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Autore: aturiel    14/06/2014    10 recensioni
Una giovane fanciulla nobile e dispettosa alle prese con il suo piccolo indiano cieco.
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Prima classificata al contest "It's difficult..."
Partecipa al contest "L'amore ai tempi di EFP"
Partecipa al contest "Contest del Cliché"
Genere: Malinconico, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Storico
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«Signorina Juliet, vi abbiamo portato il vostro regalo di compleanno!»

Una fanciulla di quasi dieci anni si alzò da una delicata sedia di legno dipinta di bianco, come quella delle case di bambola. Il suo vestitino azzurro pastello strusciò leggero sul pavimento mentre i suoi piccoli passi eleganti risuonavano ovattati nella stanza graziosa e femminile.

Certamente i suoi occhietti chiari si aspettavano un nuovo abito, un paio di quelle carinissime scarpette col tacco che aveva visto nel negozio del calzolaio l’altro pomeriggio o, al massimo, una nuova bambola di ceramica. Non si sarebbero certo aspettati di vedere invece un bambino della sua età, vestito di bianco e con la pelle color carbone. Ma, forse, la cosa più strana non era lui in sé, bensì i suoi occhi: tutti celesti, compresa la pupilla.

«E tu chi sei?»

Una voce tremante sussurrò, con uno strano accento:

«Mi chiamo Nihar, signorina Juliet.»

«E dov’è il mio regalo di compleanno?»

«Sono io.»

Intanto l’uomo sulla sessantina che aveva portato il piccolo per mano disse:

«Nihar sarà il vostro nuovo compagno di giochi. Viene dall’India e abbiamo pensato di portarvelo per i suoi occhi: non sono forse del vostro colore preferito?»

«Ma io volevo le scarpette!»

«Ci saranno tanti altri compleanni e le scarpette le avrete un’altra volta. Intanto che ne dite di far visitare la casa a Nihar?»

Juliet allora prese la mano di Nihar con una certa diffidenza e lo trascinò fino nel salotto. Lì cominciò a descrivergli ogni cosa, ogni colore e ogni più piccolo oggetto che popolavano la stanza. Quando ebbe finito sentì il ragazzino tirargli piano una manica. Lei allora, infastidita, gli chiese:

«E adesso che hai?»

«Mi puoi dire com’è l’azzurro?»

«L’azzurro è quel colore dolce e tenue che c’è ovunque, quello dei tuoi occhi, quello del cielo, del mare, del mio vestitino e delle mie scarpe. Tu non lo vedi, scusa?»

«No.»

«Come no?»

«Io vedo tutto buio.»




 
Nihar aveva sempre suddiviso le persone in due gruppi: quelle che lo trattavano con gentilezza e quelle che invece erano prepotenti con lui.

La cosa curiosa è che le prime erano quelle che sopportava meno.

All’inizio sorrideva quando lo chiamavano “povero bambino”, ma ora quelle voci piene di pietà lo infastidivano soltanto.

Non voleva essere compatito.

E a lui, quella ragazzina pestifera, piaceva proprio perché non lo faceva affatto.

Certo, lo prendeva in giro quando andavano al mercato e non poteva vedere i mille colori delle bancarelle, o quando c’era una festa e lo vestiva in modi ridicoli, sapendo che tanto lui non se ne sarebbe accorto o facendogli baciare vecchie o vari animali fatti passare per bellissime e dolcissime ragazze. Ma, in fondo, quando la sentiva ridere tutta la rabbia passava, anche perché sapeva che, in fondo, lei non era cattiva.

Lei non era cattiva.

Altri lo erano. Parecchio anche.

Ma Nihar non si lamentava mai, poiché sapeva di essere stato già abbastanza fortunato. Gli altri bambini infatti erano stati mandati a lavorare nelle più disparate case nobiliari della città come schiavi o poco più.

Lui invece si era salvato proprio per quegli occhi che, se prima gli avevano creato problemi, per quella bambina viziata erano “carini”.

Però non c’era solo lei.

Si sentiva così impotente a volte: tutte quelle occasioni in cui era sicuro di avere di fronte la persona con cui stava parlando e invece se l’era ritrovata dietro. Oppure quando gli lanciavano qualcosa sul capo e lui non sapeva mai dove muoversi per rispondere in qualche modo.

Con gli altri si sentiva sempre inferiore, sempre un gradino sotto.

Con lei no. Si sentiva come in una compagnia di amici: ci si prendeva in giro, si litigava ma non ci si lasciava mai indietro. Mai.




 
«Nihar, giochiamo a nascondino!»

Insomma, la signorina ha voglia di vincere e sentirsi superiore, oggi.

«Come volete voi, signorina.»

«Dai, ti ho detto almeno mille volte che, quando siamo soli, non voglio sentirmi chiamare “signorina”.»

Sospirò piano, sconsolato.

«Va bene, Juliet.»

Non si rendeva conto di quante volte si era ritrovato le dita pulsanti di dolore per colpa delle sue fisse.

«Allora,inizi tu a contare! Fino a venti e, mi raccomando, non barare!»

Nihar iniziò a contare, scandendo bene i numeri e prestando attenzione a tutti i rumori.

Non ne sentì.


«… 20! Juliet, arrivo!»

Iniziò a camminare allungando le mani per evitare di colpire qualcosa e beccarsi un’altra punizione.

Crack

Uno strano suono era risuonato da dietro di lui.

Si voltò velocemente e si ritrovò qualcosa di morbido e umidiccio sulla bocca.

La strana sensazione lo fece ritrarre velocemente.

Chissà che schifo era…

«Juliet, mi arrendo. Dove sei?»

Uno schiaffo.

«Ahi! Ma che ti ho fatto ora?»

«Stai zitto, Nihar.»

Non sapeva proprio che fare con gli sbalzi d’umore di Juliet.

«Sì, signo…»

«Zitto, zitto. Stai zitto

Che vita…




 
A vent’anni la vita di Juliet cominciò a complicarsi: il fratello maggiore si suicidò per debiti di gioco troppo pesanti e lei si ritrovò tutt’un colpo a dover fare i conti con il padre che avrebbe voluto farle sposare un certo signor Hensly.

Dicevano fosse molto ricco e abbastanza vecchio da far sperare in un’eredità cospicua e in breve tempo.

Ma ovviamente la signorina non ne fu contenta.



Stava seduto su una poltrona, Juliet era accanto a lui.

«Signorina Juliet, vostro padre vi vuole parlare. In privato.»

Sentì la giovane alzarsi e una porta poco più in là chiudersi.

Dopo qualche minuto di silenzio iniziò uno strano borbottio di voci.

Nihar non riusciva a cogliere niente di ciò che stavano dicendo, se non qualche parola detta con un tono teso più di una corda di violino:

«Ma non posso… conosco!… ma… vecchio e… altro.»

«Juliet… sola! Non… fanciulla per bene.»

Poi iniziarono ad urlare:

«Ma non voglio sposarmi con un vecchio decrepito la cui unica virtù è il denaro!»

«Ma hai vent’anni ormai e dopo la morte di tuo fratello…»

«Quindi preferisci veder morire anche me? Vuoi davvero che la vera Juliet si spenga in una casa sconosciuta, sotto delle rugose mani di un depravato?»

«Il signor Hensly non è un depravato! Ma come ti permetti femmina insolente!»

«Potrebbe essere mio padre… ma che dico, mio nonno!»

«Non mi interessa. Tu lo sposerai per il bene della famiglia.»

«Non pensavo di dover arrivare a dirlo a mio padre ma… no. Non lo farò, né adesso né mai. Sposerò chi più mi aggrada, anche se fosse uno squattrinato, diseredato dalla sua famiglia e con meno anni di me. E se non ti va bene, addio padre.»

«Juliet, non provare ad andartene!»

«Lo sto facendo.»

Una porta sbatté violentemente.

Tutto d’un tratto si ritrovò con le braccia di Juliet avvolte intorno al corpo.

Sentì qualcosa di non suo che scendeva sulla sua guancia, rigandogliela.

Poi un sussurro:

«Addio, caro Nihar.»

E solo passi frettolosi.
 


E ora dove sei, Juliet? Che fine ti ha riservato la sorte?

Sono ormai quattro anni ormai che non mi arrivano tue notizie.

E mi manchi, mi manchi terribilmente.

Ma io lo so che, un giorno o l’altro, andando al mercato, sentirò una risata cristallina, un soffio di profumo e saprò che tu sei lì, vicino a me.

E non c’è bisogno che mi parli, o che ti avvicini, mi basterà sentirti lì con me, in quel piccolo ritaglio di tempo.

E saprò che non mi hai mai abbandonato.

E ne sarò felice perché ho capito che ti amo.

E questo sentimento mi sembra… così azzurro.
   
 
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