a Yusaku
che era successo qualcosa, e questo qualcosa non doveva essere nulla di buono.
Quando
Conan finì di raccontare quella malaugurata storia, il silenzio calò gelido e
teso sui loro volti. Ci fu un minuto in cui nessuno seppe cosa dire. Quale
poteva essere la parola giusta per commentare quanto accaduto? In una notte il
mondo si era rovesciato. E, oltre al danno causato dalla morte di ben due
persone, si era giusta quest'ultima, insulsa e perfidissima beffa: una piccola
foto che avrebbe potuto cambiare di molto le loro vite. Fu Yusaku
che, alla fine, ruppe il mutismo che si era instaurato tra le loro menti.
“Di
certo non avrei mai immaginato che, per quel banalissimo errore, ci saremmo
ritrovati addosso anche questo problema. Hai semplicemente scambiato due
pillole e ora eccoci qui.”
“Lo
sapevo che non avrei dovuto darti quella pillola. Il rischio era troppo alto.
E' colpa mia.” intervenne Ai.
“Sono
stato io a scambiare i farmaci tra loro, è stata una dannata disattenzione che
ora pagherò mettendo in pericolo non solo la vostra vita, ma anche..”
“Adesso
basta.”
Oltre
quei pensieri detti a metà, si levò perentoria la voce di Yukiko.
Tutti continuavano ad addossarsi la colpa di qualcosa che era successo, come a
voler, inconsciamente, scaricare il proprio animo ammettendo delle
responsabilità vere solo in parte. Che colpa potevano averne se la vita era
guidata dal caso, dalla fortuna cieca o bendata che stringeva la mano una volta
ad uno, una volta all'altro? Farsi prendere dai rimorsi non avrebbe comunque
aiutato la loro situazione.
“Non
è colpa di nessuno, è chiaro? Ognuno ha fatto del suo meglio, ne sono sicura.
Purtroppo spesso le cose non vanno come vorremmo, ma è allora che dobbiamo
tirar fuori il meglio di noi. Le lacrime, i rimorsi, i sensi di colpa sono
forse utili, ma solo all'inizio. Ci lasciano sfogare, ma dobbiamo imparare a
metabolizzarli, a voltar loro le spalle e andare avanti. Non pensiamo a quello
che è stato, pensiamo a quello che sarà.”
“Eppure
è quello che è stato che ci farà essere quelli che saremo.”
Yusaku bisbigliò appena quella frase, e solo la
moglie, seduta accanto a lui, fu in grado di sentirla. E capì che, per
metabolizzare quanto accaduto, Yusaku ci avrebbe
impiegato forse un tempo maggiore di tutti loro. Ma era il suo tempo
fisiologico e, in fin dei conti, andava bene così. Ognuno vive le emozioni in
modo differente.
Furono
Ai e Conan che dalle parole di Yukiko trassero il
maggior conforto. Entrambi capirono che, nonostante i loro errori, era giunto
il momento di dire basta ai rimorsi del passato. Era giunto il momento di
vivere solo il presente: perché era quello che dovevano giocare al massimo, se
volevano avere la possibilità di vivere il futuro.
“Mia
madre ha ragione. E' il momento di capire che cosa dobbiamo fare.”
“Dovete
andare via, non c'è scelta. Altrimenti rischierete di venire coinvolti. Non
abbiamo molto tempo. Loro non si fermano davanti a niente.”
La
voce di Ai era sicura, a parte il leggero tremolio che l'aveva colta nel
pronunciare quel loro. Non voleva trascinare con sé altre vite oltre
quelle che erano già propriamente coinvolte.
“Che cosa proporresti?” le chiese Yusaku.
Era
uno strano quadretto. Due adulti che sembravano seguire gli ordini di due
bambini un po' troppo seri. O, comunque, sembravano tenere in gran conto la
loro opinione.
“Dovete
partire. Tornare in America. O forse in qualche altro luogo.. dove non possano
rintracciarvi.”
“Ai
ha ragione. Forse è meglio così. Ce ne occuperemo io e lei. Questa volta si fa
sul serio.”
“Ma
cosa pensate di poter fare da soli? Sono troppo forti, Shinichi.
E tengono quasi tutti i coltelli dalla parte del manico.” intervenne Yukiko. Non appariva intenzionata a mollare l'osso.
“Contatteremo
l'FBI. Con loro non saremo soli.”
“Io
da qui non mi muovo.”
Yusaku aveva pronunciato quelle parole con
estrema sicurezza. Non poteva fuggire ora, quando il corpo di Arthur non era
ancora stato ritrovato. E, soprattutto, non poteva abbandonare suo figlio in
una battaglia più grande di lui. Era un uomo ed era un padre: entrambi i suoi
ruoli in quel mondo gli imponevano di rimanere lì, ancorato con tutte le sue
forze a quella maledetta situazione.
“Se
non troveranno me, cercheranno voi, e poi sarebbe la volta di Ran. Dovete fuggire, tutti.”
“Non
scapperò lasciandoti qui. Né abbandonerò Tokyo fino a quando il corpo di Arthur
non sarà ritrovato. Non lascerò la faccenda a metà: voglio andare fino in
fondo.”
Yukiko strinse la mano dell'uomo che era seduto
accanto a lei. Poi, guardando sicura i due bambini, disse solo: “Nemmeno io
scapperò. Sarò con voi fino alla fine.”
Conan
non replicò. Conosceva i suoi genitori: quando erano sicuri di qualcosa, allora
distoglierli non era per nulla facile. In fondo, da qualcuno doveva aver pur
preso. A non essere convinta, invece, era Ai.
“No,
è troppo pericoloso.”
“Se
andassimo via lo sarebbe comunque. E ancor più che voi.” replicò Yukiko.
Gli
occhi di Ai tremarono. Abbassò lo sguardo, e si rannicchiò sul divano,
stringendo le ginocchia tra le braccia.
“Ho
già visto troppe persone morire in questa assurda guerra. Non voglio che
qualcun altro muoia. Che qualcun altro perda la propria famiglia a causa di
tutto questo.”
Yukiko si alzò, andando a posarsi accanto a lei.
La strinse appena, ponendole il suo braccio leggero attorno alle spalle. Poi
bisbigliò piano, dolcemente: “Nessuno di noi morirà, vedrai. Uniti saremo più
forti di chiunque altro. Insomma, guarda questi due, li vedi?” e indicò Yusaku e Conan, “Sono due testoline niente male, e penso
che tu lo sappia. E poi guarda qui,” e indicò se stessa, “con i travestimenti
vado forte, non mi batte nessuno. E infine,” e le accarezzò la guancia,
guardandola negli occhi, “abbiamo uno dei più grandi geni scientifici del terzo
millennio! A meno di vent'anni hai creato cose inimmaginabili. Sei forte, Ai.
Come nessun altro.”
Le
strappò un debole sorriso. Quelle parole ebbero un grande effetto sul cuore di
Ai, scaldandola e confortandola. Fu come se, per un attimo, avesse avuto di
nuovo accanto la madre. Appoggiò la testa sulla spalla di Yukiko,
mormorando solo: “Grazie.”
Conan
e Yusaku si lanciarono uno sguardo di intesa. Yukiko, con la dote della femminilità che solo le donne
possiedono, conosceva mondi e sentimenti che a loro erano in fondo ignoti.
Nessuno di loro sarebbe stato, con poche parole, in grado di far ritornare il
sorriso sul volto di Ai.
“Allora,
uomini!” esclamò ancora la donna, giocherellando appena con i capelli della
bambina. “Qual è il piano d'azione?”
“Per
ora direi che non è il caso di agire. Dovremo aspettare una loro mossa, vedere
se si risvegliano dal loro sonno. Meglio stare nell'ombra e non dare
nell'occhio. Ma prima di tutto, sarebbe meglio cercare di mettere a tacere la
notizia, per quanto ormai sia possibile. Fare in modo che i telegiornali non ne
parlino molto. Hai delle conoscenze nelle redazioni, papà?”
“Sì,
ma chiedere a loro servirebbe a poco. Il giornalista vuole fare notizia, e
questo è un grande scoop. Sarà meglio sentire l'ispettore Megure
e chiedere a lui di intervenire con discrezione. E' una persona fidata.”
Gli
altri annuirono. Era la mossa giusta da compiere.
“Per
quanto riguarda noi, invece,” continuò Yusaku, “è
meglio non farci vedere per un po'.”
“Sono
d'accordo.”
“E
come faremo?” chiese Ai.
“E'
semplice.” disse Conan, che aveva intuito il piano del padre, “Assumeremo una
nuova identità. Come ha detto prima, la mamma è una maga dei travestimenti. Ce
la possiamo fare.”
“Oh,
si, questa è la parte che preferisco.” ammise Yukiko, in fondo elettrizzata per poter di nuovo essere la
protagonista della scena. Recitare le mancava e anche se quella era la vita,
poco importava. L'avevano sperimentato sulla loro pelle: il confine tra realtà
e finzione era troppo labile per riuscire a non oltrepassarlo mai.
“Non
sarà facile. Come faremo? Scomparire improvvisamente dalla circolazione per
diventare delle persone diverse..” aveva iniziato Ai, ma fu interrotta da
Conan.
“Non
è niente di più rispetto a quello che abbiamo fatto finora.”
Il
piccolo detective aveva ragione. Perché le sembrava tutto così diverso? Con
un'altra identità aveva convissuto fino a quel momento.
“Dove
andremo, che faremo?” chiese ancora.
“In
qualche modo ce la caveremo.” rispose Yusaku. “Ma, a
mio parere, per il momento sarebbe meglio non coinvolgere né l'FBI né la
polizia. Dirò all'ispettore che torneremo in America.”
“Pensi
sia meglio mantenersi il più possibile nell'ombra?” incalzò Conan.
“Sì.
Almeno finché non avremo elementi in più, o non saremo comunque sicuri che la
situazione sia sufficientemente tranquilla. Meglio non coinvolgere altre
persone.”
Gli
altri annuirono. Per essere un primo piano, era più che accettabile.
“Ci
sono persone che, invece, andranno protette.”
“Kogoro e Ran devono abbandonare
la città, subito. Non ci metteranno molto a scoprire l'identità della ragazza
che era con te nella foto.”
“Lo
so perfettamente. Le parlerò io stesso e..”
“No,
Shinichi, è troppo pericoloso.” intervenne Yusaku.
“Non
posso non essere io a parlarle, lo capisci?”
“Certo
che lo capisco. Ma capisco anche che significherebbe esporsi e mettere in
pericolo ancora di più la sua vita. Vorresti parlare come Shinichi,
vero?”
Conan
non rispose. Quello che avrebbe voluto dire si poteva leggere nei suoi occhi.
“Tuo
padre ha ragione, Shinichi. Meglio evitare. Hai fatto
tanto per lei, fai anche questo. E' per il suo bene.” argomentò ancora Ai.
Conan non rispose di nuovo.
“Vedrai,
Shinichi, le parlerai quando sarà tutto finito. Andrò
io stessa da Ran, le spiegherò la situazione. Penso
sia meglio non mostrarti nei paraggi nemmeno come Conan. Ti fidi di me?”
Al
sentire quella domanda da parte della madre, il bambino annuì. Sapeva
perfettamente che gli altri avevano ragione. Quello che gli bruciava di più era
ammetterlo e farsene un motivo.
“Quando
ce ne andremo?” chiese solo.
“Per
oggi direi di non muoverci. Studiamo la situazione, elaboriamo meglio il piano.
Potremmo muoverci nella notte, o all'alba del giorno dopo, quando ci saremo
assicurati che tutto sia tranquillo. Non penso comunque che agiranno subito,
quando la situazione è ancora calda. Aspetteranno che l'interesse del pubblico
si raffreddi un po'. Abbiamo del tempo.”
“Non
sarebbe allora meglio non bloccare la notizia ai telegiornali?”
“Dobbiamo
comunque evitare di dar loro troppe informazioni.”
“E
per Ayumi e gli altri? Che cosa facciamo?” domandò
Ai.
“Non
sanno che siamo dei bambini. Finché non lo scoprono, sono al sicuro.”
La
piccola scienziata annuì. “E il dottor Agasa?”
“Me
ne occuperò io.” disse Yusaku, “Voi evitate il meno
possibile di farvi vedere in giro.”
Cadde
di nuovo il silenzio. In quel momento non c'era altro da dire. Avevano un
intero giorno a disposizione per limare ogni punto di quella strana avventura.
Conan balzò giù dal divano senza dire altro, e si allontanò. Aveva un amaro in
bocca che non accennava a scomparire.
In
quella stanza sufficientemente grande per potercisi muovere agevolmente, ma
piccola abbastanza da poter instaurare un'atmosfera di intima e segreta
confidenza, stava calando una sera in cui sembrava mancare l'aria. Forse era il
venticello della primavera che prepotentemente entrava a sbuffi dalla piccola
finestrella in alto, sfrecciando attraverso le grate che non le impedivano il
passaggio. Forse era la luce soffusa che si arrampicava per le pareti
rivelandone a tratti le imperfezioni piccole e nette, quelle macchie di nero e
muffa che si estendevano agli angoli, come edera senza spessore fusa
all'intonaco ormai vecchio. Correva fino a nascondersi dietro quei pochi mobili
spogli che di tanto in tanto speravano di dare un tocco di vitalità alla
camera, conferendole invece un'aria ancora più grigia e, se così si poteva
dire, gelida. Una libreria senza libri, solo qualche foglio poggiato sopra
senza cura, come se fosse di poca importanza. Un appendiabiti con solo un
cappotto nero a coprirlo. Al centro, un tavolo di ferro, tremendamente stonante
lì in mezzo, con qualche sedia intorno che scivolava con difficoltà sulle
piastrelle bianche. Un uomo, le spalle larghe e il petto ampio, si lasciò
cadere sopra ad una di esse. Si tolse il cappello nero, appoggiandolo sul
tavolo, e si stiracchiò piano, cercando di sbadigliare il più silenziosamente
possibile, come se fosse spaventato dell'improvviso arrivo di qualcuno da cui
non poteva permettersi di farsi vedere stanco. Si sistemò gli occhiali sul naso
e rimase lì, apparentemente tranquillo. Eppure il piede, che tamburellava sul
pavimento, tradiva il suo nervosismo. Era stata un'altra giornata stancante,
l'ennesima. La notte precedente non aveva dormito, le trattative con quell'uomo
stupido e spaventato, e poi al ritorno le strade piene di macchine della
polizia, e quel casino sul ponte. Chissà cos'era successo, poi. Non aveva più
avuto tempo di interessarsene: tutta la mattina a sorvegliare una persona, il
pomeriggio a intercettare le conversazioni di un'altra. E ora lì, alle undici
di sera, ad aspettare il suo capo per parlare di non sapeva minimamente cosa.
La vita era dura anche se recitavi la parte del cattivo, altroché. In fin dei
conti era un lavoro come un altro, solo che la gente sembrava non
capacitarsene. Socchiuse appena gli occhi oltre quelle lenti scure, e sciolse i
primi bottoni della camicia. Pensò che avrebbe potuto addormentarsi lì, su
quella sedia, senza bisogno di niente di più comodo. La mente stava già
sprofondando pian piano nei fumi dell'inconscio, quando sentì un fastidioso e
urtante cigolio. Ci mise un secondo per realizzare che l'uomo che stava
aspettando era probabilmente arrivato. Si rizzò a sedere di botto, rischiando di
cadere come un bambino. Credendo forse di non aver fatto abbastanza, si alzò in
piedi, salutando l'altro uomo con un gesto del capo. Per tutta risposta, quello
sembrò non curarsi minimamente di lui.
“Ti
stavo aspettando, Aniki.” disse allora, sospettando
addirittura che il suo interlocutore non l'avesse visto. Non aveva minimamente
accennato ad un saluto.
L'uomo,
dai lunghi capelli di quel biondo così particolare, camminò ancora, facendo
rimbalzare i piccoli tacchetti delle scarpe sulle piastrelle. Un suono sordo
che oscillava tra le pareti. Poi si appoggiò al muro, senza dire ancora una
parola. Il cappello nero era ben calzato sul capo, e delle ciocche di capelli
gli cadevano sugli occhi, andandone a coprire lo sguardo e lo stato d'animo. Si
trascinava dietro l'odore intenso e pungente di una sigaretta appena finita:
tuttavia non doveva essere soddisfatto, perché non appena si appoggiò al muro,
se ne accese un'altra. Solo dopo aver inspirato profondamente, decise che era
arrivato il momento di rispondere.
“Lo
so perfettamente, Vodka. Non dirlo come se mi stessi facendo favore.”
La
voce gelida sembrò condensare l'aria. L'uomo con gli occhiali si mise
spontaneamente sull'attenti, e capì che era il caso di tacere fino ad un nuovo
segnale. I nervi erano già distrutti di per sé, senza bisogno che il suo capo
glieli strattonasse ulteriormente.
“Novità
interessanti?” gli venne chiesto infine. Sembrava una domanda di rito, come se
in realtà non gliene importasse più di tanto. In fin dei conti, che cosa
interessava davvero a loro di quelle persone che ricattavano, di cui si
servivano e con cui collaboravano fin tanto che era necessario? Niente, in
sostanza niente. Questa ricognizione serale era per entrambi una gran pena:
eppure dovevano farlo, era il loro ruolo, e non c'era scappatoia. Sì, in fin
dei conti quello era soltanto un lavoro, per quanto particolare. E dietro ad
ogni cravatta e cappotto nero, c'era un uomo a cui non interessava se quello
avesse pagato il debito in tempo, o se quell'altro avesse fornito le armi
giuste. Impersonavano un ruolo, come fanno tutti nella vita. Come l'avvocato
che controlla le sue carte e progetta le sue arringhe, incastonando i termini
giusti per creare il discorso più convincente, pensando a quando, la sera,
potrà tornare a casa e riposarsi, facendo volare la mente oltre ogni noioso
imprevisto quotidiano. A quanti di loro importa davvero della vita che si
nasconde dietro quelle pagine? Quanti, in fondo al cuore, piangeranno per la
sorte di un condannato da loro difeso? Non importerà invece ai più di aver
personalmente perso, di non aver raggiunto un successo professionale, di non
aver adempiuto al meglio al loro ruolo? Per quegli uomini vestiti di nero era
esattamente lo stesso: c'era un ruolo, e bisognava impersonarlo. Nel loro caso,
poi, la situazione diveniva ancora più semplice: i seccatori potevano essere
eliminati con un semplice click. Nel loro lavoro c'era, alla fin fine,
poco di esaltante: ma quando qualcosa del genere capitava, allora l'adrenalina
scorreva come linfa nelle vene, e l'uomo andava a fondersi con il suo ruolo.
“No,
niente di rilevante.” si limitò a rispondere il bestione chiamato Vodka.
Rimasero
in silenzio, fintanto che il capo, o meglio Gin, avesse finito di fumarsi in
pace il suo piccolo regalo quotidiano. Quando infine la sigaretta si spense per
terra, il discorso riprese.
“Nessuna
conversazione fuori dalla norma?”
“No.”
“Nessun
movimento al di là di quelli consueti?”
“No.”
“Niente
di niente?”
“Esatto.”
“Beh..”
iniziò Gin. Aveva la voce roca. “Che giornata noiosa.”
Vodka
avrebbe voluto rispondere qualcosa del tipo “A me lo dici?”, ma pensò che non
era il caso. Si limitò a fare spallucce, come se quelle dodici ore una più
uguale dell'altra non lo avessero minimamente toccato. Non aveva mai il
coraggio di osare quel qualcosa in più: e probabilmente era per questo che era
rimasto relegato in fondo, tra chi doveva sempre e solo obbedire. Per arrivare
ai vertici, o anche solo un poco più in alto, ci volevano intelligenza, calma,
sangue freddo, prontezza di riflessi e lui, lo riconosceva, non aveva pieno
controllo di nessuna di queste. Se c'era una cosa che non gli mancava, quella
era la forza fisica: ma, si sapeva, da sola faceva ben poco.
Gin
si staccò dal muro, sistemandosi il capello sul capo. Il suo sguardo felino,
fino ad allora nascosto dall'ombra delle ciocche bionde e disordinate, volò sul
suo compare. Il volto era perfettamente disteso. Vodka si chiese come diavolo
facesse a non essere mai turbato da una minima stanchezza fisica o mentale:
davvero il suo capo era sempre impassibile nei confronti del mondo che gli
scorreva davanti, oppure era in grado di celare alla perfezione ogni sentimento
sotto quel cappotto nero e quegli occhi vitrei?
“Direi
che possiamo porre fine a questa altrettanto noiosa conversazione.”
Vodka
sentì un peso scendergli lungo le gambe, fino a posarsi delicatamente per terra
liberando il suo animo. Quello di Gin non era certo un modo particolarmente
garbato di augurargli la buonanotte, ma non si lamentava. L'importante era il
concetto, non la forma: e il concetto diceva a chiare lettere che era libero di
andarsene.
“Allora
a domani, capo.”
Gin
non rispose, mentre si incamminava verso l'uscita. Era ormai quasi arrivato
alla porta, ancora un passo e per Vodka sarebbe iniziata una fantastica nottata
di libertà: un drink in un bar, anche due, poi magari qualche bella ragazza e
una notte di quelle che non viveva da troppo tempo. Mancava solo un passo, e
poi sarebbe uscito dietro al suo capo e avrebbe staccato la spina da tutto il
resto. Quando Gin si arrestò improvvisamente, quel peso che era prima scivolato
sul pavimento risalì pronto come non mai fino a schiacciargli la testa.
“Quasi
dimenticavo.” disse, con la sua voce impassibile. Vodka si chiese se il suo
compagno fosse umano. Come poteva vivere senza un attimo di pausa? Scorreva
davvero il sangue nelle vene di quel corpo statuario?
“Cosa
c'è, Aniki?”
Gin
rovistò in una delle tasche del cappotto e ne tirò fuori un foglio stropicciato
di giornale. Lo stese fino a renderlo leggibile.
“Guarda
qui.”
“Cos'è?”
Vodka
non era realmente interessato, anzi. Ma il suo ruolo era di acconsentire, e
così doveva essere.
“Raccontano
dell'idiota che ieri si è buttato dal ponte. A quanto pare è stato un caso
alquanto eclatante.”
Da
oltre le sue lenti nere, Vodka lanciò un'occhiata distratta al giornale,
mugugnando qualcosa del tipo: “Meglio così, si saranno già dimenticati del
colpo di Korn a Niigata.” Avrebbe voluto aggiungere: “Possiamo andare, ora?”
“Ti
ricordi di aver notato qualcuno sul ponte?” chiese Gin, socchiudendo appena gli
occhi, come a scrutarlo meglio. Vodka si mise di nuovo involontariamente
sull'attenti.
“A
cosa ti riferisci, Aniki?”
Lottò
per trattenere uno sbadiglio. Sperò di non aver fatto qualche strana smorfia
nel suo goffo tentativo.
“Potresti
provare a pensare almeno per un secondo? Non dirmi che sei come i mocciosi, che
dopo le undici devono andare a dormire.”
La
voce seccata di Gin lo trafisse da parte a parte. Si aggiustò il cappello e gli
occhiali, come a darsi un tono di professionalità e si schiarì la voce. La
notte di libertà era rimandata di almeno un'ora.
“Stai
parlando del casino di ieri, con tutti quegli sbirri in giro per la città?”
“Hai
detto di essere sicuro di aver già visto qualcuno che era lì.”
Vodka
sembrò pensarci un attimo su. Sì, si ricordava di qualcosa del genere, ma quel
volto gli sfuggiva dalla mente. Era un ragazzo, sì, un qualcuno di conoscente.
Ma non ricordava dove l'avesse visto prima, né i tratti di quel viso. E se si
fosse semplicemente sbagliato? Ebbe la sgradevole sensazione di star perdendo
tempo per niente.
“Sì,
era un ragazzo, mi sembrava di averlo già visto. Ma come mai te ne interessi
tanto?”
Come
al solito non capiva l'intricato groviglio di pensieri che si distendeva nel
cervello del suo capo.
“Guarda
questa foto.”
Prese
in mano il giornale. Era la prima pagina di un quotidiano abbastanza noto,
dedicata interamente a quello che veniva chiamato il caso dell'Haido City Hotel. Si mise a leggere qualche riga
dell'articolo.
“Yusaku Kudo? Noto scrittore? Io
non l'ho mai sentito.”
“Lascia
stare il testo, guarda la foto. E' quello il ragazzo?”
Le
pupille si lasciarono cadere sulla figura accanto a quelle parole così fitte.
Erano ritratte due persone, un ragazzo e una giovane dai capelli lunghi. Si
tenevano per mano, e sembravano correre, i volti distinguibili senza
particolare difficoltà. Si concentrò sul ragazzo. Mugugnò qualcosa, come se
stesse pensando ad alta voce.
“Allora?”
incalzò Gin, senza che la sua voce lasciasse però trasparire l'impazienza di
volere una risposta da lì a qualche secondo.
Vodka
osservò meglio la foto. D'improvviso ebbe come un flash. Un ponte, le luci, un
ragazzo in piedi accanto ad un uomo con gli occhiali.
“Sì,
capo, è lui, è lui ne sono sicuro. Sai chi è?”
“Era
quello che volevo sapere da te.”
“Io
l'ho già incontrato questo moccioso. A te non ricorda nessuno?”
“Sai
che dimentico in fretta le persone che non vale la pena ricordare.”
Vodka
non rispose: si stava concentrando sull'articolo, e non era abituato a fare due
cose contemporaneamente. O meglio, non gli riusciva poi così bene. Scrutò la
foto. La ragazza non gli diceva assolutamente niente, ma quel giovane, sì,
l'aveva già visto. Lo sguardo cadde sul titolo, che fino ad allora aveva
stranamente trascurato.
“Il
ritorno della salvezza della polizia giapponese: Shinichi
Kudo risolve il misterioso caso dell'Haido City Hotel.”
Shinichi Kudo. Un flash gli
abbagliò la mente d'improvviso. Quella volta al Luna Park, quell'impiccione che
li aveva seguiti e su cui avevano testato il nuovo farmaco. Un ragazzino delle
superiori, che aveva risolto il caso dell'uomo sgozzato sulle montagne russe.
Tutto sembrava combaciare. Ma com'era possibile che fosse ancora vivo? Avevano
testato su di lui quello che doveva essere un potentissimo veleno.
“Capo,
ho capito.” disse solo, alzando il volto a guardare Gin, che per tutta risposta
fece un cenno con il capo, come a intimargli di sbrigarsi a parlare.
“E'
quel ragazzino del Tropical Land, sarà passato ormai
più di un anno.”
Gin
socchiuse appena gli occhi. Si accese un'altra sigaretta. Il suo commento fu
breve.
“Continua.”
“Aveva
risolto un caso di omicidio, un uomo sgozzato sulle montagne russe se non
sbaglio. Ricordo che si sentiva Sherlock Holmes mentre..”
“Non
mi interessano particolari inutili.”
Vodka
ebbe di nuovo l'istinto di mettersi sull'attenti, ma cercò di rimanere
immobile. Meglio andare subito al sodo.
“Shinichi Kudo dovrebbe essere
morto da un pezzo. Ci stava spiando, tu te ne sei accorto e l'hai colpito alla
testa. Poi gli hai fatto ingerire una pillola, il veleno che avrebbe dovuto
ucciderlo senza lasciare alcuna traccia.”
Gin
sembrò ricordare all'improvviso. Il volto si irrigidì e gli occhi si
spalancarono, lasciando trasparire uno sprazzo di verde gelido. La sigaretta di
scivolò dalle labbra, e la schiacciò a terra infastidito, come stizzito per
aver mostrato un minuscolo e misero secondo di debolezza. Fece sprofondare le
mani nelle tasche. L'uomo oltre il cappotto nero sembrava essersi destato.
“I
fantasmi non esistono. Sarà un fotomontaggio dei giornalisti. Lo sai come sono:
disposti a tutto pur di far notizia.”
Vodka
non era davvero quello che può definirsi un uomo intelligente: ma, dopo averci
lavorato accanto per anni e anni, poteva dire di conoscere bene il suo capo.
Capiva perfettamente quando Gin aveva in mente qualcosa, quando aveva voglia
solo di essere lasciato in pace e di riflettere lontano da rumori
inconsistenti, quando era nervoso e l'unico rimedio era una sigaretta e quando,
colto alla sprovvista, mentiva per non lasciare intravedere niente di più che
la solita fredda schermata. E quella volta si trattava dell'ultimo caso. Cercò
di calibrare la risposta più adatta a non ferire l'orgoglio dell'uomo che gli
stava di fronte. L'illuminazione arrivò di colpo, inattesa quanto soddisfacente.
Sapeva che toccando quel tasto avrebbe risvegliato l'interesse del capo.
“Capo.”
“Che
c'è?”
“Mi
è venuta in mente una cosa.”
Gin
sembrò infastidito da tutto quel giro di parole. Fece solo un cenno con la
testa, come ad intimargli di sbrigarsi a parlare: non aveva tutta la vita da
dedicargli.
“Ricordi
chi ha confermato la morte di Shinichi Kudo?”
Gin
strinse appena le palpebre. Le immagini scorrevano a ritroso nella sua mente,
fino a ormai molti presi prima, dove quella storia andava collocata. Il film si
riavvolgeva veloce, e le scene si susseguivano una dopo l'altra, come un vivido
viaggio indietro nel tempo. Era esattamente come leggere un libro al contrario,
con la differenza che ad essere selezionate erano solo le pagine più
importanti: le stupidaggini e le piccole cose non erano degne di essere tenute
a mente. Per un attimo non ci fu Vodka davanti a lui: c'erano chiazze di vita
che si spingevano l'una contro l'altra e poi, di colpo, fu come premere il
piccolo tasto centrale che indicava la funzione play. I suoi occhi videro solo
una ragazza, i suoi capelli castani, lo sguardo basso ma la voce sicura, il
camice bianco che sembrava quasi dipinto addosso. Quelle iridi azzurre che a
tratti si piantavano su di lui, tremando di paura e soggezione intorno a quelle
pupille nere che invece esprimevano solo tutto l'odio che lei provava per lui,
l'assassino di sua sorella. Ricordava le sue parole, quando gli aveva detto che
la pratica era chiusa, che era tutto a posto. Per un piccolissimo secondo gli
sembrò di sentire quel profumo che tanto gli inebriava la mente e offuscava i
pensieri, ebbe come la sensazione di essere mesi indietro, quando lei era
ancora davanti a lui, quando poteva divertirsi a stuzzicarla come meglio
preferiva, prima che sparisse, volatilizzandosi come acqua nel deserto. Fu la
sua stessa voce a riportarlo al presente.
“Sherry.”
bisbigliò appena. Il sapore del sangue si diffuse nella sua bocca: doveva aver
morso il labbro senza rendersene conto. Ma non dispiaceva, non gli era mai
dispiaciuto. E in quel momento, poi, quella sensazione si accoppiava
perfettamente ad ogni suo pensiero.
“Esatto,
capo. E se ci avesse mentito?”
Gin
lo guardò appena. Sembrava improvvisamente rinvigorito: il pensiero di quella
donna aveva risvegliato l'uomo che stava al di sotto di quel cappotto, e ogni
più piccola molecola che scorreva nel suo sangue andava ad alimentare nel suo
cervello un solo, unico pensiero: ora sì che avrebbe cominciato a divertirsi.
“Sherry
è sempre stata più furba di quanto pensassimo.”
“Beh,
capo, è un cervellino niente male. E non solo quello, direi..” aggiunse,
ridacchiando maliziosamente. L'occhiata lacerante che gli riservò Gin raggelò
la sua risata. Forse aveva detto qualcosa di troppo. Tossicchiò, cercando di
ricomporsi.
“Che
facciamo?”
“Ridammi
il giornale.” rispose l'altro, strappandoglielo di mano senza nemmeno attendere
la risposta. Scorse in fretta l'intero articolo. Un istante dopo, sapeva cosa
fare.
“Ho
sentito per caso un notiziario alla radio prima di arrivare qui. Il corpo
dell'idiota che si è buttato giù dal ponte non è stato ancora ritrovato. Non ti
pare strano?”
“Potrebbe
essere caduto in fondo al fiume.”
Vodka
stesso si rese conto di quanto quella risposta suonasse stupida, ma in fondo
era solo dettata dalla voglia di concludere quella conversazione il prima
possibile. Aveva la netta sensazione che il suo capo avesse in testa per lui
una nuova missione. Gin non sembrò
nemmeno considerarlo.
“Potrebbe
essere ancora vivo. Quando vuoi morire, finisci sempre per non riuscirci.”
“E
anche se fosse? Buon per lui.”
“Invece
potrebbe tornarci utile. Segui il mio piano senza preoccuparti di elaborarne
uno: comunque non lo adotteremmo.”
Vodka
lasciò cadere la battutina nel vuoto, senza curarsene. Ormai era talmente
abituato che aveva imparato a mettere da parte l'orgoglio.
“Che
cosa credi che dovremmo fare?”
“Controllare
che sia davvero morto. Se è vivo, lo voglio.”
“Ma
come facciamo a trovarlo?”
“Come
farai a trovarlo. Io ho altro di cui occuparmi.”
“Capo,
io non capisco.”
“Non
c'è molto da capire, devi cercare questo tale Arthur Newman, per verificare se
sia davvero morto o meno.”
“Ma
lo cercano da un giorno intero senza risultato, e..”
“Se
ci mettessimo più di un giorno a trovare un latitante da quattro soldi, ci
chiameremmo polizia. Capito il concetto?”
Gli
scappò una risatina. Gin invece rimase impassibile.
“Dove
potrei trovarlo?”
“Dove
andresti se sapessi di avere il mondo alla calcagna e non te ne importasse
nemmeno così tanto? Se è vivo, sarà come un gattino spaurito: starà cercando un
posto solitario per morire in pace.”
Vodka
annuì.
“Quando
comincio?”
“Stanotte.”
Non
ci sperava più in un’altra risposta. Eppure sentirla gli perforava le orecchie
e gli tagliava le gambe. Quel lavoro non gli lasciava nemmeno un attimo di pausa
e, anche se l'attenzione del capo si era improvvisamente destata, il suo
interesse per tutta quella situazione dormiva ancora da qualche parte nel
profondo del suo animo.
“E
di quel detective che facciamo?”
“Una
cosa per volta. Se troveremo questo attore, ho già in mente un piano che
potrebbe permetterci di arrivare a Shinichi Kudo senza dare troppo nell'occhio. Altrimenti, dovrò
rivedere tutto.”
“E
la ragazza della foto? Chi sarà?”
“Scoprirlo
non sarà difficile. Ma tutto al momento opportuno, Vodka. La notizia è fresca,
il nostro piccolo detective è sulla bocca di tutti a quanto pare. Vediamo se
questo stimolerà la sua vanità e si farà vivo di nuovo, oppure se deciderà di
agire nell'ombra. Se tutta questa storia è vera e non è solo una montatura dei
giornali, questo Shinichi Kudo
è una preda più astuta di quanto pensassimo. Saprà che lo stiamo cercando, e
agirà con cautela. Per cui dobbiamo essere ancora più pazienti, e attendere il
momento giusto, per colpire senza possibilità di fallimento. E chissà che tutto
questo non ci porti anche a Sherry: sono sicuro che non è estranea a questi
avvenimenti. Ricorda: il trionfo si gusta meglio quando lo si assapora con
calma, boccone dopo boccone.”
“Agli
ordini, capo.” disse solo Vodka, preparandosi ad un'altra notte senza sonno.
“Ora
possiamo anche separarci: entrambi abbiamo qualcosa da fare. Sai come
contattarmi per qualsiasi novità.”
Si
voltò e andò via senza dire un'altra parola. L'uomo con gli occhiali, rimasto
solo, sospirò, riprendendo il suo cappotto che era rimasto appeso. Frugò nelle
tasche, e ne tirò fuori un fazzoletto avvolto su se stesso. Lo aprì, facendo
attenzione e non far cadere il contenuto per terra: vi erano alcune piccole
pilloline. Ne prese una, e la inghiottì senza l'ausilio dell'acqua. Quella
notte non poteva farcela ad andare avanti da solo. Si infilò il cappotto e uscì
a sua volta, pensando che, almeno per un'ora, gli sarebbe piaciuto essere
solamente l'uomo oltre quegli occhiali da sole: ma in fondo, c'era sempre
quella terribile paura. La paura di scoprire che, in realtà, in lui non c'era
altro che l'involucro di pensieri e mansioni che il suo ruolo gli aveva
assegnato. Più avanti, nella notte, c'era un uomo che, invece, stava
riprendendo piena coscienza di ciò che c'era oltre quel cappello nero. Un solo
vivido, fervente desiderio. Questa volta non se la sarebbe lasciata scappare.
Nella
vita ci sono cose che dobbiamo fare se vogliamo continuare a definirci
dignitosamente uomini. Ci sono situazioni da cui non possiamo scappare, e storie
che bisogna affrontare, anche quando la soluzione più facile e sicura sarebbe
semplicemente quella di sgattaiolare lontano, fuori da un pericolo troppo forte
o da una paura troppo grande.
Quel
giorno, Yusaku Kudo si era
trovato davanti ad una scelta di quel genere. E aveva deciso di poter
continuare a guardarsi allo specchio senza nessun rimpianto, senza vedere
persino riflessa sulla sua immagine una macchia nera e nitida nella sua
coscienza. Non poteva lasciare Tokyo fino a quando il corpo di Arthur non fosse
stato ritrovato: lo doveva a quel ragazzo, lo doveva al signor Sakamoto, che era morto senza nemmeno potersene rendere
conto, lo doveva a se stesso e sì, lo doveva anche al suo libro, a quelle
pagine che stava nervosamente sfogliando nella penombra di quell'enorme stanza
ricolma di libri. Lo doveva a Shinichi, a suo figlio.
Seduto sulla sedia, la luce della piccola lampada da tavolo accesa, le gambe
scompostamente poggiate sulla scrivania, osservava l'atmosfera magica che lo
circondava. Quell'enorme libreria, che anno dopo anno si era costruito, era
davvero il suo mondo interiore. Amava passarci le giornate, e, quando si
trovava a Tokyo, era quello l'unico posto in cui riusciva davvero a scrivere:
alle volte, lontano dai suoi amati libri, tra i grattacieli di New York si
sentiva un po' solo e spaesato. Provava nostalgia per il suo nido caldo e
sicuro.
Rilesse
l'ultima riga, per poi ripoggiare il libro sulla scrivania.
L'essere
umano, per quanto forte si creda, muore schiacciato dalla più stupida inezia.
Nonostante
le avesse solo pensate, nel silenzio surreale di quella stanza esse sembrarono
quasi riecheggiare. Era passato lentamente un giorno dalla notte precedente. Ed
erano successe talmente tante cose, come se la vita si fosse accanita di colpo.
D'improvviso si era stufata di starsene quieta, e aveva cominciato a picchiare,
lasciando lividi che non se ne sarebbero andati tanto facilmente. La scorsa
notte avrebbe dovuto essere un vero sogno: ritrovarsi a vivere l'atmosfera del
libro che lui aveva creato, respirare l'aria dei suoi stessi personaggi. Ma
finzione e realtà si era fuse fin troppo, e non era più stato possibile
separare una dall'altra e distinguerle. Sentì la testa pulsargli. Avrebbe
voluto immergersi nel silenzio del vuoto, senza rumore alcuno, fino a sentire
lo scorrere nel sangue dentro, fino a sentire solo se stessi. Si stropicciò gli
occhi assonnati sollevando appena gli occhiali. Nonostante sentisse il fisico
cedere pian piano, la mente non riusciva a riposare. Quando sentiva che stava
per esplodere o che qualcosa stava per schiacciarlo, scrivere era sempre stato
il miglior rimedio. Ci aveva provato anche quella notte, ma il suo tentativo di
dimenticare, di immergersi in un altro mondo, era miseramente fallito. E quella
era stata davvero la conferma: ora che finzione e realtà si erano fuse, non
sarebbe stato possibile allontanarsi da quest'ultima, per sprofondare solo
nella propria immaginazione. Quando l'arte diventa realtà, ne prende tutte le
caratteristiche: perde ogni funzione catartica e lascia spazio solo ai
martellanti rimorsi e sensi di colpa. E bisogna rialzarsi un poco alla volta,
capire fino in fondo, smacchiarsi l'anima e accettare quello che è successo e
che si è fatto perché tutto torni come prima. Yusaku,
in cuor suo, sentiva che ci avrebbe messo molto ad accettare quel che era
successo: sentiva chiaro e forte dentro di sé che, anche se fosse riuscito a
scrivere, per un po' le sue parole non lo avrebbero convinto. Sarebbero state
vuote, perché lui non sarebbe stato in grado di far involontariamente fluire il
suo inconscio attraverso di esse. Non sarebbe stato in grado di perdere ogni
controllo e lasciarsi andare: no, perché la realtà di tutto quello che era
avvenuto e non si era ancora concluso sarebbe stata sempre davanti ai suoi
occhi.
Ed
era arrivato quel momento in cui ogni suo desiderio stonava con la vita che il
destino gli stava lanciando addosso.
“Papà.”
Una
vocina aveva fatto capolino tra lui e i suoi libri. Ma non era una voce
invadente: era la voce di colui che tra tutta quella carta ci era cresciuto.
Era la voce di colui con cui si era ritrovato immerso in quello strano gioco
del destino. In quel pomeriggio avevano deciso come agire. Dato che nessuno si
era fatto vedere né avevano riscontrato niente di sospetto nei paraggi,
avrebbero abbandonato la casa la mattina presto, al sorgere del sole. Avrebbero
preso una macchina in affitto sotto falso nome, e si sarebbero allontanati se
non da Tokyo, almeno da quel quartiere. La mattina stessa Yukiko,
abilmente travestita, si sarebbe presentata all'agenzia di Kogoro,
e avrebbe spiegato ad entrambi la situazione. Alla fine, avevano convenuto che
l'unica soluzione era quella di coinvolgere l'ispettore Megure
per quanto riguardava la fuga di Ran e Kogoro: da soli non avrebbero potuto mantenere il segreto. Yusaku si era recato quel pomeriggio al commissariato, con
la scusa di informazioni sulle ricerche del corpo di Arthur. Parlando in
privato con l'ispettore, gli aveva spiegato una situazione vera solo a metà: Shinichi era coinvolto in un caso alquanto pericoloso, e
non voleva rischiare di mettere in pericolo la vita della sua amica. Megure aveva strabuzzato gli occhi, affermando che, senza
ulteriori informazioni, non avrebbe potuto aiutarlo. Yusaku
aveva detto che il caso non coinvolgeva la questura di Tokyo, e di fidarsi di
lui e basta, in nome di una vecchia amicizia. Non poteva aggiungere altro.
L'ispettore, alla fine, aveva accettato con un profondo sospiro: in fondo, Yusaku Kudo non l'aveva mai
deluso.
“Shinichi. Non dormi?”
Il
bambino gli si avvicinò, saltando agilmente sulla scrivania. Lanciò un'occhiata
al libro sul tavolo: la piega fresca della copertina gli fece capire che era
stato aperto da poco. Guardò gli occhi stanchi di suo padre e si chiese se
anche i suoi apparissero così, spenti e desolati ma, in fondo, coraggiosi. Si
strinse nel suo pigiama scolorito, incrociando le gambe.
“Potrei
farti la stessa domanda.”
“Non
ho sonno.”
“Dai
tuoi occhi non si direbbe.”
“Nemmeno
dai tuoi.”
“Dovremmo
riposare almeno un poco. Il domani comincerà presto, e non sarà una pratica
semplice.”
“E'
proprio quando abbiamo questo pensiero fisso in testa che non riusciamo mai a
chiudere occhio.”
La
luce di quella piccola lampadina bastava appena ad illuminare i loro volti. Ma
avevano la sensazione di potersi perfettamente scrutare anche nella penombra.
Nessun angolo di quel luogo era per loro sconosciuto.
“Ho
ascoltato il telegiornale della notte, ma non c'è nessuna novità.” disse Yusaku, con voce roca, quasi inceppata. Non si preoccupò di
schiarirla.
“E'
strano che non l'abbiano ancora trovato.”
“L'hanno
cercato tutto il giorno, ma il fiume restituisce solo carta fradicia e parole
scolorite.”
Silenzio.
Poi Yusaku parlò di nuovo.
“E
se fosse ancora vivo?”
“Non
lo so.”
“Non
posso andare via finché non lo saprò con certezza.”
“Lo
so, l'ho capito. E penso di comprenderti.” ammise il bambino.
Fu
ancora silenzio. Il legno di uno scaffale scricchiolò appena. Anche quel suono
era terribilmente familiare. Sapeva di casa.
“Shinichi.”
“Dimmi.”
“Sono
contento che tu sia stato a fianco a me ieri. E sono contento pensando che
affronteremo insieme quello che verrà.”
“Anche
io, papà.”
“Ma?”
“Cosa?”
“Ti
conosco. Quando la tua voce si appropria di quell'inflessione, c'è
qualcos'altro che vuoi aggiungere.”
Conan
sorrise. Non gli si poteva nascondere nulla.
“Ero
indeciso se dirtelo o meno.”
“Ormai
è andata.”
Esitò
un attimo prima di cominciare, come se non sapesse esattamente quale fosse la
parola giusta per iniziare. Ed essa sembrava rivestire un'enorme importanza.
Alla fine, decise che era meglio parlare senza pensare: quando si trattava di
esprimere sentimenti, era sempre la soluzione migliore, anche se non era quella
che gli si addiceva propriamente.
“La
scorsa notte, sul ponte, mentre tu ed Arthur parlavate.. ho provato una strana
sensazione. Come se.. come se lì fossi di troppo. Non so spiegartelo. Per un
attimo mi è sembrato che fra di voi si fosse instaurata un'intesa perfetta, e
io ne ero tagliato fuori, ma non in senso negativo. Mi sono sentito paralizzato
nel ruolo di spettatore.”
Sì,
proprio così. Si era sentito estraneo ad un mondo che a tutti gli effetti non
gli apparteneva. Lui era troppo razionale, troppo calcolatore per lasciar
fluire l'immaginazione fino agli elevati livelli della fantasia.
Yusaku sorrise, reclinando il capo all'indietro.
Sorseggiò un po' dell'acqua che aveva portato con sé. Sapeva che quella non era
il tipo di confidenza per cui serviva una risposta. Quando c'è qualcosa che si
vuole dire, alle volte basta dirlo e nient'altro. E il ruolo altrui è solo
quello di ascoltare, lasciando liberare l'animo di chi vogliamo bene.
“Meglio
così, allora. Perché penso che nei prossimi giorni ti toccherà il ruolo da
protagonista.”
Conan
sorrise. Eppure c'era una cosa che voleva sapere.
“E
tu?”
“Cosa?”
“Non
l'hai avuta questa sensazione? Non ti sei sentito, per un attimo, solo, con il
resto del mondo lontano più che mai?”
Suo
padre leccò appena le labbra ancora bagnate, come a prendersi il tempo per
rispondere. Gli occhi lasciavano trasparire una mente ancora persa nel ricordo
di quella notte troppo vicina.
“E'
stata una sensazione strana, davvero strana.”
“Bella?”
“Definirla
così mi sembrerebbe davvero un delitto.”
“Forse,
ma lo sai che non ti giudicherei.”
Yusaku sospirò appena. Poi bisbigliò piano, in un
sussurro: “Sublime. Sì, la definirei così.”
“Dicono
che solo gli animi grandi e nobili siano in grado di percepire a pieno il
sentimento del sublime.”
“Lo
prenderò come un complimento.”
Conan
prese in mano la copia di In bianco e nero che stava riposta in silenzio
sul tavolino. Forse era giunto il momento di parlare anche per lei. La aprì
alla prima pagina e lesse piano, scandendo le parole:
“Il
giorno nasceva piano, scolorendo la luna dal cielo. Le nuvole si muovevano
sospinte dal vento, sballottate di qua e di là, gonfie e boriose, come
terribilmente sicure di loro stesse. La rugiada che scivolava sulle foglie..”
“Basta.
Non ora. Quelle parole mi fanno male.” intimò la voce incrinata del padre. Il
bambino non osò proseguire. Un tuono rimbombò facendo tremare le pareti della
casa.
“Piove?”
chiese Conan, rivolto non sapeva nemmeno lui a chi.
“Così
pare. Forse dovrei dire una frase stupida e banale, del tipo anche il cielo
oggi piange?”
Il
figlio scosse il capo: “No, è troppo scontata. Da un grande scrittore come te
mi aspetto di meglio.”
“Allora
ti dirò che mi piacerebbe correre fuori, e lavarmi tutto di dosso. Lasciarmi
scorrere sulla pelle ogni cosa, ogni problema, ogni preoccupazione, ogni
maschera e ruolo ed essere soltanto l'uomo che c'è oltre questo paio di
occhiali e quella cravatta che mi piace tanto portare. Che cosa resterebbe
secondo te?”
Il
padre sembrò lanciargli uno sguardo disperato, come a chiedere aiuto. Come se
avesse davvero paura che potesse non rimanere più nulla oltre tutto quello che
ogni giorno lo ricopriva. Conan sorrise appena e gli porse la copia di In
bianco e nero che teneva in mano.
“Ma
che domande sono, papà. Lo sai benissimo anche tu: resterebbero i tuoi libri.”
Al
piano di sopra, avvolta da un lenzuolo candido e leggero, una bambina non
riusciva ad addormentarsi, tormentata anche lei da una notte di pensieri e
domande senza risposta. E, oltre i tuoni che padroneggiavano nel buio, le
sembrava di sentire confuso con essi ma abbastanza nitido da essere percepito, il
rombo del motore di una vecchia macchina scoppiettante. Cercò di non pensare,
di avvolgersi in quel lenzuolo e sprofondare in quel cuscino morbido. Ma era
tutto inutile. Non bastava un cuscino a proteggerla dai fantasmi. Facendosi
coraggio, si alzò, camminando piano in punta di piedi fino alla finestra. La
tapparella non era del tutto abbassata, quella sera aveva avuto paura del buio.
Sbirciò oltre la fessura che aveva lasciato, ma la pioggia le appannava la
vista. Sembrava scendere dal cielo come un torrente in piena, e scrosciava
ininterrottamente sul cemento della strada. Fu allora che un lampo illuminò la
via. I suoi occhi azzurri scorsero, parcheggiata poco distante, una macchina
nera. In quell'istante di luce improvvisa, le sembrò di riconoscerla chiaramente.
La gola si seccò, l'urlo impietrito non trovò la forza di uscire. Corse nel
riparo labile del suo lenzuolo, cercando di calmarsi. Forse era tutto solo una
grande, paurosa suggestione.
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E dopo ben due mesi, eccomi di nuovo qui!
Anche questa volta in ritardo, anche se non c’è stato un solo giorno in cui non
abbia pensato a questa storia. Purtroppo maggio è stato davvero un mese di
inferno, ho dovuto affrontare un esame davvero difficile e ci ho messo tutta me
stessa. E ora, che ho qualche giorno di “studio tranquillo” prima degli altri
esami, ho ripreso in mano il capitolo, l’ho completato e l’ho corretto. Alcuni
pezzi non mi convincono molto, ma lascio giudicare voi. E’ il più lungo dall’inizio
della storia, spero non l’abbiate trovato annoiante. Mi piace “perdermi” a
scrivere sulle emozioni dei personaggi, su quello che possono rappresentare e
lasciarmi andare a qualche riflessione :) Per me la scrittura è il modo di
evadere per un po’ dalla realtà quotidiana. So che in questo modo forse la
storia potrebbe risultare lenta, ma è il mio modo di scrivere e vedere le cose,
e penso non riuscirei a fare altrimenti.
Adesso la storia entra davvero nel vivo,
dato che i nostri Gin e Vodka si sono svegliati dal letargo :)
Che cosa dire.. spero che il capitolo vi
sia piaciuto e che, nonostante i miei ritmi, continuiate a seguirmi :)
Ringrazio tutti, ma davvero tutti quelli
che hanno letto, recensito, messo la storia tra le seguite, preferite e ricordate.
Un grazie grande come al solito ad Aya_Brea che
sopporta i miei deliri mentre scrivo u.u
Se avete tempo di farmi sapere cosa ne
pensate, ne sarei felice :)
Concludo augurando a tutti la buona
fortuna se anche voi siete in pieno periodo di esami, e buone vacanze a chi
invece l’estate l’ha già cominciata.. e se lavorate, tenete duro in attesa
delle ferie ;) E infine: coraggio Italia per questa sera!!! (Eh si, sono una fan sfegatata del calcio u.u)
Un bacione grandissimo,
Flami