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Autore: Clockwise    17/06/2014    3 recensioni
«Sicura di non aver ucciso il gatto di nessuno, rubato qualche fidanzato, avvelenato qualcuno, fatto ritratti offensivi, non so… Sei piuttosto pericolosa quando ti ci metti.»
Mel finse di pensarci su.
«No, non negli ultimi tempi.»
«Beh, dovremmo cominciare a indagare sulle tue passate e presenti relazioni, allora, e cercare di scoprire chi è che hai mortalmente offeso.»
«Suona bene, Sherlock. Ci vediamo domattina a Baker Street?»
«Ah, no, domani mattina devo fare un salto al Bart’s, poi ho merenda con Moriarty, ma potrei essere libero per le tre.»
Genere: Commedia, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Benedict Cumberbatch, Martin Freeman, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non ho la più pallida idea di dove sia uscita fuori, è un po' folle. Spero possiate apprezzare comunque.
Collegata all'altra one shot "Carboncino e Olio su Tela", non serve leggerla per capire, ma se volete sapere come si sono conosciuti...
Il titolo non mi convince, spero me ne venga presto uno migliore... Se ne avete uno voi (ammesso e non concesso che qualcuno legga questa storia) non esitate a suggerirlo, insieme a qualsiasi pensiero/commento/critica vogliate fare, per favore!
Enjoy
-Clock



 
Falso d'autore




Capitolo 1

Melancholia
 
 
 
Sbuffò e si allontanò dalla tela.
«C’è qualcosa che non va, ma non capisco…»
Piegò la testa di lato, si tolse gli occhiali lasciandoli fra i capelli e socchiuse gli occhi.
«Gli occhi. I suoi stramaledettissimi occhi.»
Si avvicinò alla tela.
«I suoi occhi non sono azzurri e basta, no – mica poteva essere così facile, con un tipo come lui, deve complicarmi la vita. C’è del verde salvia, del rosso inglese, del blu di Prussia, del citrino…» elencò piano, cercando i tubetti di colore dalla scatola ai suoi piedi. Tenendo la tavolozza in equilibrio sulle gambe, vi spremette i colori, li richiuse in fretta e, scelto il pennello più sottile che avesse, lo intinse prima nell’olio di lino, poi nei colori, iniziando dal verde. Li stese con precisione certosina, trattenendo il respiro. Si allontanò di nuovo dalla tela e piegò il capo di lato.
«Ora ci siamo… Che ne dici, Matisse?»
Il gatto, richiamato, tornò dal suo giro di ispezione dei quadri nello studio e si strusciò sulle caviglie della padrona, alzando il capo.
«Ti piace, eh? Sì, posso dirmi contenta. E dire che l’ho dipinto praticamente tutto a memoria, basandomi solo su degli schizzi, eh. Brava, Mel.»
Si strinse le mani in segno di approvazione, congratulandosi con sé stessa. Matisse la guardò piegando il capo di lato.
«Che c’è? Qualcuno dovrà pur farmi i complimenti. Lo sai, sono una persona schietta, se una cosa è bella lo dico, se è brutta, pure. Ed è positivo che un artista sappia essere obiettivo, così può auto criticarsi efficientemente, capire quando va bene e quando no. Però uno non deve mai essere del tutto soddisfatto, questo no, perché se hai già raggiunto la perfezione, o credi di averlo fatto, poi non hai più nulla che ti spinga a migliorare. È un bene che la perfezione non esista, se la vedi in questo senso, così puoi sempre cercare di raggiungerla.»
Si alzò dallo sgabello e prese il vasetto con l’olio e la bottiglietta di essenza di trementina. Si diresse verso la porta, lanciando un’ultima occhiata al dipinto fresco.
«Però tu sei perfetto, non c’è storia. Mi sa tanto che porterò alla mostra anche te, ma lui non deve vederti oggi...» mormorò, coprendolo con una stoffa, attenta che non toccasse la tela.
«Vieni, Matisse, è ora di mangiare.»
Il gatto la seguì agitando la coda contento.
 
 
Mel Tipperary aveva imparato ad amare la sua vita.
Lavorava come restauratrice in vari musei, ma aveva comunque il tempo e le energie per dedicarsi alla pittura, ciò che amava davvero fare. Aveva vinto una borsa di studio mentre frequentava l’ultimo anno alla Royal Academy che le dava la possibilità di allestire, in una piccola Galleria vicino a Covent Garden, una mostra tutta sua, che si sarebbe tenuta di lì a tre giorni, e non vedeva l’ora. Aveva anche già venduto qualche quadro e ottenuto riconoscimenti, sia a scuola che fuori, e anche un paio di menzioni in una rivista di arte contemporanea.
Aveva un piccolo appartamento in affitto che condivideva con il suo adorato Matisse. La sua vita sociale non era granché, ma aveva quei pochi amici che le bastavano per una birra il venerdì sera e un po’ di compagnia ogni tanto. Non aveva un fidanzato né alcun tipo di relazione romantica, ma non gliene importava molto: se, da qualche parte nel mondo, c’era qualcuno disposto a sopportarla e a non scappare via dieci minuti dopo averla conosciuta, sarebbe arrivato, prima o poi, ma lei non aveva nessuna intenzione di aspettarlo sospirando.
Ne aveva passate di tutti i colori, in passato, era stata oppressa da problemi che le erano sembrati insormontabili, li aveva resi peggiori di quanto non fossero autosuggestionandosi, ma aveva imparato la lezione, e adesso prendeva la vita con filosofia e un gran sorriso.
Al contrario di Benedict.
Aveva conosciuto quell’uomo dal nome pomposo due settimane prima, in un café, perché aveva un viso così curioso che non poteva non ritrarlo; gli aveva lasciato il numero di telefono, e da allora aveva riempito un blocco intero con suoi schizzi in ogni posizione: di profilo, a tre quarti, a figura intera, addormentato, ridente, con aria assorta…
Benedict la affascinava, inutile negarlo. Sentiva tutte le esperienze, le vite che aveva vissuto – sulla sua pelle o su un palcoscenico – in ogni suo gesto, percepiva il romanzo della sua vita guardandolo negli occhi, vedeva che grande uomo nascondesse dietro una maschera di stanca cortesia e gentilezza ed era sempre più impaziente di leggerlo e scoprire cos’aveva vissuto, conoscere tutte le sfaccettature del suo essere, prenderlo per mano e vivere qualcosa di nuovo, aggiungere una pagina.
Ma oltre a questo e al fatto che riuscisse a sopravvivere pressoché indenne ai suoi sproloqui, quello che l’aveva colpita di lui era quella malinconia che ogni tanto gli rannuvolava gli occhi, quelle rughe che gli attraversavano la fronte. Voleva capire a cosa fossero dovute, trovare la malinconia e farla a pezzi, per non lasciare più che oscurasse quegli occhi celesti. Avrà anche avuto la faccia più strana che Mel avesse mai visto, ma aveva degli occhi niente male.
«Artisticamente parlando, ovvio. Non guardarmi così, Matisse.»
 
 
Benedict sarebbe arrivato a momenti per accompagnarla a Tate Modern come avevano pianificato da tempo, quindi si liberò del camice da lavoro, si sciolse i capelli e si sdraiò sul divano, afferrando il cellulare e lasciando che Matisse le si acciambellasse sui piedi. Chiamate perse a non finire che ignorò come al solito – non badava mai al suo cellulare, avrebbe potuto perderlo e non accorgersene – e tre messaggi: la mamma che le rimproverava di non farsi sentire mai, il professor Keane che si scusava perché non sarebbe potuto essere alla mostra e… aggrottò le sopracciglia. Non conosceva quel numero, ma era un augurio per la buona riuscita della mostra, firmato “your friend”.
«Se ti avessi conosciuto, che è il presupposto per essere amici, avrei salvato il tuo numero!»
Premette il tasto per rispondere, ma suonò il citofono. Gettò via il cellulare e saltò in piedi, correndo a rispondere. Matisse, che era stato sbalzato via di malagrazia, la guardò perplesso e un po’ irritato.
«Che c’è? Non posso mica farlo aspettare.»
Il gatto assottigliò gli occhi, scettico. Mel guardò altrove, a disagio.
«Vorresti insinuare qualcosa? Ma ti sei fumato il cervello? Solo perché sono corsa a rispondere buttandoti giù non vuol dire che Benedict…» avvampò e rimase a corto di parole. Lei. Matisse agitò la coda, trionfante. Mel assottigliò gli occhi.
«Gattaccio permaloso.»
 
°°°
 
Sabato, 30 marzo.
Benedict era sempre stato un tipo preciso e ordinato, sempre in orario.
Il giorno della mostra di Mel era in ritardo colossale.
Chissà perché.
Non era nemmeno mai stato un tipo vanitoso, men che meno narcisista o ossessionato dal suo aspetto, tutt’altro.
Quel giorno aveva gettato all’aria il suo guardaroba, cambiato sei camicie e passato venticinque minuti davanti allo specchio alle prese con i suoi capelli.
Manco fossi una tredicenne al primo appuntamento.
Ed essere un attore gli aveva insegnato a controllare le proprie emozioni e a non farsi prendere dall’ansia.
Quel giorno si torceva le mani davanti alla porta della Galleria, chiedendosi se dovesse entrare o no, sciorinando infiniti “e se…” insensati.
Eh no, bello, sei arrivato fin qui, adesso entri e non fai storie. E niente ‘ma’.
Inoltre, Benedict era sempre stato in grado di conversare civilmente con la sua voce interiore e venirci a patti.
Quel giorno non aveva i nervi per opporvisi e la lasciava sbraitare come una vecchia suocera.
Ehi! Modera i termini.
Oh, al diavolo! pensò, spinse la porta ed entrò, lo stomaco in subbuglio.
Porca la miseria, guarda in che stato è riuscita a gettarti quello scricciolo, un uomo adulto e vaccinato come te…
Si guardò intorno nel piccolo atrio pieno di gente sconosciuta con calici si spumante in mano, chiedendosi dove fosse Mel.
«Benedict!»
L’uomo si voltò sorpreso e sollevato – almeno adesso non avrebbe più dovuto badare alla sua vocina.
Pff. Credici.
«Mel! Che bello vederti. Stavo diventando matto.»
La ragazza piegò il capo di lato, perplessa. Benedict si affrettò a rimediare.
«Stai benissimo così» disse, ammirando per un attimo il vestito chiaro che le fasciava la figura minuta, i capelli scuri sciolti sulle spalle e gli occhi scintillanti, liberi dagli occhiali.
«Oh, grazie» sorrise la ragazza. «Non metto mai vestiti, mi mettono a disagio, non so mai dove mettere le gambe, ma oggi era un’occasione speciale, quindi ho fatto uno sforzo. Anche tu non sei male.»
Benedict sorrise, poi le porse un braccio con fare galante.
«Posso avere l’onore di farmi mostrare le opere dall’artista stessa?»
«Come no!» rise lei, mettendo il braccio sotto il suo. «Ma dovrai aspettare: prima c’è un discorso del direttore della Galleria, poi il rettore della mia vecchia università, perché questa mostra è tipo una borsa di studio che ho vinto, poi un paio di foto, poi si entra. Ok?» disse, sorridendo eccitata. Benedict le sorrise di rimando. Si sentiva pieno di energie, giovane e con una risata pronta a gorgogliare da un momento all’altro dietro ai frequenti sorrisi. Erano secoli che non si sentiva così bene.
Però, chi l’avrebbe mai detto: uno scricciolo dalla parlantina esagerata che ti fa sentire così… Tanto di cappello, Mel!
Fu risvegliato dai suoi pensieri ad un ometto grassoccio con un invidiabile paio di baffi che era arrivato correndo e aveva preso la ragazza per un gomito, agitato.
«Melancholia! È successa una cosa terribile!» ansimò, spalancando gli occhietti. Benedict corrugò le sopracciglia.
«Signor Reeves, cos’è successo?» domandò la ragazza, iniziando ad allarmarsi. Il quieto mormorio che invadeva l’atrio stava diventando presto una rumorosa confusione, Benedict vedeva le persone agitarsi e lo champagne sgocciolare dai calici. Mel strinse la presa sul suo braccio mentre attorno a loro iniziava a formarsi una piccola folla e il signor Reeves, il rettore dell’Università, boccheggiava senza sapere da dove cominciare.
«I quadri, hanno… Hanno rubato dei quadri!» esclamò.
Benedict trattenne il respiro e guardò Mel, aggrappata al suo braccio, pallida.
«Che cosa?» mormorò. Il signor Reeves deglutì e si asciugò il sudore sulla fronte con la manica della giacca.
«Sono spariti tre quadri. Quello… della metropolitana, il tramonto e il ritratto… I pezzi forti della mostra.»
Mel iniziò a tremare.
 
 
«Le telecamere della sicurezza sono state manomesse: quelle che monitoravano le sale con i tre quadri sono state messe in pausa per un minuto e quarantacinque secondi fra le sei e trentatré e le sei e trentacinque di questo pomeriggio, circa mezz’ora prima che la mostra iniziasse, prima che gli invitati iniziassero ad arrivare. Esaminando il video, notiamo che alle sei, trentatré minuti e diciassette secondi l’orologio qui in basso si ferma, e riprende alle sei, trentacinque minuti e due secondi. Stessa cosa per la telecamera che dà sul piazzale nel retro, è stata bloccata per tre minuti dalle sei e trentadue alle sei e trentacinque. I corridoi che portano dalle sale alla porta che dà sul piazzale non sono sorvegliati. Gli invitati presenti sono sotto interrogatorio adesso, il personale è già stato interrogato. Le uniche note rilevanti sono le seguenti: un addetto al magazzino, tale Robert Callingway, si è appisolato durante l’orario di lavoro dalle sei e trenta fino alle sei e quaranta, quando è stato svegliato dal rumore della porta che sbatteva, ma non è riuscito a vedere chi fosse passato; Tom Edwinson, addetto all’archivio, che fumava una sigaretta nel piazzale intorno alle sei e trenta, dice di aver visto entrare un camion e un passaggio di quelle che sembravano tele imballate, ma non sa dire se entrassero o uscissero dalla galleria, e il camion è uscito pochi minuti dopo; infine, la signorina Adelaide Richmond, una degli invitati, che si trovava nel bagno intorno alle sei e trenta, dice di aver visto sotto la porta di uno dei gabinetti delle scarpe da uomo e di aver sentito fruscii di vestiti, ma non è rimasta ad indagare ed è corsa in uno stanzino vuoto adiacente le sale della mostra per, hem, incontrarsi con il signor Jed Anderson, ed entrambi dicono di aver sentito chiaramente qualcuno passare davanti alla porta ed entrare nelle sale, ma non tornare indietro. I due erano troppo, come dire?, occupati per fare caso all’ora, ma possiamo supporre che fossero proprio le sei e trentatré, l’ora del furto.»
L’ispettore McConaghan si schiarì la gola, con aria professionale e pomposa: era visibilmente contento dell’efficienza con cui stava svolgendo il suo lavoro.
Separato o divorziato, la sua carriera in polizia è una sorta di vendetta contro il crimine che gli ha tolto una persona importante… dedusse Benedict, socchiudendo gli occhi.
Ora cominci pure a dedurre. Stai messo proprio male, lasciatelo dire.
Anche solo il fatto che mi metta a discutere con te non è proprio indice di sanità mentale, dovresti averlo capito.
Touché.
«Ma non è tutto: il ladro ha lasciato un messaggio sulla parete vuota occupata dal ritratto. Eccolo qui.»
Benedict sentì Mel accanto a sé trattenere il fiato e irrigidirsi. Si allontanò da lui per avvicinarsi alle fotografie che l’Ispettore aveva in mano.
«“Guardati dai falsi d’autore”. Signorina Tipperary, devo chiederle se sa a cosa potrebbe riferirsi questa scritta… Signorina Tipperary?»
L’ispettore si guardò intorno, spaesato, con il resto degli agenti, il direttore della Galleria, il rettore dell’università e Benedict.
«Oltre ai quadri, adesso sparisce anche l’artista. Ah-ha!»
I presenti si voltarono verso l’ispettore, che si fece piccolo piccolo sotto i loro sguardi e si pentì amaramente della battuta infelice.
Benedict sospirò e uscì.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
  
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