In una goccia
il
buio
- Non mi hai portato i
tuoi disegni nemmeno oggi. Perché?-
- Sarebbe come farle
vedere la mia biancheria intima, dottore. E io non le faccio vedere che mutande
porto.-
- Potrebbe essere
interessante però.-
- Interessante? Perché?
Ah, scusi. E' lei che fa le domande. Me ne faccia una. Una seria però.-
- Perché ti sei buttata
da quella scogliera? Potevi ucciderti, lo sai.-
- Ma io non volevo
uccidermi. Volevo vivere.-
- Vivere? E come? Facendo
un volo di 30 metri nell'acqua gelida?-
- Le posso assicurare che
in quei trenta metri non finivo più di vivere. Non penso di aver mai vissuto
tanto come in quel momento, dottore.-
- Ma cosa ti ha portato
ad un gesto tanto violento? Ci sono molti modi per cambiare vita... modi più
soft, diciamo.-
- Pensavo lei volesse
capire il sentimento che stava dietro alla mia scelta, non perché non avessi
semplicemente buttato i miei vestiti per rifarmi l'armadio nuovo. So che ci
sono modi più soft per cambiare vita. Dio... lo so. Ma non volevo cambiare
vita. Non c'era nulla da cambiare. Dovevo ricominciare. Di nuovo, nascere dal
ventre di qualcosa. Il mare, il buio... abbastanza poetico no?-
- No, non credo sia
poetico. Credo sia disperato. Si cancella qualcosa quando decidiamo di rinascere
per atto violento, e non per accettazione di quello che si è.-
Silenzio.
- Provi lei. Provi lei,
ad essere legato. Intrappolato. Provi lei.-
- Cosa significa?
Intrappolato da cosa?-
- Ahhh,
dottore. Lei mi delude. Non ha visto l'orologio? Il tempo per oggi è finito.-
- Potremmo continuare
ancora se vuoi. A quest'ora puoi comprendere che la mia unica paziente sei tu.-
- Quale onore. Allora a
domani dottore.-
- Portami i disegni, Anthea. Portameli.-
- Ci vuole più di una
sera al chiaro di luna per quello. C'è ancora tempo.-
- La soluzione è lì, lo
so. Fidati di me, è quello che un paziente dovrebbe fare col proprio medico.-
- Ahhhh
dottore, dottore. Ma come posso fidarmi così ciecamente con uno che ha poco più
della mia età e si diverte a psicanalizzarmi fino alle due di notte. Non posso.
Ci vuole tempo.-
- Sei un osso duro. Ma
hai ragione... c'è tempo.-
- Buonanotte dottore... e
grazie.-
- Buonanotte Anthea...e prego.-
Trovati te intrappolato
in una goccia d'acqua. Dottore, lo sai, il mio incubo ogni tanto ritorna.
Nonostante mi sia depurata senza respiro, bloccando l'ossigeno nei polmoni,
quella cazzo di goccia è lì, che mi impregna di cose vuote, mi annega nel nulla
e io soffoco più di quando mi sono gettata nell'acqua. Dottore, te non lo sai
cosa significa. Ritrovare quella goccia che cade, maledetta, dal rubinetto dei
tuoi sogni, pronta a riempirti occhi, bocca, naso, gola. Sentirsi vuoti, come
se una goccia potesse avere l'effetto dell'acido. Ma se te lo dico sembro
pazza. E' partito tutto da un rubinetto. In uno stanzino nero, un rubinetto
perdeva. Sentivo solo quello, nient'altro. Sentivo solo il ticchettio di una
fottutissima goccia d'acqua. E tutto il dolore, l'indignazione, lo schifo...
tutto si perdeva nel nero del suono cupo e cristallino di una goccia. Ero una
goccia, si era presa tutto di me. Ero vuota. Ero piccola. E nessuno si accorse
mai di nulla.
Portami i tuoi disegni.
Dimmi ancora come hai fatto ad estorcermi quelle parole di bocca. Sei bravo,
giovane dottore. Tu sì che sai come spogliarmi. E spogliarmi sul serio, dico.
Forse mi fai un po' paura. Ma so, so che devo farlo. Con te mi devo spogliare
di tutto. Perché il mare lava, ma non così a fondo come credevo. Qualcosa di
sudicio c'è ancora. E non sarò in pace finché anche quel minuscolo brandello di
nero non se ne sarà andato via. La mia anima era bianca. Non sono stata io a
conciarla in quel modo. A brandelli. Straziata da mani brutali e impazienti che
non hanno nemmeno voluto la mia incoscienza per massacrarmi così. Voglio dire,
ero solo una bimba. Non sono stata io. E' quello che vorresti dirmi dottore,
perché te hai capito forse. Mi stavi spogliando, ci stavi riuscendo la
settimana scorsa. Ma non sono ancora pronta, ho bisogno di tempo. Voglio fare
le cose con coscienza stavolta, un volo nel vuoto non è servito come speravo.
Pensaci te, dottore, ti prego. Pensaci te.
Quei fogli maltrattati
ritraggono la goccia. Come me la immaginavo, mentre si gonfiava placida al
bordo del rubinetto, un collo tozzo d'acciaio arrugginito. Ti gonfiavi, nella
mia mente diventavi obesa ed eri soddisfatta del tuo grasso d'acqua, perché
così potevi fare più rumore quando ti schiantavi sulla ceramica del lavabo. Non
scherzare con me, maledetta goccia. Io c'ero. Ti ho sentita. Era l'unica cosa
che facevo. Sentirti gonfiare come un bombolone nell'olio bollente, e poi
scoppiare ridendo di me. Ridendo di quello che mi stava accadendo. Tra la
distruzione e la pace, c'eri tu, goccia. Una goccia sudicia. Arrugginita.
Dottore, dottore, domani.
Pensiamo a domani. Sai, quando ti ho trovato ho pensato a un segno del destino.
All'improvviso, tutto aveva un senso. L'incoscienza apparente, la memoria
svanita, la vanità sfigurata. Doveva finire. Ti vedevo così forte e pacato,
giovane, troppo giovane per essere così forte. Il tuffo è stato una sfida per
me. Se non vedi il buio, non sai come possa brillare la luce. Tuffarsi è stato
nulla. Quegli scogli li conosco da una vita ma quel salto, così alto, nessuno
lo fa. Io sì. La mia nuova Anthea, sì. Muore e
risorge, come una fenice di luce. E ho visto una luce splendida in quei secondi
immensi, quel momento in cui la discesa è finita ma la risalita deve ancora
cominciare. Immersa in acqua gelata, fino a dove le orecchie si ferivano, il
mio corpo si ricomponeva. E nessuna mano ruvida lo toccava, e nessuna goccia
cadeva. Circondata dal tutto di un ventre colmo di silenzio magico, mi
ricreavo. La luce poi è stata un battesimo. Vita. In trent'anni ne avrò vissuti
cinque. La vita era volata via quella mattina di marzo, in quello stanzino
nero, con la goccia che cadeva, regolare, e rideva. Ma ora ero io a ridere. Ero
io. Che senza fiato uscivo dal ventre materno del mare freddo per riprendere il
primo respiro. Il primo respiro l'ho fatto da me, dottore. Sono orgogliosa di
questo. Il secondo però devi farmelo fare te. Una scrittrice dice che nessuno
si salva da solo. Forse ha ragione. Forse sei te la mia chiave di volta. Un
vicino di casa, un dottore, la salvezza. Dico, forse. Se con un caffè amaro
sono riuscita a farmi avere le tue consulenze gratis da mezzanotte in poi,
ammetto che il forse dovrei mandarlo a farsi benedire. Hai visto subito
qualcosa in me. Una follia sana, dici? Vedremo.
E se ti portassi i
disegni? Non mi daresti della pazza? Se mi spogliassi di fronte a te, non mi
guarderesti inorridito? Perché pian piano i ricordi sono venuti fuori, e la
goccia che prima rideva e ora non ride più, per un certo periodo era stata
accantonata per dare maggiore attenzione ad altri particolari di quella
mattina. Sono stati quelli a distruggermi di più, ma non riuscivo a dare loro
un volto. Perdonami dottore, ma ero piccola, spaventata, mi rendevo conto solo
della goccia, io con la testa non c'ero già più. Volavo, volavo via, e pensavo
a quella minuscola goccia d'acqua, alle centinaia di gocce che sono cadute, una
dopo l'altra, a coprire la mia vergogna. Ero una bimba, dottore.
Pensandoci bene, che vita
hai dottore? Perché se io non sto bene, ammetto che nemmeno te devi stare molto
bene per prenderti il mio bel fardello, così, tanto per la gioia di aiutare.
Non hai una donna? Una signora per il dottore. Sono sicura che potresti averne
a centinaia. E che le tue mani sarebbero dolci, e non ruvide, con loro. Non le
spoglieresti velocemente, preso da un raptus violento. Sarebbe indegno per un
animo così nobile.
Ho le mie cicatrici
dottore, non potevo cambiare vita. Le cicatrici sono troppe, dovevo solo
cancellarle per ricreare il mio corpo. Un essere vitale deve avere le sue ali
per volare, le mie erano state distrutte. Avevo volato troppo quella mattina,
avevo volato così tanto che, piuma per piuma, mi si sono sfaldate sotto gli
occhi. E come facevo a volare, come facevo a vivere? Così ho volato di nuovo
per vivere, un volo violento, senza ali, per riprendermele alla fine del
viaggio. Me le merito. E se mi dici che ho fatto bene ti porto i disegni,
giuro. Ahhh, dottore, vai a letto, cavolo. Spegni
quella luce, la vedo da camera mia, sai? Se non spegni la luce il mio cervello
non smette di blaterare. Mi fai ragionare troppo, ora voglio dormire, sperando
di riuscirci. Due giorni fa ti ho detto che a volte ho degli incubi. Non sono
scesa nei particolari, ma sai che sono davvero brutti se una donna della mia
età se ne lamenta così. Te mi hai insegnato un trucchetto.
Quando succede, pensa di venire da me, hai detto. Pensa a capire perché questi
incubi ti spaventano tanto e poi me lo racconti, Anthea,
hai detto. E in effetti funziona. Se ho un incubo che mi sveglia, penso a te,
dottore. A te che dormi sereno, dopo una
giornata lunghissima di lavoro e che vedi la mia come ultima faccia prima di
andare a letto. Penso che sono fortunata, ho te almeno. Vediamo di capirci, non
ti vedo in quel modo. Ma so che mi proteggi. In un modo tutto tuo, mi proteggi.
E io riesco a riprendere sonno e a dormire.
Bravo dottore, hai spento
la luce. Io mi prendo la coperta perché stasera fa veramente freddo. Passo
accanto alla scrivania. Su un tavolino spartano quei fogli risaltano come unico
ornamento. Li osservo con una smorfia. E va bene. Li raccolgo. Domani mi serviranno.