Il ciliegio e la spada
Giappone, 1625
Il
tempo non poteva essere più bello: il sole era alto e caldo, il cielo di una
limpidezza quasi irreale. Erano due giorni che mio padre ed io camminavano
immersi nel silenzio più assoluto interrotto ogni tanto dal canto di qualche
uccello, dal soffio del vento e dallo scorrere dei fiumi che incrociavamo sul
nostro cammino. Gli alberi erano di un verde acceso, i fiori coloravano il
paesaggio e le case, silenziose e immense, sembravano i protettori di quei
luoghi magnifici.
Avevamo
raggiunto il confine del nostro territorio e stavamo tornando indietro,
controllando che fosse tutto a posto, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno.
Mio padre era ancora legato alle sue abitudini, nonostante la guerra fosse finita
da anni e avesse cambiato molte cose.
Mio
padre era un samurai, come lo erano i miei antenati da generazioni, e aveva sempre
avuto degli obblighi e dei doveri che era stato felice di portare a termine. Fu
uno degli innumerevoli sopravvissuti alla guerra che portò all’unificazione del
Giappone nel 1599 e che cambiò a condizione dei samurai fino allora ritenuti
quasi intoccabili. Da quel momento mio padre avrebbe fatto solo parte di uno
status symbol e sarebbe diventato insegnante di un’arte difficile e
impegnativa, che riuscivi a imparare solo se l’avevi nel sangue o se ci mettevi
anima e corpo. Fu dura per lui abituarsi alla sua nuova professione, era un
combattente, nato e cresciuto come tale. Per lui, fare l’insegnante era degradante,
soprattutto quando aveva a che fare con bambini costretti dai genitori a
seguire le lezioni perché andava di moda.
L’inizio
della storia con mia madre fu qualcosa di assolutamente inaspettato che gli
portò un’immensa gioia e cambiò la sua vita. Non fu un colpo di fulmine il
loro, ma un amore rimasto assopito nel tempo in attesa di sbocciare. La verità
era che mio padre non aveva mai avuto molto tempo per pensare alle donne, anche
se può sembrare assurdo, non ci faceva caso. Aveva altro di cui occuparsi,
doveri cui adempiere e l’ultima cosa che gli passava per la testa era di
invaghirsi di una donna.
Mia
madre era una delle più belle di tutto il villaggio, corteggiata da tutti,
invidiata da tante conduceva una vita fin troppo normale per una ragazza di
famiglia nobile.
Si
conoscevano da anni, mio nonno era amico di mio padre e andavano d’accordo,
nonostante la notevole differenza d’età. Suo padre lo considerava un ragazzo
con la testa sulle spalle, che sapeva cosa fosse giusto e cosa sbagliato e che,
se si fosse innamorato, avrebbe amato fino alla fine dei suoi giorni. Mia madre
li spiava, spesso, anche se non l’aveva mai ammesso a nessuno e s’innamorò di
quel ragazzo che sembrava essere così forte e serio. Non confessò il suo amore,
lo tenne nascosto nei meandri del suo cuore, affliggendosi per quell’uomo che
sembrava non degnarla di uno sguardo. Lei così bella e ambita, non attirava
l’attenzione dell’unico uomo di cui le importasse davvero. Non furono anni
facili per lei, suo padre voleva che si sposasse, che gli desse dei nipoti
prima della sua morte, ma lei non sentiva ragioni.
Il
destino poi, fece il suo gioco: la guerra riportò a casa quell’uomo tutto d’un
pezzo così diverso dagli altri, ma che, allo stesso tempo, lo cambiò
profondamente. Notava il suo turbamento e la sua infelicità, avrebbe voluto
fare qualcosa per alleviare quel dolore, ma non sapeva come fare e non ne aveva
il coraggio. Solo lo scorrere del tempo poteva aiutare quei due innamorati così
insicuri di se stessi, ma poi alla fine tutto andò per il verso giusto:
scambiarono due parole e poi parlarono per ore. Sapeva ridere! Lui rideva come
non aveva visto fare nessun altro e lei lo guardava con quel luccichio negli
occhi così affascinante che non seppe resisterle.
Ero
cresciuto ascoltando la storia d’amore dei miei genitori arricchirsi ogni volta
di dettagli ed emozioni. In segreto, fin da piccolo, avevo sperato di
incontrare una donna fantastica come mia madre e di avere una storia d’amore
come la loro. Una donna che sapesse ascoltarmi, farmi andare su tutte le furie
e tornare il sorriso in pochi secondi. Qualcuno che sapesse amarmi
incondizionatamente nonostante i miei innumerevoli difetti e con cui potessi
mostrarmi per quello che ero.
Un
viso s’impose tra i miei pensieri e mi scappò un sorriso. Lei con quello sguardo magnetico e
ipnotizzante non poteva essere considerata una donna qualsiasi. Non aveva
niente a che fare con le altre: non si occupava solo delle questioni domestiche
e di vestiti, ma cacciava e sapeva combattere con una spada come pochi maschi
facevano. Mi piaceva proprio per quel suo modo di fare un po’ da maschiaccio,
ma sapevo benissimo che, quando s’impegnava, era più donna di tante altre. In
lei c’era tutto ciò che amavo e odiavo. Di difetti ne aveva troppi, uno tra
tutti la sua continua voglia di parlare di ogni cosa e sfinirmi di domande. Ci
conoscevamo da tutta la vita e non era ancora riuscita a capire che amavo il
silenzio e che ne avessi bisogno, anche se immaginavo lo facesse apposta. Si
divertiva a farmi saltare i nervi e mandarmi su tutte le furie. L’aveva sempre
fatto, fin da piccola, ma riusciva ogni volta a farsi perdonare senza
difficoltà. Amavo tutto di lei.
«A
cosa stai pensando?»
La
voce di mio padre mi spaventò. Non era uno che parlava molto, come me del
resto, ma quando lo faceva, era una sorpresa. Non sprecava l’aria altrui,
quando lo faceva era sempre per un motivo preciso e capii che anche in quel
caso avesse qualcosa per la testa.
Speravo
che non avesse intuito ciò che provavo per lei,
altrimenti sarebbe stata la fine. Sapevo quanto per lui il coraggio fosse la
qualità migliore di un uomo e avrebbe sicuramente visto il mio sentimento mai
dichiarato come un disonore. Nutrivo un profondo rispetto per lui e volevo che
fosse fiero di me in qualsiasi circostanza.
«Nulla,
padre.»
Non
sapevo come potergli descrivere ciò che provavo quando pensavo a lei o come mi
sentivo quando mi rendevo conto che il mio fosse solo un amore a senso unico.
Avevo paura di affrontare il suo giudizio sulla situazione e non ero pronto.
«Takeshi,
sei mio figlio, sei più trasparente dell’acqua pulita.»
Continuai
a rimanere in silenzio cercando di trovare un senso compiuto alle parole che mi
giravano per la testa e che non mi davano pace. Avrei voluto parlargli per
avere un suo consiglio, ma non trovato le parole.
«L’amore
è il sentimento più potente che c’è al mondo e per questo non può essere
assopito o taciuto. Ogni uomo ha una debolezza e se lo è una donna, è la
migliore che si possa avere, ma non la più innocua.»
Quella
era la prova che mio padre aveva capito tutto e che, in un certo senso, mi
appoggiava. Fu un sollievo, ma, allo stesso tempo, la paura dentro di me
crebbe. Mi resi conto che la reazione che avrebbe avuto mio padre era solo una
scusa inutile a cui mi aggrappavo per non affrontare la realtà dei fatti.
Scossi la testa per smettere di pensare a quelle assurdità. Io non ero un
codardo, un uomo senza coraggio. Ero un samurai di nascita e un guerriero non
si comportava in quel modo, non faceva quei pensieri.
Seppi
di essere vicino a casa quando vidi in lontananza i ciliegi in fiore che
coloravano quell’immenso manto verde. Sorrisi, mi ricordavano lei e il colore
dei petali dei suoi fiori assomigliava al colore rosato della sua pelle.
Sakura, quello era il suo nome ed era scritto a lettere cubitali a fuoco sul
mio cuore.
Cercai
di non accelerare il passo. Mi era mancata in quei pochi giorni di lontananza,
stranamente, soprattutto il suo chiacchiericcio continuo ed estenuante.
«Quando
hai intenzione di dirglielo?»
«Dire
cosa?»
«Quello
che provi per lei.» Sbuffai.
Il
silenzio tornò a regnare attorno a noi e cercai di allontanare qualsiasi
cattivo pensiero. Stavo tornando a casa, contava solo quello. Tornavo da quella
ragazza che aveva cambiato per sempre la mia vita.
Sakura
era figlia del migliore amico di mio padre e bazzicava casa mia ancora prima
che si trasferisse. All’età di cinque anni perse il padre a seguito di una
grave malattia incurabile e sconosciuta a cui nessuno aveva saputo dare un
nome. Quando il Signor Masa capì di essere quasi arrivato alla fine dei suoi
giorni, fece promettere a mio padre di prendersi cura di sua moglie e di sua
figlia. Mantenne la promessa per anni, assicurandosi che madre e figlia
avessero tutto quello di cui avevano bisogno, ma c’era qualcosa che mio padre
non poteva dare loro: l’amore di un marito e di un padre scomparso. Aika, la
madre di Sakura, soffrì molto la perdita del marito tanto da arrivare allo
sfinimento che, due anni dopo, la portò alla morte. Mio padre accolse Sakura in
casa nostra trattandola come la cosa più importante che ci fosse al mondo. Non
ero geloso, anzi, non appena arrivò, sentii subito un senso di protezione nei
suoi confronti che non sapevo spiegare. Lei era un fiore delicato che doveva
essere protetto a qualsiasi costo, anche con la vita.
Mio
padre cercò in tutti i modi di farla crescere con l’educazione di qualsiasi
bambina, ma lei non era come le altre già allora. Si applicava nell’imparare i
lavori domestici, ma insisteva perché gli fosse insegnato ciò che facevo io.
Lei fu la prima ragazza a cui mio padre insegnò a combattere con una katana.
Cominciò a seguire le lezioni con me e diventammo compagni di allenamento.
Non
saprei dire quando m’innamorai di lei, ma, con il tempo, sono arrivato a
credere che lo fossi stato fin dal primo momento in cui avevo posato gli occhi su
di lei.
Il
nostro rapporto crebbe di anno in anno, di giorno in giorno fino a quando
diventammo inseparabili. Eravamo ancora piccoli e non pesava su di noi quello
che pensava la gente, ma ben presto tutto cambiò, soprattutto io. Mi resi conto
che provassi per lei qualcosa di più della semplice amicizia e mi staccai,
impaurito per quelle sensazioni sconosciute che non avevo mai provato per
nessuna.
Da
quel momento tra di noi calò una sottile linea che ci impediva di entrare
troppo in contatto. Nessuno dei due fece niente per cambiare le cose, ma andava
bene così. Si creò un equilibrio che non fu mai sbilanciato in nessun modo. Era
forse anche quello il motivo per cui non me la sentivo di parlarle di ciò che
provavo: non volevo che quell’equilibrio si rompesse e le cose cambiassero. Mi
accontentavo di osservarla allenarsi con la katana fuori in giardino o mentre
leggeva un libro al riparo di un ciliegio sulla riva del fiume che scorreva
dietro casa. Mi lasciavo cullare dalla sua voce quando parlava di qualcosa che
aveva appena scoperto e che la affascinava. Lei era così: intraprendente,
curiosa e intelligente, qualità che a volte mi lasciavano basito da quanto
erano sviluppate.
Sarebbe
stata una compagna di vita perfetta, non solo per me, ma per qualsiasi uomo
avesse la fortuna di stare al suo fianco. Intuiva ciò di cui avevi bisogno
ancora prima che glielo dicessi o, a volte, che te ne accorgessi tu stesso. Era
amorevole e affettuosa, nonostante cercassi in tutti i modi di tenerla a
distanza, vedevo come si comportava con i miei genitori ed ero felice che ci
fosse almeno qualcuno che non fosse così spaventato dal dimostrare affetto, a
differenza di me. Ti spingeva a provare cose diverse in ogni ambito ed era
generosa, con chiunque, anche con chi non se lo sarebbe meritato.
Era
perfetta. Perfetta con i suoi mille pregi e mille e uno difetti. Perfetta come
solo un ciliegio in fiore in uno sterminato prato verde poteva essere.
«Un
giorno un vecchio saggio mi raccontò una storia che voglio dire anche a te.
Due
Ciliegi innamorati, nati distanti, si guardavano senza potersi toccare.
Li vide
una Nuvola, che mossa a compassione, pianse dal dolore ed agitò le loro foglie,
ma non fu sufficiente, i Ciliegi non si toccarono.
Li vide
una Tempesta, che mossa a compassione, urlò dal dolore ed agitò i loro rami, ma
non fu sufficiente, i Ciliegi non si toccarono.
Li vide
una Montagna, che mossa a compassione, tremò dal dolore ed agitò i loro tronchi,
ma non fu sufficiente, i Ciliegi non si toccarono.
Nuvola,
Tempesta e Montagna ignoravano, che sotto la terra, le radici dei Ciliegi erano
intrecciate in un abbraccio senza tempo.»
A volte ciò che mio padre voleva dire era completamente incomprensibile,
lui e i suoi modi così evasivi! Non mi sarei dovuto lamentare, lo sapevo, a
volte mi comportavo allo stesso modo.
Quando cominciai a vedere il profilo di casa, il sorriso si allargò.
Sei patetico, Takeshi.
Patetico è dire poco.
Cercai di darmi un contegno.
Mia madre stava stendendo i panni su un filo in giardino, ma non si rese
minimamente conto del nostro arrivo. Solo quando eravamo a pochi metri di
distanza alzò lo sguardo e sorrise.
«Non vi aspettavo così presto.»
«Il viaggio è proseguito senza alcun intoppo » le spiegò mio padre
andandole incontro con un sorriso a trentadue denti.
Quando mi raccontava episodi della sua vita passata, me l’ero sempre
immaginato come un uomo serio, tutto d’un pezzo e per niente incline alle
tenerezze, ma poi lo vedevo guardare mia madre con gli occhi lucidi, un sorriso
sincero sulle labbra e la voce più carezzevole rispetto al solito. Con lei
cambiava completamente come dal giorno alla notte, era chiaro che senza di lei
sarebbe stato un uomo diverso.
Lui era la prova vivente che nell’amore, nel provare dei sentimenti non
c’era niente di poco virile. Ero arrivato a pensare, nel corso degli anni, che
la mascolinità di un uomo e la sua nobiltà d’animo venivano misurati con i modi
che usava con una donna. Un uomo non può essere considerato tale se non tratta
bene una donna, mai.
Mia madre venne ad abbracciarmi e a lasciarmi un bacio sulla guancia.
«È in palestra» mi sussurrò all’orecchio e mi resi conto che stessi
facendo correre lo sguardo da una parte all’altra.
Le sorrisi e mi allontanai. Quando raggiunsi la palestra, trovai Sakura
intenta ad allenarsi con la katana. Non si rese conto della mia presenza talmente
era concentrata su ciò che stava facendo e mi permisi di osservarla, godendomi
quella visione. I suoi movimenti erano fluidi e rapidi, teneva la spada con
entrambe le mani e si muoveva come se stesse immaginando un combattimento vero.
Parava, stoccava e aspettava le mosse di un avversario immaginario. Il suo viso
era tirato e in tensione per la concentrazione e lo sforzo. Indossava un paio
di pantaloni da uomo che si era cucita da sola e una maglietta un po’ troppo
stretta. I piccoli seni erano in bella vista sotto quel sottile strato di
stoffa e si muoveva a ogni minimo spostamento del suo corpo.
Deglutii a fatica e tornai a concentrarmi su ciò che stava facendo,
cercando di immaginare come si stesse svolgendo il combattimento e chi
vincesse.
Si fermò, fece un inchino e infoderò la spada con il filo rivolto verso
l’alto. Alzando la testa mi vede con la coda dell’occhio sulla soglia della
porta e mi sorrise.
«Da quanto sei lì?»
«Sono appena arrivato. Chi ha vinto?»
Continuai a mantenere lo sguardo fisso nei suoi occhi nonostante avessi
l’immensa voglia di guardarla camminare mentre avanzava verso di me.
«Io, che domande» ridacchiò contagiando anche me.
Mi oltrepassò e si sedette fuori sotto il portico.
«Com’è andato il viaggio?»
«Come qualsiasi altro viaggio» mi sedetti accanto a lei.
«Allora è stato silenzioso e monotono.»
Alzai gli occhi al cielo. «Non so se te l’ho mai detto, ma il silenzio
aiuta a pensare.»
«Me lo ripeti ogni volta che comincio a parlare e non hai voglia di
ascoltarmi» si lamentò.
Se solo avesse saputo che avrei passato ore ad ascoltarla e che a volte
mi fingevo infastidito solo per farle dispetto.
«Tu non la finisci mai di parlare, che è diverso.»
Con la coda dell’occhio la vidi fissarmi con un sorrisino sulle labbra e
mi sentii avvampare.
«Che c’è?»
«Dovresti partire più spesso se quando torni sei così simpatico.»
«Io sono sempre simpatico» la fulminai.
«Quando dormi. Avrei voluto dirti che lo sei quando stai zitto, ma lo sei
sempre, pensi troppo.»
«Quindi sarei stato simpatico ogni momento della giornata» sorrisi
vittorioso e poi la guardai. «Mi preoccupi.»
«In realtà sono io quella che si preoccupa. Sembri diverso. Cos’è
successo?»
«Niente» distolsi lo sguardo dal suo.
«Cosa mi stai nascondendo?» mi scrutò, cercando di leggermi dentro com’era
solita fare.
«Facciamo un combattimento?»
Mi tolsi l’haori* e aspettai
che mi raggiungesse.
«Sei bravo a sviare la domanda.»
«Non sto sviando proprio niente, ho semplicemente voglia di fare
movimento.»
Alzò un sopracciglio. «Se sono due giorni che cammini.»
«Movimento diverso da quello. Non ho fatto praticamente altro che
camminare, ho bisogno di sciogliere gli altri muscoli.»
Rimase a guardarmi ancora perplessa. Continuai a sostenere il suo sguardo
mostrandomi il più tranquillo possibile, anche se dentro stavo morendo. Alla
fine cedette e si rilassò.
«Spada o corpo a corpo?»
«Spada» risposi senza esitazione.
Andammo entrambi a prendere il bokken,
un bastone di legno sagomato a forma di spada che usavamo per gli allenamenti.
Le utilizzavamo per non rischiare di farci seriamente male durante il
combattimento. Ci eravamo tagliati in modo grave solo una volta ed era bastata
per farci capire che non dovessimo mai provare con delle spade vere in mano,
soprattutto quando ci trovavamo uno di fronte all’altra come avversari.
Nonostante Sakura fosse una donna combatteva meglio di un uomo e, anzi, era
anche più veloce nei movimenti grazie alla sua statura e corporatura.
Ci girammo in sincrono e ci guardammo con aria di sfida.
Ci salutammo inchinandoci e quando tornammo in posizione eretta, ci
fissammo. Ci mettemmo lentamente in posizione e ci fissammo.
Il combattimento con la katana era una questione di attesa, chi aveva i
nervi meno saldi partiva all’attacco scoprendosi e rischiando di essere
colpito. Fu lei la prima a cedere e tutto era colpa del fatto che meditasse
poco. Da quel momento furono stoccate, parate, colpi dritti e rovesci. Nessuno
dei due prevaleva sull’altro e non riuscivo a trovare nessun modo per colpirle
braccia e gambe. Cosa potevo pretendere infondo? Le aveva insegnato tutto mio
padre.
Diede un colpo talmente forte e inaspettato, che mi cadde il bokken di mano. La guardai stupito
pensando che dichiarasse vittoria, ma gettò il suo a terra e si mise in posa di
combattimento corpo a corpo. Era una lotta all’ultimo sangue.
Sakura aveva dalla sua parte l’agilità e la velocità, era piccola in
confronto a me e spesso sferrava dei colpi che rischiavano di farmi vacillare.
Era un valido avversario, lo era sempre stata. Combattere con gli altri maschi
era quasi noioso, con lei non succedeva mai.
La lotta si fece frenetica tanto che non sapeva neanche io quello che
stavo seguendo, mi lasciavo guidare dall’istinto. C’era qualcosa nei nostri
movimenti che sembrava essere dettata dall’urgenza, anche se non riuscivo a
capire di cosa.
Per la troppa foga mi ritrovai sopra di lei con il fiato accelerato. La
fissai non riuscendo a muovere un solo muscolo. Il tempo sembrava essersi
fermato e non ricordavo neanche dove fossi. Spostai lo sguardo sulle sue labbra
e desiderai baciarle come non mi era mai capitato prima di allora.
Un sorriso spuntò sulle sue labbra e mi ritrovai a farlo di rimando
osservando quella curva così perfetta. Nel suo sguardo c’era qualcosa di
strano, un luccichio che non avevo mai notato prima di quel momento. Per un
secondo pensai che mi stesse incoraggiando, che aspettasse un mio bacio. Non
era possibile.
Mi contenni e cercai di staccarmi, ma mi lanciò una fulminata che bloccò
ogni mio intento. Il suo sguardo sembrava sfidarmi, come se mi dicesse “Prova ad andartene e ti uccido”.
Strinse un lembo della maglietta tra le dita e trattenni il fiato. Le
accarezzai una guancia e sorrise. Avvicinai il viso al suo lentamente,
mantenendo il controllo. Quando la vidi chiudere gli occhi, appoggiai le labbra
alle sue. Rimanemmo impacciati come due ragazzini, ma poi qualcosa in me
scattò. Assaporai le sue labbra e lasciai che le cose venissero da sé.
Ci baciammo per minuti che sembrarono interminabili. Nell’aria volavano
gli schiocchi delle nostre labbra e il nostro respiro accelerato.
Il nostro primo bacio fu guidato completamente dall’istinto e dall’amore
che ci bruciava dentro. Non sapevamo esattamente quello che stavamo facendo, ma
ci piaceva e stavamo bene, quello era l’importante.
Staccai le labbra dalle sue in cerca di aria continuando a tenere gli
occhi chiusi. Una sua mano mi accarezzò i capelli sulla nuca provocandomi un
brivido.
«Mi chiedevo quando avresti trovato il coraggio di farlo.»
Spalancai gli occhi e la guardai confuso. «Che vuoi dire?»
«Pensi tanto, ma alle cose più semplici a volte non ci arrivi» scosse la
testa sorridendo. «Sapevo di piacerti, Takeshi, almeno da un paio d’anni. Non
sono così stupida da non rendermi conto di come stanno le cose. Ho notato come
gli altri mi guardavano e come lo facevi tu e sono arrivata a una conclusione.»
«Avresti potuto dirmelo.»
«E togliermi il sapore dell’attesa? Mai. E poi, tua madre mi ha sempre
detto che è l’uomo a dover fare la prima mossa.»
«Ah, mia madre dice queste cose?»
Annuì. «È stata utile in questi anni d’attesa, mi ha dato molti consigli
e rassicurato su come sarebbero andate le cose. In realtà non l’ha fatto con
parole sue, ma mi ha raccontato una storia che mi ha fatto riflettere e pensare
molto.»
Storia?
Immediatamente le parole pronunciate da mio padre poco prima che arrivassimo
a casa, mi risuonarono nella mente e s’insinuò il dubbio che mia madre l’avesse
raccontata anche a Sakura.
«Quale storia?»
«Quella dei due ciliegi innamorati. L’hai mai sentita?»
Sorrisi scuotendo la testa e alzandomi dal suo corpo mettendomi a sedere.
«Me l’ha raccontata mio padre quando stavamo per arrivare a casa.»
Restammo in silenzio ognuno perso nei propri pensieri.
«Mi sembra di essere stato indirizzato da qualcuno che ne sapeva più di
me» ammisi.
«Sì, si chiama destino.»
Si strinse al mio corpo e le abbracciai le spalle. Avevo accanto la donna
che avrebbe fatto parte della mia vita per sempre, che avevo amato fin dal
primo istante in cui i miei occhi avevano incontrato i suoi. Lei sarebbe stata
la mia forza e il mio tutto, da quel momento fino alla fine dei nostri giorni
insieme. L’avrei protetta come avevo sempre fatto, anche a costo della vita pur
di vederla felice e sorridere. A colpi di katana o di pugni avrei combattuto
contro chiunque si sarebbe permesso di trattarla male.
Non potevamo essere più diversi di così: io, un guerriero serio,
introverso, con poco da offrire e lei, un ciliegio in fiore a primavera, bello,
colorato e rigoglioso. Eravamo l’uno l’opposto dell’altra, ma ci compensavamo.
Lo ying e lo yang, l’alfa e l’omega, il giorno e la notte, il sole e la luna,
il nero e il bianco. Sakura e Takeshi, il ciliegio e la spada uniti da un
destino comune: amarsi e stare insieme tutta la vita, oltre il tempo e lo
spazio. Per sempre.
*indumento indossato sopra il
kimono per renderlo ancora più formale
Buon Salve! Avrei dovuto
pubblicare questa storia ancora mesi fa, ma non so che cosa mi abbia trattenuto
dal farlo.
La storia partecipa al
contest Ritorno all’infanzia di Frantasy94 e non appena ho letto i prompt del
pacchetto da me scelto mi sono ritrovata subito in questo mondo a me così
sconosciuto.
Ho cercato di documentarmi
il più possibile su tutto quello che volevo affrontare in questa OS e mi scuso
in caso qualcuno trovi qualche errore nel riportare fatti, avvenimenti o
azioni.
Fatemi sapere se vi è
piaciuta o se c’è qualcosa che non vi è andata giù!
Oggi sono di poche parole,
ma in caso voleste seguirmi su FB il mio profilo è questo!
Un bacione ^^