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Autore: vegeta4e    16/06/2014    3 recensioni
Avvertenza: la seguente storia è ispirata alla fanfiction "Sharper than a switchblade" di Some kind of sociopath.
Charles Lee, conosciuto come futuro Gran Maestro Templare, stravolgerà tutti i piani di Haytham, ormai ricercato poiché ritenuto un traditore dell'Ordine. Dietro a tutto c'è Reginald Birch, deciso più che mai a liberarsi del suo allievo. Non sarà più il Charles fedele al suo Mentore, ma una nuova persona, un uomo nuovo, una bestia violenta e irrazionale.
Dal testo:
«Ti stavo aspettando, Charles.» trasalì. Come l'aveva riconosciuto? Haytham dava le spalle all'entrata e Lee non aveva fiatato, perché se l'avesse fatto, non sarebbe stato in grado di formulare una frase di senso compiuto.
Si chiuse delicatamente la porta alle spalle e rimase sulla soglia, le mani tremavano, il viso era imperlato di sudore e gli occhi erano lucidi e iniettati di sangue, folli. I nervi a fior di pelle gli annebbiavano i sensi, perché lui? Era un bastardo gioco del destino, lo sapeva. Era abbastanza lucido da capirlo, quello.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Charles Lee, Connor Kenway, Haytham Kenway
Note: What if? | Avvertimenti: Violenza
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Avvertenza: la seguente storia è ispirata alla fanfiction "Sharper than a switchblade" di Some kind of sociopath.

 

The three Great Masters of the Templars.

 

Si sentiva come rinato. Era eccitato e iperattivo, percepiva nettamente una strana energia scorrergli nelle vene, era una sensazione nuova e gli piaceva. Eccome se gli piaceva. Era invaso da adrenalina.

Avrebbe potuto affrontare tutto l'esercito Inglese da solo, senza l'aiuto di quel vecchio pazzo sconclusionato di un Kenway o di quell'inetto di Washington, il quale credeva ancora nella loro alleanza. Idiota, non aveva ancora capito che il suo era un comportamento opportunistico e che, alla prima occasione, avrebbe fatto fuori anche lui?

Avrebbe fatto tutto da solo, mancava poco. Finalmente avrebbe agito di testa sua, senza sottostare agli ordini di qualcun altro. No, non era nella sua indole, l'obbedienza.

Nell'avanzare diede una spallata ad una giubba rossa che, inveendo contro di lui, gli diede una spinta. Ma Lee non si scompose, si limitò a mantenere l'equilibrio e ad alzare una mano per farsi perdonare mantenendo gli occhi bassi. Non voleva grane o contrattempi, biascicò delle scuse sperando di cavarsela con poco e di allontanarsi in pace. Non era un lavoro che poteva aspettare, il suo.

Barcollò per qualche metro. Lo stava facendo davvero? Ne aveva seriamente il coraggio, dopo tutti quegli anni?

Una fitta gli attraversò il cervello, facendolo fermare di colpo e piegare dal dolore. Strinse le mani attorno alle tempie e stringeva, stringeva sempre più forte sperando di alleviare quella tortura. Doveva. Doveva farlo. Era questione di un secondo.

Un rivolo di saliva gli scese lungo il mento per poi schiantarsi a terra, chiuse la bocca e riprese a camminare. Le dita sempre aggrovigliate tra i capelli, la gente lo evitava credendolo pazzo. O forse lo era.

Intravide le mura di Fort George che a malapena distingueva dal cielo grigio di New York.

Si allargò il colletto della camicia, divenuto improvvisamente troppo stretto, temeva quasi lo soffocasse. Il collo era bagnato di sudore, aveva ansia?

Si obbligò a mantenere un'aria sicura e apparentemente normale o sana, la schiena dritta. Deglutì quando raggiunse le guardie all'entrata del forte, le quali lo riconobbero subito e lo lasciarono passare senza domandare nulla. Charles continuava a mantenere lo sguardo sui suoi stivali, temendo che chiunque avrebbe potuto leggere le sue intenzioni se solo l'avesse guardato negli occhi.

Trattenne il fiato quando imboccò le scale per il primo piano, quello degli alloggi del Gran Maestro. Camminava così velocemente da andare di pari passo col suo cuore, che batteva all'impazzata. Sembrava volesse uscire dal petto e scappare, abbandonare il suo corpo, perché quello che stava per fare era un'azione degna solo di un uomo apatico e folle. E Lee non era mai stato nulla di tutto questo. Era sempre stato fedele a quell'Inglese, così composto e serio.

Raggiunse la porta che tanto cercava, cosciente che una volta aperta, tutto sarebbe cambiato, tutto sarebbe diventato irrimediabile.

Fallo.

Deglutì, sentendosi pesante come se alle caviglie avesse legate due incudini pronte a trascinarlo sul fondo degli abissi. Era da folli.

Fallo.

Un'altra fitta gli attivò i neuroni, come una scarica elettrica. La mano si mosse da sola, sfiorando il pomello metallico.

Una goccia di sudore gli colò lungo la basetta sinistra, le labbra si dischiusero, tremando.

Fallo.

In fondo era solo un uomo, proprio come tutti gli altri. Aveva spezzato così tante vite che nemmeno le ricordava, una in più non avrebbe fatto differenza, giusto?

Fallo.

Aprì la porta senza nemmeno rendersene conto. Si aspettava una stanza buia e silenziosa, con Haytham sdraiato a letto e profondamente addormentato. Ma così sarebbe stato troppo facile da uccidere e Charles meritava di guardarlo negli occhi mentre assisteva inerme alle conseguenze delle sue azioni. Meritava di guardarlo morire per mano sua, col volto e i vestiti macchiati del sangue del suo Mentore.

Contro ogni sua aspettativa Haytham era sveglio, seduto alla scrivania con una candela accesa.

«Ti stavo aspettando, Charles.» trasalì. Come l'aveva riconosciuto? Haytham dava le spalle all'entrata e Lee non aveva fiatato, perché se l'avesse fatto, non sarebbe stato in grado di formulare una frase di senso compiuto.

Si chiuse delicatamente la porta alle spalle e rimase sulla soglia, le mani tremavano, il viso era imperlato di sudore e gli occhi erano lucidi e iniettati di sangue, folli. I nervi a fior di pelle gli annebbiavano i sensi, perché lui? Era un bastardo gioco del destino, lo sapeva. Era abbastanza lucido da capirlo, quello.

Haytham posò la piuma d'oca con una calma innaturale e chiuse il diario, si alzò strisciando la sedia di lato pronto a parlare, ma fece appena in tempo a vedere Charles scattare in avanti, correndo verso di lui e brandendo una vecchia spada corta.

Aveva tentato di urlare per darsi coraggio e concretizzare l'attacco, ma dalla gola, troppo secca, non uscì che un rantolo disperato e sofferente.

Haytham non era armato, sapeva che Charles si sarebbe fermato in tempo, o almeno, lo sperava. Glielo diceva il cuore, fiducioso del rapporto che lui e Lee avevano sempre avuto, ma il cervello gli suggerì altro.

Il braccio sinistro si mosse autonomamente, fermando la spada del suo ex allievo che non ebbe difficoltà nell'affondare nella carne dell'avambraccio, schizzando sangue sulla mano di Lee.

Haytham soffocò un lamento, causato non tanto dalla ferita -che era relativamente profonda-, quanto da chi gliela aveva procurata.

Kenway alzò lo sguardo sul suo avversario -Dio, si sentì mancare definendolo tale-, sul ragazzo che l'aveva sempre seguito e ascoltato, notando lo sguardo da folle e malato. Quello non era Charles Lee, l'uomo che stava tenendo la spada ancora conficcata nella sua carne non poteva, non doveva essere lui.

Strattonò la lama dal braccio dell'uomo e prese fiato, mentre l'Inglese portò la mano sulla ferita per bloccare il sangue. Haytham si guardò intorno alla ricerca di qualcosa con cui difendersi, poi si ricordó di avere un pugnale nel cassetto della scrivania. Si appoggiò al ripiano senza voltargli le spalle e con la mano destra aprì lo scomparto, frugando all'interno con mano tremante cercando l'elsa dell'arma.

La impugnò saldamente, non si sarebbe fatto uccidere senza muovere un dito.

«Ti ha mandato Reginald, non è vero?» domanda retorica. Non era stata di certo un'iniziativa di Charles, che non rispose alla domanda. Andò addosso all'Inglese con rabbia, accompagnando ogni fendente con grida furiose. Aveva distrutto mezza stanza, rovesciato la scrivania e rotto la sedia. Ignorava tutte le regole del combattimento e gli insegnamenti che gli aveva impartito l'uomo che stava cercando di uccidere. Nessun lavoro di gambe, né postura corretta. Attaccava senza lucidità, con movimenti goffi e rallentati, senza mettere davvero in difficoltà l'avversario.

Ed Haytham si limitava a deviare i colpi senza mai infierire su Charles, anche se di occasioni per concludere lo scontro ne aveva avute parecchie. Anche in quel momento avrebbe potuto vincere, affondando il pugnale nel fianco scoperto di Lee.

Non lo fece.

Charles lo mise spalle al muro fissandolo con occhi assassini.

«Combatti!» gli fiatò contro «E ammazzami, se ci riesci.» anche il tono di voce era strano. Stranamente acuto e isterico, decisamente insolito per un tipo come lui.

«Non ti voglio uccidere, Charles.»

«Non ne sei in grado?» rise mostrando i denti, ma Haytham fece scivolare il braccio destro tra le mani di Lee, ben salde sulla redingote del più anziano.

La punta del pugnale di Haytham gli sfiorava il collo, così fradicio e lucido da sembrare di cera.

«Avrei potuto ucciderti sei o sette volte, Charles, ma non l'ho fatto.» si rigirò l'arma tra le dita fino a puntare la lama verso di sé, poi lo afferrò per il colletto invertendo la situazione. Gli bloccò ogni via d'uscita mettendo una gamba tra le sue e appoggiando l'avambraccio destro, quello sano, sul suo collo.

«Credevi che entrare qui dentro e uccidermi fosse tanto semplice? Eppure dovresti conoscermi bene.» ma Charles scattò in avanti, colpendolo sul naso con la fronte. La testata lo stordì per qualche attimo facendolo finire a terra, mentre gli occhi bruciavano e lacrimavano per reazione involontaria. Sentì un liquido caldo colargli sulle labbra e poi sul mento, e tentò di fermare il flusso mettendo una mano sotto le labbra e premendo, con l'altra, alla base del naso.

Lo travolse un senso di nausea: la bocca era impastata di sangue, i denti impiastricciati e il sapore metallico gli era sceso fino in gola, che bruciava così tanto che credeva sarebbe andata a fuoco.

Cercò di rialzarsi, gli occhi erano serrati dal dolore e il palmo sporco di sangue scivolò sul pavimento, facendogli perdere l'equilibrio.

«Cazzo.» gli aveva rotto il naso, poco ma sicuro. Respirava a fatica e continuava a sanguinare, le mani erano completamente imbrattate, la vista annebbiata, il volto era una maschera di sangue dalle narici in giù.

Un calcio nel costato lo ributtò a terra prima che potesse rimettersi in piedi, ma a Charles non bastò vedere Haytham senza fiato, affatto.

Lo guardava dall'alto, godendosi la scena con un ghigno malvagio stampato sul viso. Vederlo a terra, tossire per il colpo appena ricevuto, dolorante e impotente, aveva lo stesso effetto di un telo rosso sventolato davanti ad un toro. I muscoli erano tanto tesi da farlo tremare, le vene sul collo ingrossate, gli occhi pulsavano per il troppo sangue affluito alla testa. Stava diventando una bestia pericolosa.

Gli si avvicinò e lo colpì ancora, accompagnando ogni scatto d'ira con urla e grugniti.

Colpiva il petto, il fianco, le costole e urlava, urlava come un folle, come se si stesse sfogando sulla causa delle sue disgrazie.

Il Gran Maestro, ormai privo di forze, smise di coprirsi il fianco con le braccia. Rimase impassibile anche quando Lee gli si inginocchiò sopra e gli sollevò il busto tenendolo dal colletto, ghignando follemente.

«Spero ti serva a qualcosa, la mia morte.» mormorò senza fiato mostrando i denti macchiati di rosso. Charles non rispose, portò una mano alla cinta estraendo la pistola. Sarebbe morto senza soffrire, almeno questo lo rincuorava, ma quando si trovò faccia a faccia con la canna dell'arma, ebbe un brivido di paura. Non per sé, bensì per quello che Charles era diventato, o meglio, che Birch aveva creato.

«Hai finito di comandare, bastardo. Addio.» premette il grilletto senza alcuna esitazione, sparando in pieno viso ad Haytham.

 

***

 

"Haytham Kenway, 4 Dicembre 1725 - 16 Settembre 1781".

Più leggeva la scritta sulla lapide, meno ci credeva. Strano, dato che l'aveva ucciso con le sue mani.

Non si curò della gente che lo guardava piangere sulla tomba di un ex soldato, maledicendosi mentalmente per ciò che aveva fatto. Era svenuto poco dopo averlo ucciso, era stato Connor a trovarlo privo di sensi, sdraiato affianco al cadavere del padre.

Aveva assunto droga, questo sosteneva il medico di Fort George che l'aveva visitato.

Comprese ogni cosa, affondando le mani nella terra fredda e umida del cimitero. Era stato un piano di Reginald sin dall'inizio. Quale modo migliore di uccidere un traditore se non quello di usare il suo allievo? Non si era voluto nemmeno sporcare le mani, il bastardo.

Deglutì, soffrendo come un cane per il nodo alla gola che lo stava facendo impazzire.

«Perdonatemi, Signore. Non volevo.» lo sussurrò più a se stesso, come a darsi sicurezza che fosse stato tutto un incidente, che lui non c'entrava con quella tragedia. Gli scesero altre lacrime e provò sollievo nel liberare gli occhi arrossati e gonfi.

Una mano gli si poggiò sulla spalla destra, ma Lee sapeva già chi fosse.

«Sono venuto a portarti questo.» Charles si voltò leggermente a destra, verso Connor, il quale notò con stupore, sul viso del Templare, i solchi umidi delle lacrime.

Gli stava porgendo il diario di Haytham, ma non aveva il coraggio, né il diritto di leggere.

«Non credo che la vita di mio padre possa interessarti, ma l'ultima pagina ti riguarda. L'ho letta per caso, ho trovato il diario a terra.» gli diede un'ultima pacca sulla spalla prima di andarsene e lasciarlo solo con i suoi pensieri.

Charles fissò la copertina di pelle del diario indeciso se violare la privacy del suo maestro, ma le parole di Connor l'avevano spinto ad andare direttamente all'ultima pagina.

 

"Arriverà presto, lo so. Non ho paura, è strano, in un certo senso sono contento di morire per mano sua, anche se non sará il ragazzo che ho addestrato, non è colpa sua, lo so. È diventato un uomo sicuro e capace, con obiettivi e carisma. Sono fiero di lui, non gli porterò rancore.".

 

Richiuse il quaderno accorgendosi di aver bagnato la pagina e sbavato una parola con una lacrima.

 

***

 

Quella notte non aveva chiuso occhio, e come avrebbe potuto? Si era sforzato di ricordare qualcosa, ma la testa gli faceva ancora male, come se stesse per esplodere.

Aveva avuto un flash di Haytham col volto coperto di sangue e gli occhi vitrei che lo fissavano, nella mano destra un pugnale. Nulla di più. Si era lasciato uccidere di proposito, ne era certo. Haytham Kenway era sempre stato un ottimo spadaccino, di gran lunga più abile di Charles che, seppur in gamba, di certo non sarebbe stato in grado di ammazzarlo.

All'alba del giorno dopo era andato al porto , per sua fortuna, era riuscito a trovare una zona del molo sgombra e tranquilla. Il mare era calmo e nei dintorni non c'erano marinai o pescatori. Si guardò alle spalle un'ultima volta, poi estrasse la pistola dal fodero alla cintura, osservando gli anelli di piombo che aveva appeso ad essa. Non meritava una sepoltura, voleva che il suo corpo sparisse dopo anni e non esser mai ritrovato.

Caricò l'unico colpo che aveva a disposizione e appoggiò la canna alla tempia destra. Guardò l'orizzonte mentre gli occhi azzurri iniziarono a bruciare, nel vano sforzo di trattenere le lacrime. Stava sbagliando tutto, ne era consapevole. Suicidarsi non avrebbe risolto nulla, sarebbe dovuto andare da Reginald e ammazzarlo con la stessa violenza che Haytham aveva subito ingiustamente, vendicando così il suo maestro che, prima di tutto, era stato un amico. Un amico e un uomo che in lui aveva visto un successore e in cui aveva risposto fiducia.

Ma non ne aveva la forza, né fisica né mentale. Si sentiva un codardo.

Chiuse le palpebre e contò fino a tre, lasciando che la sferetta di piombo gli trapassasse il cervello e lo uccidesse senza arrecargli dolore.

Si udì l'eco di uno sparo, ma sul molo sembrava tutto tranquillo, mentre il cadavere di Charles Lee sprofondava verso il fondale.

Tanto sarebbe morto a breve comunque per mano di Connor, se non per vendicare il padre, per le idee politiche. Sì, era decisamente meglio il suicidio.

 

 

   
 
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