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Autore: Alaska__    16/06/2014    3 recensioni
In revisione
{ Anya and Yasha Ivanov • DISTRETTO 7 • Spin off di Hurricane of fire }
La nonna strinse per l’ultima volta la mano di Anya. «Abbi cura di te», disse, prendendo Yasha per mano, ma il bambino si divincolò e si gettò ancora addosso alla sorella.
«Non voglio lasciarti!», esclamò. Anya sorrise e allentò la presa delle braccia del fratellino attorno alla sua vita.
«Va’, Yasha. E ricordati ciò che ti ho detto». Si abbassò fino al suo orecchio. «
Ja tebija ljublju», sussurrò.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Sparks • Picking up the pieces. '
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Premessa: questi personaggi mi appartengono. La storia è divisa in quattro parti: una, intorno ai settantesimi Hunger Games, due durante i settantatreesimi e l'ultima è ambientata dopo la rivolta.

 


« Just close your eyes
The sun is going down
You’ll be alright
No one can hurt you now.
Come, morning light.
You and I’ll be safe and sound »
 
«Anya?», pigolò il bambino, con la testa immersa sotto le coperte. La ragazza levò il capo dal cuscino, allarmata dal richiamo del fratellino. Con un sospiro, si alzò dal letto, infilandosi in quello di Yasha. Il bambino aveva il volto rigato dalle lacrime e, non appena Anya fu accanto a lui, le circondò la vita con le braccia, riprendendo a singhiozzare.
La tredicenne gli carezzò dolcemente i capelli bianchi – del medesimo colore dei suoi; capelli tipici della famiglia Ivanov.
«Hai fatto un brutto sogno?», domandò. Il bambino annuì impercettibilmente, con il volto premuto contro il petto della sorella maggiore. «Vuoi dirmi cos’hai sognato?», lo incalzò Anya. Yasha alzò lo sguardo, finché i suoi occhi non incontrarono quelli della ragazza. Erano uguali, i loro occhi: azzurri, grandi. Si assomigliavano moltissimo, Anya e Yasha, in tutto e per tutto.
«Non era un brutto sogno, in realtà», ammise il bambino, sciogliendo l’abbraccio della sorella e sdraiandosi accanto a lei. «Era un bel sogno. Ecco perché piango», mormorò, passandosi una mano sul naso per asciugarlo. Anya gli posò un bacio sui capelli arruffati.
«I bei sogni non dovrebbero far piangere. Dovrebbero far piacere», sentenziò, asciugandogli le guance con i pollici. Yasha si morse il labbro inferiore, mentre gli occhi gli si riempivano nuovamente di lacrime.
«È per questo. Faceva troppo piacere e, a volte, i sogni che fanno troppo piacere fanno anche tanto male», spiegò. Anya rimase zitta, colpita dall’ultima frase detta dal fratellino. Suonava male, detta da un bambino di soli sei anni. Anya, però, sapeva che suo fratello non era come gli altri bambini di sei anni. Era speciale, in un modo che nessuno si sapeva spiegare, né lei né la nonna. Da sempre mostrava di avere un’intelligenza diversa dai suoi coetanei, sembrava quasi più maturo.
«E mi dici cosa hai sognato?»
Yasha tirò su con il naso, rumorosamente. «Ho sognato mamma e papà», sussurrò, e Anya sentì il cuore sprofondare. Suo fratello non aveva fatto in tempo a conoscere i loro genitori. Erano morti quando lui aveva pochi mesi, in un incidente sul lavoro, alla diga ovest. «Erano come nella foto», aggiunse il bambino, riferendosi alla fotografia che tenevano in salotto, su uno dei pochi mobili che avevano. Era stata scattata quando i loro genitori erano ancora giovani, intorno ai vent’anni. Li aveva fotografati una loro amica – una delle poche persone a possedere una  macchina fotografica al Distretto 7. Rappresentava i due, sorridenti, mentre si abbracciavano. Anya la osservava a lungo, certe volte, perché aveva paura di dimenticare i loro volti. Sua madre – Kristina – aveva i capelli biondi e gli occhi verdi. Sua nonna sosteneva che Anya le somigliasse moltissimo, nei lineamenti. I capelli bianchi li aveva ereditati dal padre, Nikolaj. Tutti gli Ivanov li avevano così, era la loro caratteristica.
«Avrei tanto voluto vederli per davvero, i loro volti», mormorò Yasha. «Mi racconti com’erano?», chiese dopo dieci secondi, guardando implorante sua sorella maggiore. Anya sospirò, togliendo l’elastico dal polso e legandosi i capelli in una coda alta. Si riappoggiò alla testata del letto, chiudendo gli occhi. Aveva già raccontato spesso di loro a Yasha, ma non scendeva mai nei dettagli, un po’ perché anche lei se li ricordava poco, un po’ perché parlare di certe cose faceva ancora male, anche a distanza di sei anni.
«Si chiamavano Kristina e Nikolaj», cominciò, mentre il fratellino si accoccolava contro il suo fianco. «Nonna mi ha raccontato che si fidanzarono molto giovani. Avevano entrambi origini russe. Sai, no, quel paese di cui la nonna ci ha raccontato un po’ di tempo fa?»
«Sì», mugolò Yasha. «Papà faceva parte di una grande famiglia di quel paese».
«Esatto. Gli Ivanov erano una famiglia importante, là, ma durante la guerra si sono trasferiti, o qualcosa del genere». La ragazza fece una pausa. Non sapeva moltissimo riguardo le origini della sua famiglia. Le uniche due cose che la tenevano legata ad essa erano i suoi capelli bianchi e la lingua, che la nonna le aveva insegnato da piccola. Yasha l’aveva già imparata, in un tempo da record.
«La mamma era bella come nella foto?», chiese il bambino. Anya sorrise, carezzandogli i capelli.
«Era bellissima», rispose. «Ricordo che sorrideva sempre. Non l’ho mai vista arrabbiata. Papà, invece, era un po’ più burbero, ma era tanto gentile quanto lei». Si fermò ancora, sentendo le lacrime formarsi agli angoli degli occhi. Aveva ben pochi ricordi dei suoi genitori, ma tutti erano belli. Le piaceva ripensarci, ogni tanto, e immaginava che loro due fossero ancora accanto a lei. Provava a sentire di nuovo la sensazione provocatale dalle mani callose di suo padre che le carezzavano i capelli, o quella delle mani ben più delicate di sua madre che glieli intrecciavano, mentre cantava una canzone.
«A mamma piaceva cantare», raccontò. «Ogni sera, prima che io dormissi, mi cantava sempre una canzone per farmi addormentare. Aveva una voce meravigliosa».
Yasha alzò la testa per guardare la sorella negli occhi. «Come te», disse, allungando una manina verso l’occhio destro di Anya, per asciugarle una lacrima. La giovane sorrise. Le piaceva cantare, ma sapeva di non avere il talento di sua madre. Quando quest’ultima cantava, sembrava un angelo.
«Mamma era molto più brava».
«Anche tu. Mi canti una delle canzoni di cui mi parlavi?», domandò Yasha, gettando le braccia al collo della sorella.
«D’accordo, ma poi devi dormire, va bene?». Il piccolo annuì, sdraiandosi in posizione fetale, con le braccia allacciate alla vita della sorella. Anya fece un bel respiro, scegliendo una delle sue canzoni preferite.
«Just close your eyes | The sun is going down | You’ll be alright | No one can hurt you now | Come, morning light | You and I’ll be safe and sound», intonò. Andò Avanti per qualche minuto, finché non vide le palpebre di Yasha abbassarsi sempre di più. Pian piano, il bambino scivolò nel sonno, con i capo poggiato sul cuscino. Anya si liberò della sua stretta ormai flebile e scivolò fuori dal letto. Si fermò, per scoccargli un piccolo bacio sulla testolina.
«Ja tebja ljublju», sussurrò all’orecchio del fratellino.
 
*
 
« I remember tears streaming down your face
When I said “I’ll never let you go”
When all those shadows almost killed you light.
I remember you said “Don’t leave me here alone” »
 
Anya giocherellava nervosamente con l’estremità della sua lunga treccia, attendendo il momento in cui sua nonna e Yasha sarebbero entrati nella stanza, per porgerle l’ultimo saluto.
La ragazza sospirò, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi, mentre la voce di Jane che pronunciava il suo nome a voce alta continuava a rimbombare nella sua mente. Non riusciva ad essere arrabbiata, solo triste e spaventata. Se pensava che qualche anno prima la tentazione di offrirsi volontaria per sfamare la sua famiglia l’aveva sfiorata, le veniva da ridere. Alla fine, la sua unica consolazione era stata portarsi a letto uomini diversi, per racimolare qualche soldo e dar da mangiare al suo fratellino e a sua nonna. Nemmeno le tessere riuscivano a dar loro abbastanza cibo.
Si sedette sulla poltroncina, cercando di calmarsi, anche se le riusciva difficile. Doveva mostrarsi forte quando sarebbero entrati Yasha e sua nonna.
Arrivarono pochi minuti dopo, accompagnati da un Pacificatore. Non appena mise piede nella stanza, Yasha si gettò addosso ad Anya, che si era alzata in piedi per accoglierli. Il bambino singhiozzava, con il volto premuto addosso al vestito della sorella.
Sua nonna si avvicinò e l’abbracciò dolcemente, come faceva sempre quando la ragazza era triste.
«Non è giusto», mormorò Yasha, guardando la sorella negli occhi. Anya fece una smorfia.
«Nulla è giusto negli Hunger Games», pronunciò, carezzando la guancia del fratellino per asciugargli le guance. Il piccolo scosse la testa.
«Non voglio che tu te ne vada!», esclamò. Anya non riuscì a trattenere un sorriso, dinnanzi alla cocciutaggine di Yasha. Si abbassò, mettendogli le mani sulle spalle e lo guardò intensamente negli occhi.
«Yakov Nikolaevič Ivanov», lo chiamò con il nome intero, come faceva sempre quando doveva dirgli qualcosa di importante. Il bambino fece una smorfia, sentendo il suo vero nome, che a lui non piaceva per niente. «Ascoltami», continuò Anya. «Devi promettermi che non ti butterai mai giù. Qualunque cosa tu vedrai in tv, non devi deprimerti. Ascoltami!», ripeté, alzando la testa di Yasha, che il piccolo aveva abbassato per nascondere le lacrime. «La nonna non sta bene e tu sarai l’uomo di casa. Sei intelligente e sai fare tante cose. Se proprio va tanto male, fatti aiutare da Edith o dai vicini», fece una pausa, prendendo un bel respiro. «E prendi le tessere solo se va malissimo, d’accordo?»
Yasha annuì, tirando su con il naso. «Non morire», disse, con la voce incrinata dal pianto. Anya gli diede un bacio sulla guancia, prima di alzarsi per rivolgersi alla nonna. La abbracciò, cercando di non stringerla troppo. La donna aveva una brutta malattia alle ossa, che le impediva anche i più semplici movimenti.
«Grazie», le sussurrò all’orecchio. «Senza di te, io e Yasha saremmo stati persi».
La nonna le prese il volto tra le mani, guardandola intensamente negli occhi. «Fa’ tutto ciò che puoi per tornare a casa, Anya. Io e Yasha non vogliamo perderti», disse, con il volto rigato dalle lacrime.
«Ci proverò», promise la ragazza. «Da svidànija, babushka¹».
Un brusco bussare alla porta interruppe il loro colloquio. Un Pacificatore aprì la porta, osservando il gruppetto. Non indossava il casco. Anya lo riconobbe: era uno dei suoi clienti. L’uomo le rivolse un sorrisino. «Il vostro tempo è scaduto», annunciò ai famigliari della ragazza, aprendo un po’ di più la porta per invitarli ad uscire.
La nonna strinse per l’ultima volta la mano di Anya. «Abbi cura di te», disse, prendendo Yasha per mano, ma il bambino si divincolò e si gettò ancora addosso alla sorella.
«Non voglio lasciarti!», esclamò. Anya sorrise e allentò la presa delle braccia del fratellino attorno alla sua vita.
«Va’, Yasha. E ricordati ciò che ti ho detto». Si abbassò fino al suo orecchio. «Ja tebija ljublju», sussurrò.
 
*
 
Il bambino osservava la televisione con fare assorto. I suoi occhi erano piantati sullo schermo, dove venivano trasmesse le immagini di una lotta tra una giovane da i capelli bianchi e una ragazza ben più alta è muscolosa. Era la lotta tra Anya e Lauren, la ragazza del Distretto 2.
Yasha strinse forte la mano sul piano della sedia e con l’altra si aggrappò alla nonna, seduta sulla logora poltrona del loro salotto. Fu tentato di chiudere gli occhi, per non vedere sua sorella che moriva, sotto i colpi dell’avversaria. Era forte, quest’ultima, molto più di sua sorella. L’ascia di Anya poteva ben poco contro la spada di Lauren.
«Resisti, Anya», mormorò. Si voltò verso sua nonna. L’anziana guardava la televisione con aria rassegnata, quasi sapesse che sua nipote sarebbe morta. D’un tratto, Yasha si sentì in collera, con lei perché si era già arresa. Lui no. Lui sapeva che sua sorella poteva vincere.
Ma le sue speranze furono distrutte quando la lama della spada la trapassò da parte a parte.
 
*
 
« Hold onto this lullaby
Even when music’s gone »
 
«Papà!»
Yasha interruppe per un istante il suo lavoro, alzando la testa dai fiori che stava innaffiando. Verso di lui correva una bambina. Aveva circa sei anni e i capelli bianchi come la neve – come tutti gli Ivanov.
L’uomo sorrise, appoggiando l’innaffiatoio, abbassandosi e allargando le braccia, per accogliere la sua bambina. La piccola gli gettò le braccia al collo, ridendo felice. Sulla schiena aveva ancora la cartella di scuola, colma di quaderni e libri.
«Come stai? Com’è andata a scuola?», domandò Yasha, posandole un bacio sulla guancia. La labbra della piccola si incurvarono improvvisamente in giù.
«Bene», fu la sua secca risposta, ma l’uomo intuì che dietro doveva esserci dell’altro. Era lo stesso modo in cui lui diceva “bene” ogni volta che gli domandavano come stava dopo la morte di sua sorella, di sua nonna, e dopo la rivolta. Quella risposta era diventata vera solo dopo aver conosciuto Phoebe e dopo la nascita della sua bambina, Anya.
«D’accordo, non è andata bene», sbuffò la bambina, alzando gli occhi al cielo, vedendo lo sguardo un po’ preoccupato del padre.
«Ti hanno presa in giro?», si informò Yasha. Anya si affrettò a scuotere la testa in segno di diniego.
«Abbiamo parlato di una cosa un po’ brutta», spiegò, con le mani dietro la schiena e gli occhi azzurri rivolti verso le sue scarpine da ginnastica. Yasha si alzò in piedi, prendendo in braccio la figlioletta per portarla in casa. «Hai mai sentito parlare di un gioco chiamato “Hunger Games”?», domandò Anya. L’uomo si bloccò proprio davanti alla porta di casa, per lanciare uno sguardo allarmato alla piccola. Poi annuì, riprendendo a camminare.
«Sì, ne ho sentito parlare parecchio», rispose, entrando in casa. «Cosa vi ha detto la maestra?»
Anya protese le braccia verso una persona che era in cucina: Phoebe, la sua mamma. La donna prese la piccola in braccio, dandole un bacio sui capelli spettinati.
«Solo che erano dei Giochi brutti in cui i bambini morivano», raccontò la bambina, facendo spallucce. «E ha detto che tanta gente del Distretto 7 è morta. Quando l’ha fatto, mi ha guardata in modo strano».
Phoebe mise la piccola a terra, dandole un altro bacio e prendendo la sua borsa dalla sedia lì accanto. Si incamminò verso la porta, lanciando un’occhiata preoccupata a Yasha, che era rimasto in silenzio, con lo sguardo perso nel vuoto.
«Io esco», annunciò. «Fate i bravi, voi due», aggiunse con un sorriso, prima di uscire.
«Ciao, mamma!», la salutò allegramente la bambina, agitando una delle sue piccole mani. Dopodiché, tornò dal suo papà, tirandolo per i pantaloni. «Allora, papi?»
Yasha scosse la testa, riemergendo da tutti i suoi pensieri. I ricordi degli Hunger Games gli erano ritornati nella mente con la furia di una tempesta, lasciandolo stordito per un istante. Guardò sua figlia, rivedendo in lei sua sorella. Erano quasi identiche. L’unica cosa che le rendeva diverse era l’allegria travolgente della bambina, cosa che Yasha non  aveva mai notato nella sorella maggiore.
«Gli Hunger Games erano una cosa brutta», disse semplicemente. La piccola si accomodò su una sedia, prendendo una mela dalla fruttiera che era posizionata in mezzo al tavolo.
«E perché mi ha guardato in quel modo?», chiese, addentando il frutto. Yasha si sedette a sua volta, sospirando. Non riusciva a trovare le parole giuste per raccontarglielo. Aveva trascorso anni nascondendo la verità a sua figlia, ma arriva un momento in cui essa deve tornare a galla, portando con sé tutti i ricordi, belli o brutti che siano.
«Mia sorella… tua zia ha partecipato a questi brutti Giochi», raccontò, appoggiandosi allo schienale. Anya sgranò gli occhi e iniziò a tossire, a causa di un pezzo di mela andatole di traverso. Yasha si alzò, per prendere un bicchiere. Lo riempì d’acqua e lo diede alla piccola, che bevve tutto il contenuto d’un sorso.
«Davvero?», domandò, tossicchiando. Yasha annuì, sedendosi.
«Davvero», confermò.
«E come si chiama? Adesso dov’è?»
L’uomo si passò una mano tra i capelli, cercando di trovare le parole giuste per spiegarle tutto ciò che era successo. «Si chiamava Anya», rispose, mettendo enfasi sul verbo all’imperfetto.
«Come me?», lo interruppe la piccola, con un’espressione di gioia sul volto. Yasha annuì, sorridendo.
«Adesso non c’è più. È morta durante la settantatreesima edizione degli Hunger Games», spiegò, giocherellando con la zip della sua felpa nera. Sua figlia lo guardò di sottecchi, lasciando la mela mezza masticata sul tavolo.
«E com’era? Mi racconti di lei?»
Anya scese dalla sua sedia, per andare a mettersi sulle gambe del padre. Yasha la strinse forte, posando il mento sui suoi capelli candidi.
«Ti assomigliava. Aveva i capelli bianchi come i tuoi e i miei e gli occhi azzurri. Aveva una voce meravigliosa».
Era una spiegazione di certo molto scarna, ma Yasha non se la sentiva di aggiungere altro. Inoltre, voleva sorvolare sul fatto che sua sorella si prostituiva per portare il cibo in tavola. Lei stessa lo aveva tenuto nascosto per anni, mentendogli, e, in un certo senso, Yasha era ancora arrabbiato con lei per tutto ciò, anche se preferiva lasciare questo sentimento in fondo al cuore.
«E cos’altro?», domandò la piccola, sempre più curiosa.
«Era una brava donna di casa. Sapeva parlare bene il russo, come me e presto come te. Mi diceva spesso una frase, in questa lingua».
Anya voltò la testa, guardando il padre. «Cosa diceva?»
Yasha sorrise. «Ja tebja ljublju». La bambina inarcò un sopracciglio e Yasha si affrettò subito a spiegarle il significato: «significa “ti voglio bene”».
 
¹”Arrivederci, nonna”

 

Alaska's corner

Ho poco tempo, ma patate (?)
Alur, l'idea di questa storiella mi vagava per la mente già da un po'. Yasha e Anya sono due miei OC del Distretto 7. Anya ha partecipato alla settantatreesima edizione degli Hunger Games, durante i quali è morta. Prima, faceva la prostituta per guadagnare qualche soldino e sfamare Yasha e la nonna, che era malata. Yasha ha sette anni meno di Anya. I loro genitori sono morti a causa della rottura di una diga quando Yasha aveva circa tre mesi. Sono di origine russa, sì. Ah, e gli accenni all'intelligenza del piccolo Ivanov sono voluti. Lui è un genio. Ha un quoziente intellettivo pari a 200 più o meno. Un po' come Mozart, per intenderci. 
Nient'altro, le loro foto le potete vedere nel banner. Quello però è Yasha da grande perché il suo pv è adorabile *_* E ha un visetto da bambino, l'ho scelto quasi apposta. Diciamo che Yasha non è mai stato realmente un bambino, quindi volevo un po' far notare la differenza tra il suo aspetto infantile e il suo animo adulto.
Btw, le frasi in russo spero siano giuste. Ja tebja ljublju vuol dire ti amo, ma si usa anche per dire ti voglio bene. Le frasi in corsivo sono prese dalla canzone Safe  and sound di Taylor Swift. 
Devo scappare!
Un bacione,
Alaska. ~ 
   
 
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