Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: RickishMorty    17/06/2014    8 recensioni
“Cosa devo fare con te, Sansa? Quante volte le guance dovranno andarti in fiamme?”.
Jeoffrey sogghignava, scuotendo il capo appoggiato ad una mano, come un padre bonariamente irritato dai continui capricci e dalla disobbedienza della figlia.
“O magari…” un improvviso lampo colse lo sguardo ceruleo del re “… dovremo farle andare in fiamme per davvero? Eh, Mastino? Che ne dici? Potresti farlo tu stesso, no? Ti piacerebbe avere la stessa bella espressione contorta di questo cane, my lady?”.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sandor Clegane, Sansa Stark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Le aveva sognate ogni giorno della sua vita quelle mura, quelle gigantesche sale adorne di statue e stendardi, quello sfarzo senza fine e che sembrava senza costo. Quasi dovuto. Quasi insito nel reame.
Aveva sognato tutta la vita di sentirsi una principessa, in un luogo così. Sapeva che quello era il suo posto. Un luogo regale, nobile, come se lo immaginava, come septa Mordane le ricordava sempre. Non come Grande Inverno, dove le stalattiti erano la cosa più elegante fra tutta quella neve, quelle pietre dure e scure, fra le desolate lande ghiacciate, sulle quali le ballate non raccontavano altro che orrori.
Solo Lady rendeva il Nord degno di fascino, di attrattiva per lei.
O almeno, fino a quando Approdo del Re non le si era svelata, rivelandosi in tutta la propria monumentale, glaciale crudeltà.
 
“Colpiscila! Colpiscila di nuovo!”
Un altro schiaffo. L’ennesimo manrovescio arrivò dritto in faccia a Sansa, bruciandole le guance, facendole sbattere i denti, bagnandole gli occhi.
Sul Trono di Spade, Joeffrey, il volto paonazzo, urlava ordini e comandi, e se solo il contenuto e il sogghigno col quale li lanciava fossero stati diversi, allora sarebbe potuto addirittura sembrare un vero re.
La sala del trono rimbombava di quegli schiocchi, dei gemiti soffocati a stento della ragazza, della voce folle ed urlante del re.
Il sapore del sangue andò veloce a riempirle la bocca, la cascata di capelli corvini le fece la grazia di coprirle il volto, velandolo, celando l’espressione dolorante e terrorizzata della giovane. L’unico conforto in quell’ennesima punizione.
“Cosa devo fare con te, Sansa? Quante volte le guance dovranno andarti in fiamme?”.
Jeoffrey sogghignava, scuotendo il capo appoggiato ad una mano, come un padre bonariamente irritato dai continui capricci e dalla disobbedienza della figlia.
“O magari…” un improvviso lampo colse lo sguardo ceruleo del re “… dovremo farle andare in fiamme per davvero? Eh, Mastino? Che ne dici? Potresti farlo tu stesso, no? Ti piacerebbe avere la stessa bella espressione contorta di questo cane, my lady?”.
Jeoffrey calcò sull’appellativo, come sempre faceva, come riportandole alla mente quanto era stata stupida nel sentirsi felice, unica, appagata nel sentirlo chiamarla così. La sua futura sposa, la sua promessa, la sua principessa, la sua lady. La stessa Lady che aveva fatto ammazzare.
Il Mastino era accanto al suo padrone, lo sguardo dritto davanti a se, senza essere rivolto a niente, e, contemporaneamente, a tutto. La concentrazione nei suoi occhi grigi era tale da farli sembrare scintillare. Sansa lo guardò, notando le sue mani serrate a pugno. Se fosse stata più vicina era sicura che avrebbe sentito il cuoio dei guanti stridere.
“Oh, ma dimenticavo… il cane ha paura del fuoco. Un altro carnefice dovrà occuparsi di scarnificare la tua pelle nivea.”
Il Mastino serrò la mascella, e stavolta il rumore dei suoi denti digrignare lo sentirono tutti. Come le fauci di un cane rabbioso che ne ammonivano un altro. Ma Jeoffrey non era un cane. Era un leone, secondo il suo vessillo. E i cani non attaccano i leoni.
“Magari indirò un torneo per vedere chi si aggiudicherà tale onore”.
Detto questo, Jeoffrey si alzò dal trono, lasciando la sala con un’occhiata scintillante rivolta a Sansa. Tutti se ne andarono, lasciandola lì a terra. Tutti tranne il Mastino, che rimase immobile.
“Vi prego… di perdonare la mia insolenza… e di non concedermi l’onore di avere un torneo imbandito in mio onore…”.
Quello di Sansa era un sussurro, che nessuno poteva più udire. Ma Sandor Clegane era ancora troppo vicino perché le sue parole potessero perdersi negli echi della sala. Per la prima volta in quella giornata, la guardò.
Uno sguardo duro, l’angolo della bocca sollevato per il disgusto e non solo per la bruciatura. Ma fu uno sguardo troppo lungo per contenere solo disprezzo. Il Mastino non capiva.
Scese il primo scalino, sempre guardandola. Sansa scattò con gli occhi su di lui, terrorizzata, temendo un nuovo inizio delle sevizie. Lo temeva ogni giorno, da lui, l’unico che ancora non le aveva fatto del male. Forse Jeoffrey lo teneva per ultimo. Il peggiore glielo avrebbe riservato per ultimo…
“A volte mi fai proprio incazzare, ragazzina”.
Sansa lo guardò confusa, poco prima di riabbassare lo sguardo. La vicinanza le faceva vedere la bruciatura sempre meglio, e non le riusciva di prolungare lo sguardo.
“Co-cosa, Sir Clegane?”
“Te l’ho già detto, cazzo, non sono uno dei fottuti, effeminati cavalieri” ringhiò l’uomo, ormai davanti a lei, in piedi, mentre lei era ancora a terra. L’ennesimo che la schiacciava, solo sovrastandola. In qualunque modo, Sansa era sempre schiacciata. Da chiunque. Da sempre. Persino da Arya, da piccole.
“Come ci riesci? Come riesci a chinare lo sguardo, accettare i suoi scherni, i suoi affronti, senza reagire, scusandoti per colpe inesistenti, portandogli ancora rispetto? Come fai a non ucciderlo nel sonno? Come fai a non farti divorare da quella rabbia cieca che si prova nei soprusi? Come fai a non corrergli incontro con una daga, a non sputare su lui e sul suo nome?”.
Clegane era basito, rabbioso, ma una rabbia diversa da quella che lo possedeva in battaglia. Non riusciva a capire. Lui non avrebbe mai abbassato la testa così. Avrebbe perso la sua vita pur di non subire affronti.
Ma, forse, perché lui poteva permetterselo.
Si ritrovò a pensare a ciò nel momento in cui lo stava facendo Sansa. Come avrebbe mai potuto pensare di avvicinarsi al re senza che duecento lame la infilzassero senza farle esalare nemmeno l’ultimo respiro?
“Io sono devota al re Jeoffrey Baratheon. Al mio re”.
Rispose, come sempre, senza guardarlo, la voce flebile, ma determinata. Determinata in quelle pantomime a cui il destino l’aveva costretta.
Il Mastino si piegò sulle ginocchia, lo sguardo che ora era alla stessa altezza del suo, ma che non poteva rispecchiarcisi. Non poteva mai, lei non lo guardava mai. Lo privava sempre della risposta dei suoi occhi azzurri. Di nuovo i guanti scricchiolarono nel cuoio, poggiati sopra le ginocchia piegate, la spessa armatura nera che sembrava non impedirlo minimamente nei movimenti.
La sua faccia sfigurata, deforme, l’osso della mandibola che spuntava dalla sua carne, quei rosei vermi di carne ustionata si tesero, trasfigurandosi in una maschera di frustrazione, anelando ad un riscontro. Ai suoi occhi.
“Faresti più onore a te stessa uccidendoti, piuttosto che essere devota a quel figlio di troia”.
Sansa sussultò a quell’insulto, non aspettandosi un affronto così diretto al re. Ma durò solo un attimo, il tempo prima di concentrarsi su quelle parole. Stavolta fu lei a serrare la mascella, sollevando gli occhi, e il Mastino quasi sussultò interiormente. Li aveva tanto voluti e ora non era pronto. Ora quello sguardo accecato dalle lacrime lo stava guardando, fiero, senza ombra di paura, con orgoglio. Un raro momento in cui Sansa era di nuovo una Stark di Grande Inverno.
E lui non era pronto. Lo guardava e lui non era pronto…
“C’è più onore nel chinare la testa di fronte a un colpo, piuttosto che privare se stessi della propria vita”.
Clegane continuò a guardarla, a guardare come la fierezza scoloriva in quegli occhi azzurri, annegando nelle lacrime, lasciando di nuovo il posto al disagio, alla paura, al sapere di essere indifesa.
Perché questo era Sansa. Completamente, totalmente indifesa.
Un lungo silenzio fra loro le impose di riabbassare gli occhi, con rassegnazione. Non era il disgusto alla sua vista a farle chinare lo sguardo. Era la rassegnazione di un altro colpo.
Sandor spostò lo sguardo sulla sua guancia, vedendo i capillari rotti sotto la pelle sottile, delicata, bianca come la neve nel quale era nata. Il labbro inferiore ancora umido di sangue, spezzato. Rosso come il peccato. Così belle e rosse che avrebbero dovuto essere pulite solo con un bacio.
Il Mastino sollevò la mano guantata, passandole il pollice sulla pelle rotta, accarezzandole, pulendola, rimpiangendo di non essersi tolto il guanto, per poterla sentire con la pelle.
Sansa sussultò, senza però guardarlo ancora. Uno schiaffo si sarebbe aspettata. Ma perché? Lui non l’aveva mai toccata per farle del male.
Riusciva a percepire il calore della sua pelle anche sotto la spessa pelle che gli ricopriva le mani. Sembrava ustionarla quel contatto sporco, bollente, sulla ferita aperta. Jeoffrey aveva ragione: il Mastino la stava bruciando.
“L’uccelletto non ha solo parole imparate a memoria da cantare. Ogni tanto, il lupo ritorna a ringhiare. Ma è bene che i leoni non lo sentano, perché ora è la loro di gabbia dorata che sta abitando.
E i Lannister il loro oro lo comandano molto, molto bene”.
Sandor si alzò, il pollice sporco di sangue, e i suoi occhi grigi che non erano stati dissetati da un ultimo sguardo.
Si voltò, pensando che l’aveva toccata. Ringhiò sommessamente pensando che nell’unica occasione che aveva avuto di toccarle le labbra, era stato ostacolato da uno stupido, rovinato guanto.
Ma Sandor Clegane, il Mastino, non era fatto per i rimpianti.
Sansa lo guardò andarsene, il nero mantello che quasi non strusciava per terra, a causa dell’altezza dell’uomo. Le labbra che ancora bruciavano, gli occhi che lasciarono cadere calde lacrime. Era stupida, tutti glielo dicevano. E nella sua stupidità non riusciva a capire se il Mastino stesse dalla sua parte o no.
Ma un cane è sempre fedele al proprio padrone.
 
Era sera, il tramonto era passato da un pezzo, la cena appena conclusa. Non aveva mangiato praticamente nulla. Non con gli occhi chiari di Cersei e Jeoffrey che sembravano dilaniarla a tavola. Ne era certa, un giorno l’avrebbero sbranata sul tavolo, dividendosi la sua carne del Nord, e si sarebbero vantati poi di avere avuto un boccone così prelibato a loro portata.
Non gli sarebbe bastato loro padre. La sua testa che rotolava senza espressione non era stato che un magro spuntino per loro. E da quel momento Sansa si era continuata a chiedere se veramente l’inverno sarebbe arrivato.
Quel pensiero le fece gelare il cuore, l’unica cosa fredda rimasta ad Approdo del Re da quando suo padre era morto, Arya scomparsa, Jory Cassel ucciso. Nulla del Nord era rimasto. A volte anche lei aveva dubbi di esservi mai appartenuta. Il Mastino aveva ragione. Era lei a sembrare il cane di Jeoffrey. Anzi no, il suo giocattolo.
Si bloccò, stringendo gli occhi, tendendo le labbra ed appoggiando la schiena sulla parete, scivolando lentamente, strusciando il vestito di stoffa pregiata lungo la dura pietra, finchè non toccò terra, esplodendo col contatto in un milione di singhiozzi. A morte il re, a morte la regina, a morte tutta Approdo del Re e a morte se stessa.
Il disprezzo per se stessa la consumò, dilaniandola da dentro, mentre le lacrime le rigavano le guance, senza tregua, senza sosta.
E se si sbagliasse? Se la morte fosse migliore a tutto ciò? Se con la morte avesse ritrovato l’onore, la dignità? Se stessa?
Non sarebbe stata la prima volta che il Mastino aveva ragione. Che chiunque altro avesse ragione confronto a lei.
Di colpo le lacrime si fermarono, lasciando le loro ombre sulle guance della giovane Stark.
Una strana determinazione la spinse ad alzarsi, a volgersi verso un’arcata poco lontana da lei. L’aria della sera era fresca, piacevole, un vento leggero portava via la calura del giorno. Avvicinandosi alla finestra che dava sul vuoto, Sansa poté vedere le stelle, il cielo nero che le circondava. Cielo d’Estate, sotto la quale era nata e sotto la quale sarebbe morta.
Non avrebbe mai visto l’Inverno. Anche quelle sarebbero rimaste solo storie, così come lo erano quelle sui cavalieri.
Si tolse i sandali, sciogliendo i lacci che glieli legavano attorno alle gambe.
Le sue dita sottili si strinsero attorno alle piccole colonnine dell’arcata. Un piede si sollevò, andandosi a posare sulla fredda, ruvida pietra. Di colpo, il cuore le si alleggerì. Non gelava più, ma nemmeno era caldo. Era semplicemente pieno di quella sensazione di vertigine che si prova sul vuoto. Vertigine che prometteva libertà.
Quella promessa non sarebbe stata tradita. Almeno quella, no… quella storia sarebbe stata vera. La stava scrivendo lei.
Chiuse gli occhi, stringendo spasmodicamente, con le ultime forze che dedicava alla vita, le colonnine di pietra. Una sola pressione del piede, e sarebbe volata via. Sarebbe tornata a correre con Lady.
Uno… Due… Tre…
 
Due mani salde come tenaglie la afferrarono per le braccia, quasi fino a romperle. Salde ed insieme incerte, come se una presa sbagliata avesse potuto farla precipitare giù. Terribilmente impaurite, come se l’irreparabile stesse per succedere. L’unica cosa che la teneva ancora ancorata alla finestra e alla vita.
La tirarono giù, serrandola con le braccia in una morsa letale, privandola del respiro e bloccandole i battiti. Nessuno l’aveva mai stretta così. Con una tale disperazione, una tale esigenza, una tale forza. Quasi poteva sentire le sue ossa scricchiolare.
“No”.
Disse solo una voce ruvida, bassa, roca. Quella voce. Lo disse dopo un po’, quasi in un soffio.
“No”.
Volle ripeterlo, temendo che non avesse sentito, scandendo di più, con chiarezza, con la voce che da flebile diventava bassa, gutturale.
“Non farlo mai”.
Il contatto fra i due corpi era il più profondo e intimo che Sansa avesse mai provato. Nemmeno suo padre l’aveva mai stretta così. Di nuovo si sentì ustionare, come se il fuoco sul volto di lui si stesse propagando anche a lei, diramandosi sulla sua schiena, salendo fino al volto, incenerendole i capelli, ustionandole le braccia.
Di colpo le lacrime ripresero a scorrere, silenziose, sulle sue guance, nell’ennesima cosa insensata che le succedeva nella vita.
“L’avete detto voi. Avete detto voi che c’è più onore nel farlo. Che sarebbe stato meglio”.
Le aveva mentito anche lui?
Clegane sentì i battiti accelerarsi, in un’ira cieca verso se stesso, verso ciò che aveva detto. Era come se ce l’avesse messa lui su quel cornicione. Cominciò a respirare più velocemente, le narici che si dilatavano, la maschera di ustioni sul suo viso che si contorceva, come fosse dotata di vita propria. Era colpa sua se Sansa stava per morire.
Perfino in un’occasione del genere l’uccelletto non sapeva rinunciare all’etichetta, dandogli del voi.
Solo dopo che parlò si rese conto di quanto forte la stesse stringendo, di quanto le sue mani fossero serrate sulle sue braccia, la sinistra sul destro, la destra sul sinistro.
Non si era mai reso conto di quanto fosse piccola, esile, delicata.
Allentò la presa, senza lasciarla ancora. La visione del suo corpo in sospeso nel vuoto era ancora forte. D’improvviso, riprese a sentire la mente leggera, quasi febbrile.
Lo spavento gli aveva fatto completamente dimenticare l’ebbrezza che tutto quel vino gli aveva donato. La paura può farci uscire da noi stessi. Ma, tanto, prima o dopo siamo sempre costretti a tornarci.
Anche Sansa cominciò ad acuire i sensi, respirando a pieni polmoni, ora che poteva, il pesante fiato alcolico del Mastino. Era qualcosa di ben più forte del vino dell’Estate. Un odore così penetrante che quasi girava la testa anche a lei. Arricciò le labbra di fronte a quell’odore, come ricordandosi di chi era lei, e di chi era lui. La consapevolezza la colse, convincendola del fatto che il cane non aveva fatto altro che salvare il passatempo preferito del re. Ma quella stretta…
“Se non sarò io, sarà lui a farlo per me. Prima o dopo, tutti si stancano dei propri giocattoli. E il re ne può avere quanti vuole. Io e te siamo solo gli ennesimi”.
Ora aveva dimenticato il voi. Ed era a metà fra un uccellino e un lupo.
Sansa voleva che l’uomo interrompesse il contatto. Si sentiva bruciare, ustionare, ora che l’uomo non aveva più l’armatura addosso, ma solo una leggera cotta di cuoio, vestiti di lino grigio, dall’odore tremendamente forte di sudore, di uomo.
Sandor, la mente che non era più lucida, che forse non lo era mai stata, inspirò a pieni polmoni l’odore di lei: odore di primule e mosto selvatico, di vento e miele. Odore di donna, sebbene lei quasi mai lo sembrasse.
Le sue mani scivolarono su, sulle braccia di lei, senza cingerle, scorrendovi solo sopra, stavolta senza guanti. Se la immaginava fredda, Sansa Stark, principessa del Nord; ma ora gli sembrava proprio come se l’era sempre immaginata: un uccellino spaurito, tiepido, tremante, dalle ali spezzate senza pietà. Era questo che lei gli ispirava? Pietà? Tenerezza? Umanità?
Non era fredda, questo no.
Sansa sembrava paralizzata, senza sapere come reagire, come rispondere a quel contatto, a quella lunga, strana carezza, che sembrava quasi saggiarla. Non sapeva se sarebbe mai stata di nuovo abituata a un contatto del genere, senza averne paura. Senza avere paura di qualsiasi cosa, di nuovo e sempre.
Sentiva il suo fiato pesante, che non era il respiro di un uomo, ma il fiato stesso di un animale che fiuta la preda, che non vuole più lasciarla andare via. Non le rispondeva. Forse nemmeno l’aveva ascoltata. Forse non aveva risposte.
Sentì le sue labbra percorrerle il collo, senza chiudervisi sopra, solo percorrendolo, come le sue mani stavano facendo con le sue braccia. Una scia infuocata le si liberò sulla pelle, facendola rabbrividire, e il Mastino la sentì.
Serrando le fauci, la girò di colpo, infervorato dall’alcol, dalla visione di poco prima, dall’impotenza e, nel tempo stesso, dalla onnipotenza che sentiva con lei.
“Ti disgusto, uccelletto? Vorresti fossi il tuo Cavaliere di Fiori, non è vero? Ma non hai ancora imparato che tutte quelle cagate sui cavalieri sono false, non è vero? No. Tu ti fermi ad un volto, ad un dettaglio, ad un’apparenza, e, come hai sempre fatto, ti ritrovi nei guai, nelle mani di sadici re che vogliono fare di te solo bambole da spezzare fra le mani. Magari sei di nuovo nei guai, uccelletto. Magari stavolta hai ragione”.
Cingendola per le braccia la portò contro il muro, senza però sbatterla, senza farle male, mostrando sempre quel briciolo di delicatezza che aveva avuto con lei, quasi senza accorgersene. Non le sfuggirono le sue guance nuovamente bagnate, e quella visione gli fece stringere il cuore, infossandolo, facendogli odiare se stesso e lei. Se stesso e quel marchio che portava su metà del volto.
Sansa era in trappola, schiacciata, in quel corridoio nessuno sarebbe venuto a salvarla. D’altronde, chi mai avrebbe avuto l’interesse nel farlo?
Poggiò le mani sul petto del Mastino, premendo impercettibilmente, trovando un muro di muscoli sotto i palmi, che sembravano quelli di una bambina paragonati alle larghe spalle dell’uomo.
Lo guardò negli occhi. Guardò quello che si era miracolosamente salvato dal fuoco, grigio, quasi nero in quella notte senza luna. Circondato da pelle scarnificata, rosea e cruda, impossibile da guarire, deforme e scomposta. E per una volta non distolse lo sguardo. Aspettò, come faceva sempre. Come sempre aveva fatto, aspettò gli eventi.
Clegane non aveva mai avuto così vicino il suo viso, i suoi profondi, disperati, tristi e soli occhi azzurri. Mai aveva visto così da vicino la desolazione, il terrore che li possedeva. Lo stesso sguardo che lui era sicuro di avere col fuoco. Lui non era estraneo alla paura, per quanto potesse raccontare il contrario a se stesso e al mondo. Non c’era spada che potesse salvarlo da quel terrore cieco e sordo.
Per la prima volta, fu Sandor Clegane ad abbassare lo sguardo di fronte a Sansa Stark. Alla sua bocca. Il taglio ancora visibile sul labbro inferiore, pieno, rosso, gonfio a causa della ferita. Il ricordo di quella stessa mattina era annebbiato dal vino, la sensazione che aveva sentito sotto la mano guantata quasi dissolto. E pensare che era stato questo l’intento della sbronza.
Ma ora lo voleva più che mai. Desiderava sentire com’erano quelle labbra. Le labbra che Jeoffrey aveva baciato, che aveva offeso e poi ferito.
Sansa quasi previde quello che stava per succedere, col cuore che si fermava lentamente. Per una volta non avrebbe chiuso gli occhi, non avrebbe abbassato lo sguardo. Avrebbe affrontato lui, a cui molti uomini si erano arresi senza neanche tentare.
Ciò che venne fu molto diverso da come Sansa lo aveva immaginato. Non venne un bacio. La mano sinistra di Clegane era salita sul suo volto, e ciò che era già successo avvenne di nuovo: il pollice ruvido, calloso dell’uomo le passò sulle labbra, troppo grande per accarezzarne solo uno.
Mani sulle braccia.
Bocca sul collo.
Pollice sulle labbra.
Mai avrebbe pensato di assaggiare così proprio lei, l’uccelletto delle Isole dell’Estate che veniva dall’Inverno più gelido e profondo.
Di donne ne aveva assaporate, divorate. Puttane, ragazzine stuprate, nemmeno se le ricordava. Troppe e troppo insignificanti per poterne ricordare il volto. Perché quel pollice sulle sue labbra gli dava più del suo cazzo immerso in una figa calda? Perché per la prima volta notava quanto potessero essere morbide le labbra di una donna? Morbide, ovattate, rosse e calde.
Si corrucciò, rughe di espressione si delinearono sulla sua fronte, mentre un lungo, lento sospiro lo riempiva, svuotandolo subito dopo.
“Non è così che volerai, uccelletto”.
Sembrava una promessa.
Il pollice salì ad accarezzarle la guancia, lo zigomo candido, con più delicatezza di quanto potesse essere capace la sua mano. Serrando un’ultima volta la mascella, il Mastino la lasciò lì, accanto a quella finestra che era quasi stata la sua cornice di morte. I suoi passi pesanti risuonarono nel corridoio, mentre si allontanava, inghiottito nell’ombra, che lo rivestiva di una nuova armatura.
Sansa lo guardò allontanarsi, con la pelle che ribolliva di calore. Il suo tocco o la vergogna? O entrambi?
A volte le sembrava che il Mastino potesse condividere con gli altri le fiamme infernali che si erano stampate su di lui.
Perché non bruciava viva anche lei, allora? Perché ne sentiva solo il calore e non l’ustione?
Posando una mano sulla propria guancia, respirò profondamente l’aria della sera. Forse perché veniva dal Nord. Forse perché le fiamme non lo potevano sciogliere, il Nord.
 
 
  
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