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Autore: Juliet91    14/08/2008    4 recensioni
Londra, 1900. Ellary Blase ha diciassette anni quando lascia finalmente l'orfanotrofio dove ha vissuto per sette lunghi anni. A portarla via è una coppia benestante, i Dwight, che hanno bisogno di un'altra domestica per la loro lussuosa villa. Al suo arrivo, Ellary scopre che i coniugi hanno un figlio di diciannove anni: Rhys. Un giovane misterioso che trascorre le sue giornate rintanato nella sua stanza, uscendo solo per esercitarsi al pianoforte. L'introspezione e la riservatezza di Rhys susciteranno la curiosità di Ellary, che pian piano entrerà a far parte della sua vita. Anche se la vita, non sempre va come vogliamo noi. Molti altri personaggi entreranno mano a mano a far parte della storia, svelandosi in un turbinio di colpi di scena che ci condurranno fino alla fine di una complicata storia d'amore, amicizia, seduzione, inganno, misteri e difficoltà.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Capitolo I
Il suono dell'ultimo ricordo

La luce filtrava appena dall'unica finestra della stanza lunga e stretta che veniva usata come dormitorio nell'orfanotrofio di Warlingham, nella periferia di Londra. Non era nemmeno l'alba ancora, eppure attorno a me sentivo già del movimento. Non riuscivo ad aprire gli occhi, le palpebre sembravano pesare tonnellate, così come le mie articolazioni, che non ne volevano sapere di muoversi.
«Forza Ellary, alzati o non sarai pronta in tempo!» mi disse Faith, l'unica amica che avessi avuto fino ad allora. La ritenevo praticamente una sorella.
Biascicai qualcosa di risposta, girandomi sull'altro fianco per sfuggire ai raggi del sole che si facevano più accesi.
In quel preciso istante, sentì la porta aprirsi ed il leggero brusio che attraversava la stanza cessò immediatamente.
Controvoglia, aprì gli occhi e lentamente mi tirai su a sedere. Non ero ancora abbastanza sveglia per bluffare e comunque sapevo che ormai mi aveva già vista.
Mi voltai, e come prevedevo Catherine Macleod, la direttrice dell'orfanotrofio, se ne stava in piedi sulla porta, le braccia lungo i fianchi, il mento rivolto verso l'alto ed il consueto sguardo minaccioso che scrutava le ragazze ad una ad una, constatando chi fosse pronta e chi si stesse almeno preparando.
Provai a sostenere il suo sguardo, come per dimostrarle che non avevo paura, ma dopo appena alcuni secondi mi sorpresi a fissarmi le mani.
In realtà non era lei a farmi paura, ma quel che mi avrebbe potuto far subire.
«Ce la prendiamo comoda stamattina?» disse, con tono ancora più freddo del solito.
Sentivo tutti gli sguardi puntati addosso.
«Signorina Ellary, sa che giorno è oggi?» continuò, facendo risuonare il pavimento sotto i suoi tacchi, mentre faceva appena due passi avanti.
«Sì Mrs Catherine, è sabato».
«Esatto. E' sabato. Guarda le tue compagne: sono tutte alzate e si stanno preparando. Pensi forse di essere migliore di tutte loro? Pensi di avere il diritto di far aspettare gli altri? Tra un'ora le persone che vogliono vedervi saranno qui e se tra quindici minuti non sarai di sotto a far colazione come le altre, te ne resterai chiusa qui tutto il giorno» concluse socchiudendo gli occhi con cattiveria, come per sottolineare la minaccia appena fatta, poi si voltò ed uscì sbattendosi la porta alle spalle.
Le ragazze ripresero quel che stavano facendo prima dell'irruzione della dittatrice - era così che la chiamavamo tra noi -, senza badare a me.
Mi tolsi la coperta e portai le ginocchia al petto, tentando di cacciar via le lacrime nate dalla frustrazione.
«Te l'avevo detto Elle... non puoi continuare a fare sempre quello che ti pare. La vita qui dentro è già abbastanza dura così com'è, perché devi complicartela ulteriormente?» disse Faith, inginocchiata sul letto al mio fianco.
Continuai a guardare davanti a me con gli occhi umidi, senza dire nulla. Lei mi guardò come si guarda un cucciolo bisognoso d'aiuto, con gli occhi pieni di compassione ed un sorriso d'incoraggiamento sulle labbra. Cinse le mie spalle con un braccio e posò la sua testa sulla mia spalla.
«Io non ne posso più Faith. Devo andarmene da qui», sussurrai.
«I quindici minuti saranno diventati dieci...».
«Giusto!» risposi balzando in piedi.
Corsi al secchio con l'acqua e mi lavai a tempo record, mi spazzolai i denti con l'indice e raccolsi i capelli in una treccia.
Tornai al mio letto e tirai fuori il mio unico vestito da sotto il cuscino e le scarpe da sotto il letto. Li indossai velocemente e fui pronta proprio mentre le altre imboccavano le scale per scendere nella sala da pranzo.
«Io ti invidio» disse Faith, guardandomi incredula.
«Ma smettila!» risposi, tirando un sospiro di sollievo e trascinando Faith fuori dal dormitorio.
«No, sul serio. Io non riuscirei mai a farmi una treccia così perfetta velocemente quanto te», continuò per le scale. «Pensa la faccia che farà la dittatrice appena ti vede!».
Arrivate a tavola ci sedemmo una accanto all'altra, come sempre. Con la coda dell'occhio guardai Mrs Catherine e non potei fare a meno di sorridere pensando alle parole di Faith, vedendo l'espressione scocciata che aveva stampata in faccia. Riempii la tazza scheggiata di thè caldo ed imburrai una fetta di pane.
Consumammo la colazione nel silenzio, rotto soltanto dal tintinnio delle tazze.
Una di noi, di lì a poco, avrebbe lasciato quel posto per sempre e come ogni sabato pregai intensamente di essere io.

• • •

Fuori c'era un tiepido sole di primavera. Lo guardai proteggendomi gli occhi con una mano, sorrisi come per augurare buona fortuna a me stessa ed andai a sistemarmi nell'ordinata fila di ragazze che si era già formata nel cortile.
Mrs Catherine ci passò davanti puntandoci con un dito accusatore, ricordandoci le regole della buona educazione.
Fece appena in tempo a finire il suo discorso, che il rumore dell'arrivo di una carrozza catturò la nostra attenzione. Quando varcò il cancello dell'orfanotrofio un'esclamazione di stupore attraversò il cortile. Era più bella di qualsiasi altra carrozza fosse giunta finora da quelle parti. Sembrava una di quelle che erano soliti usare i nobili delle classi più alte. Quando si fermò a pochi passi da noi, ne uscirono un uomo ed una donna altrettanto magnificenti. Lei indossava un lungo abito verde, sovrastato da un cappotto nero, elegante nella sua semplicità. Le mani erano coperte da un paio di guanti anch'essi neri, di una stoffa lucente che mi parve seta. Portava con sé una piccola borsetta intonata all'abito. I capelli, neri come la notte, erano raccolti in un elaborato chignon; gli occhi, dello stesso verde dell'abito, trasmettevano dolcezza ed intelligenza; le labbra erano rimarcate da un rossetto d'un rosso acceso ed un neo sulla sinistra del labbro superiore le conferiva ulteriore fascino.
Lui invece era un bell'uomo di mezza età. I capelli castani contornavano un viso dalla forma leggermente allungata e perfettamente rasato. Indossava un classico completo da uomo nero e grigio, completato da scarpe talmente lucide che vi ci si poteva specchiare. Si accompagnava ad un bastone, benché sicuramente non ne aveva un reale bisogno.
Salutarono Mrs Catherine, poi iniziarono a percorrere la fila. Odiavo quei momenti. Ce ne stavamo lì impalate a fare bella esposizione di noi come inutili oggetti esposti sulle bancarelle alla fiera di paese, mentre due estrani ci scrutavano giudicando se fossimo idonee o meno. Tuttavia, quegli estranei rappresentavano la nostra unica possibilità.
Mi sporsi in avanti per cercare gli occhi di Faith, ma non si accorse minimamente dei miei vani sforzi per catturare la sua attenzione. Mi raddrizzai subito, notando che la coppia si era velocemente fatta avanti. Presi a fissarmi la punta delle scarpe, timorosa d'incrociare lo sguardo di quei raffinati visitatori. D'un tratto, davanti a me comparvero altre quattro paia di scarpe. L'ansia mi assalì di colpo, il cuore cominciò a martellarmi forte nel petto. Alzai leggermente la testa, ma continuai a guardare in basso, poiché il capo chino era segno di rispetto. I loro sguardi incollati addosso mi rendevano nervosa ed il loro continuo bisbigliare l'uno nell'orecchio dell'altra non facevano che peggiorare il mio stato d'animo. Inconsciamente, affondai le unghie nei palmi delle mani, strette in un saldo pugno.
«Come ti chiami?» mi chiese finalmente l'uomo. La sua voce era autoritaria, ma al contempo gentile.
«Ellary Blase, signore» risposi in fretta, lanciandogli una fugace occhiata.
Improvvisamente, mi resi conto del profumo che emanava la donna ad ogni minimo movimento. Ero abituata allo sgradevole odore di lenzuola sporche ed abiti sudici, perciò quell'incredibile fragranza mi pizzicò le narici, stordendomi per un momento.
«Sai leggere e scrivere?» continuò l'uomo.
«Sì signore, ho frequentato la scuola quant'è bastato per imparare».
«E sai svolgere le mansioni di manutenzione di una casa?».
«Sì, signore».
Guardò la sua signora con un sorriso compiaciuto, che lei ricambiò dopo avermi lanciato un'ultima occhiata. Nel momento in cui s'incamminarono in direzione di Mrs Catherine, capii che avevano davvero scelto me. Un sorriso raggiante si dipinse sul mio volto, mentre alzavo gli occhi al cielo sussurrando "Grazie, grazie, grazie..."ed avrei potuto anche continuare a ripetere ossessivamente quella parola all'infinito. Se non ci fosse stata tutta quella gente intorno a me, mi sarei messa a saltare ed urlare di gioia. I pensieri si sovrapponevano nella mia mente. Non sapevo ancora dove sarei finita o che vita mi aspettasse assieme alla coppia che stava per portarmi via da lì, ma ero certa che anche se mi avessero trattata come una serva, non sarebbero mai stati capaci della cattiveria di Mrs Catherine. La notte non avrei più dovuto nascondere il mio vestito sotto il cuscino, né dormire con la paura che qualcuno rubasse il mio unico paio di scarpe. E soprattutto, finalmente, potevo cominciare a vivere e smettere semplicemente di esistere. Mi andava bene anche passare la vita intera a fare da serva, almeno mi sarei sentita utile per quel qualcuno che servivo. Non ne potevo più di sentirmi uno scarto della società. Ero impaziente di varcare per sempre quel cancello, e lasciarmi così alle spalle sette anni di un'esistenza grigia e vuota. Ad un tratto però, un altro pensiero, più forte di tutti gli altri, interruppe i miei festeggiamenti interiori. La testa iniziò a pulsare ed improvvisamente il sole sembrò non bastare più a scaldare la mia pelle gelida. Iniziarono a sudarmi le mani ed il senso di colpa divenne più potente di tutte le altre sensazioni che mi avevano colto poco prima. Nella mia testa riecheggiava un solo nome: Faith. Come avevo potuto essere così egoista? Come avevo potuto dimenticarmi di lei?
Mi voltai e la vidi in piedi nel cortile ormai quasi vuoto. Mi guardava con uno sguardo colmo di tristezza ed un sorriso fintamente allegro. Il suo tentativo di nascondere il dolore che provava, sapendo che mi avrebbe persa, mi fece stringere il cuore. Era brava a nascondere le sue emozioni, ma con me non funzionava. La conoscevo talmente bene... Cercai di ricambiare il suo sorriso, ma era palesemente finto quanto il suo. Mi avvicinai a lei e quando ci trovammo una di fronte all'altra restammo in un imbarazzato silenzio, incapaci di dire qualcosa all'altezza della situazione.
«Sono davvero contenta per te Ellary, dico sul serio. Abbiamo aspettato a lungo questo momento, io dovrò aspettare ancora un po', ma va bene così. Inizia ad assaporare la libertà anche per me, okay?» disse con voce tremante.
Con la vista offuscata dalle lacrime, la guardai direttamente negli occhi.
«Ti voglio bene Faith» dissi mentre la voce s'incrinava ed una goccia salata mi rigava una guancia.
«Anch'io».
Ci abbracciamo forte, bagnando l'una la spalla dell'altra con le nostre lacrime. Non so di preciso per quanto tempo restammo così, unite com'eravamo sempre state. A riportarci alla realtà fu la voce di Mrs Catherine, che mi incitava a sbrigarmi a prendere la mia roba. Ci staccammo goffamente, tirando su col naso e quando ci guardammo, scoppiammo in una risata quasi isterica. Non ho la più pallida idea del perché stessimo ridendo. Non c'era motivo di ridere, ma lo stavamo facendo. Non sapevo quando e se avrei mai rivisto quella ragazza, il mio piccolo miracolo personale. Ma di una cosa ero assolutamente certa: era quello l'ultimo ricordo che volevo avere di lei. Il suono della sua risata.

• • •

Radunare le mie cose non era certo un operazione che richiedeva molto tempo. Alzai il materasso e presi i pochi oggetti che possedevo: un taccuino che usavo come diario quando avevo voglia di scrivere, una foto che ritraeva me e Faith qualche anno prima ed il medaglione a forma di cuore, dentro il quale si celavano due foto, una di mia madre ed una di mio padre. Era l'unico ricordo che avevo di loro e l'avrei custodito a costo della vita.
Buttai tutto dentro una vecchia sacca di stoffa, salutai con un bacio frettoloso le poche ragazze che erano tornate nel dormitorio e scesi di corsa le scale. Sulla porta si era radunata una piccola folla che mi attendeva per potermi salutare. Mrs Catherine disse che era stato un piacere ospitarmi per tutti quegli anni e mi augurò il meglio mentre baciava l'aria vicino alla mia guancia sinistra. Ovviamente stava mentendo, ma non avevo più motivo di curarmi delle sue parole. Abbracciai le ragazze con cui avevo diviso le mie giornate, mentre loro mi sussurravano quanto fossero felici per me. Infine mi trovai di nuovo di fronte a Faith.
«Allora... ci siamo» dissi con un sorriso triste.
«Già, ci siamo» rispose lei con il mio stesso tono di voce.
«Non ti dimenticherò mai Faith».
«Neppure io. Mi raccomando, comportati bene, perché d'ora in poi non ci sarò più io a tirarti fuori dai guai!» disse scherzosa.
Mrs Catherine mi indicò la coppia di cui ancora non sapevo il nome, che mi aspettava davanti alla carrozza.
«Ci proverò. Ora devo andare davvero. Mi mancherai da morire».
«Addio Elle» disse tornando seria.
«Non ti azzardare ad usare quella parola. Questo non è un addio, non vado mica in guerra. Ci rivedremo Faith, è una promessa».
«Non promettere ciò che non sei certa di poter mantenere».
«Ma io sono assolutamente certa che un giorno o l'altro ci rincontreremo. So mantenere le promesse che faccio».
Ci abbracciammo per l'ennesima volta, poi m'incamminai verso la carrozza. A metà strada mi voltai ed ignorando le lacrime che tentavano di nuovo di sfuggire al mio controllo, sorrisi e quasi gridai: «Arrivederci, Faith Morgan!».
Lei scoppiò a ridere e salutando con la mano ricambiò a pieni polmoni: «Arrivederci, Ellary Blase!».

• • •

Continuai a guardare le sagome impalate sulla porta che si rimpicciolivano attraverso il piccolo riquadro di vetro della carrozza, finché questa non varcò il cancello dell'orfanotrofio e Faith e le altre scomparvero dalla mia vista. Smisi di guardare fuori e mi raddrizzai sul sedile di pelle rossa. Nessuno disse niente per una buona mezz'ora, ma quel silenzio non mi dispiaceva affatto, persa com'ero nei miei pensieri. A romperlo fu la donna.
«Hai detto di chiamarti Ellary, giusto?».
«Sì signora, Ellary Blase».
«Mi piace il tuo nome, è originale. Io sono Mrs Elizabeth Dwight e questo è mio marito, Mr Neal Victor Dwight» disse indicando l'uomo seduto al suo fianco, mentre lui chinava leggermente il capo in segno di saluto. «Lieta di fare la vostra conoscenza», risposi chinando il capo a mia volta.
«Mi fa piacere notare la tua buona educazione, è molto importante per noi. Immagino che tu voglia sapere quali saranno i compiti che ti spettano. Ebbene, devi sapere che abbiamo un'altra domestica in casa e sarà lei a dirigerti nelle mansioni. Vi dividerete come preferite i lavori da svolgere. Alloggerai nella stanza di Edna, la domestica di cui ti ho appena parlato, mentre consumerete i pasti prima o dopo averci servito il nostro. Ovviamente avrai del tempo libero tra una faccenda e l'altra, che potrai passare come preferisci, purché tu rimanga sempre nei paraggi, così che potremo chiamarti in caso di bisogno. E' tutto chiaro?».
«Chiarissimo signora Dwight».
Ero sinceramente stupita dalla cordialità con cui mi aveva spiegato il mio ruolo ed ancor di più dall'amichevole sorriso che mi rivolse quand'ebbe concluso di parlare.
Mi accorsi appena che la carrozza aveva varcato un maestoso cancello e stava entrando in quello che più che un giardino sembrava un vero e proprio parco. La ghiaia scricchiolava al passaggio delle ruote. Passammo accanto ad una fontana dalla quale emergeva la statua di un angelo con un'arpa in mano. La carrozza si fermò ed il cocchiere venne ad aprire la portiera. Il signor Dwight scese per primo, poi porse la mano alla moglie per aiutarla ad uscire ed inaspettatamente fece la stessa cosa con me.
Girai su me stessa per osservare l'oasi che mi circondava: ovunque posassi lo sguardo c'erano piante meravigliose e degli alberi secolari segnavano il perimetro dell'interno enorme giardino. La signora Dwight mi fece segno di seguirla verso l'entrata. Accanto alla porta c'era un uomo talmente impassibile da sembrare finto, che senza cambiare di una virgola la sua espressione piegò appena il busto ed aprì la porta. Notai la spada che teneva infilata in una fessura della cintura, perciò supposi che fosse la loro guardia personale. Sentendoci entrare, Edna arrivò di corsa. Indossava una divisa da domestica ed era molto più giovane di quanto mi aspettassi. Salutò i coniugi Dwight, poi mi rivolse un cordiale sorriso. Mi fu istintivamente simpatica.
«Salve Edna. Questa è la signorina Ellary Blase, d'ora in poi dividerai stanza e faccende con lei» disse la signora Dwight. «Falle vedere la casa, poi lasciale del tempo per sistemarsi», concluse prima di seguire il marito su per le scale.
«Questo è l'atrio, ma immagino che tu l'abbia già capito» disse Edna, allargando le braccia e continuando a sorridere.
Dal soffitto altissimo pendevano degli enormi lampadari dai manici d'oro; addossate alle pareti c'erano alcune vetrine, nelle quali erano esposti raffinati servizi da thè in porcellana e statuine di vetro.
«Avanti, seguimi!» m'incitò Edna, incamminandosi verso la stanza alla nostra destra. «Questo è il salotto, nonché la stanza più grande della casa».
Al centro della stanza un tavolino basso di vetro divideva due divani in pelle marrone; la parete dietro i divani era occupata da un camino in mattoncini, dal quale il fuoco acceso donava un'invitante tepore a tutta la stanza. Nel lato opposto invece, poggiato su un tappeto decorato da fantasie astratte, troneggiava un maestoso pianoforte nero laccato, su cui poggiavano gli spartiti con le note musicali. Sotto ad esso era sistemato lo sgabello da pianista. I muri erano decorati da quadri che portavano la firma di un certo Yves Tanguy.
Tornammo sui nostri passi ed Edna mi mostrò la sala da pranzo - occupata solo da un lungo tavolo in legno, circondato da sedie che non sembravano molto comode, e qualche altro mobile sempre in legno scuro, sui quali poggiavano vasi contenenti fiori freschi; nella cucina, l'unica stanza leggermente disordinata, in quanto era lei l'unica ad entrarvi ed infine nella stanza da lettura. Quest'ultima mi colpì particolarmente: a parte lo spazio per la finestra che si apriva su un piccolo balcone, i muri erano interamente occupati da librerie alte fino al soffitto, riempite fino all'inverosimile da volumi antichi e consumati. Al centro della stanza c'erano una scrivania, riempita da materiale per la scrittura, ed un paio di poltrone in pelle. Amavo leggere e scrivere, ma all'orfanotrofio non avevo avuto i mezzi per farlo. Chissà se avrei potuto chiedere qualche libro in prestito... Edna mi destò dai miei pensieri, conducendomi al piano di sopra. Lì c'era meno da vedere, in quanto era occupato solo dalle camere da letto e dalle toilette. Edna m'indicò le porte chiuse: «Quella è la stanza dei signori Dwight, mentre quella è del signorino Rhys».
Aggrottai le sopracciglia, confusa, e senza pensarci chiesi: «Chi è Rhys»
«Oh, Rhys è il figlio dei signori Dwight!».
«Non sapevo che avessero un figlio...».
«E' un ragazzo all'incirca della tua età... Quanti anni hai?».
«Diciassette».
«Ha appena due anni più di te. Non sperare di farci amicizia, è un ragazzo molto introverso. Se ne sta tutto il giorno rinchiuso nella sua stanza, esce solo qualche ora nel tardo pomeriggio per esercitarsi al pianoforte».
Stavo ancora fissando la porta chiusa, quando Edna mi prese per un braccio trascinandomi nella stanza che d'ora in poi avremmo diviso.
Era davvero graziosa: le pareti erano dipinte di un azzurro appena percepibile, c'erano due letti corredati dai comodini, un armadio in legno chiaro, uno specchio a figura intera ed una scrivania su cui poggiavano penne, inchiostro e della carta da lettere. Sulla parete accanto ai letti, si apriva una finestra che si affacciava sul giardino.
«Ti lascio un attimo sola, così puoi sistemarti e riposare un po' se ne hai bisogno. Chiamami pure se ti serve qualcosa!» disse Edna, uscendo e chiudendo la porta alle sue spalle.
Posai la mia sacca su uno dei letti e mi diressi alla finestra. L'aprì, poggiai le mani sul davanzale e chiudendo gli occhi inspirai tutta l'aria che i miei polmoni erano in grado di contenere. Dopo sette anni di attesa, avevo ottenuto quel che avevo ardentemente desiderato ogni giorno ed ogni notte. Il destino mi aveva portato dove da sola non sarei mai stata capace di arrivare, ma ora il destino usciva di scena e toccava soltanto a me giocare bene le carte che mi aveva messo in mano.
"Non commetterò il minimo errore, non rischierò di perdere tutto questo", promisi a me stessa. Poi aprii gli occhi, e sorrisi di nuovo alla vita.
  
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