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Autore: roro    16/08/2008    9 recensioni
Smettere di guardarlo sarebbe stato segno di resa – osservarlo sarebbe stata una sfida. Non avrebbe ceduto, Ayame. Non questa volta.
Lei vinceva
, sempre.
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Koga
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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*%*%* Salve, carissimi!
Chiedo venia, ma ho scritto una nuova Shot. Non è nulla di che, e lo so.
Ma, davvero, l'ho scritta di getto. Quando scrivo di getto il mio lavoro è sempre pessimo -.-
Comunque, spero l'apprezzerete.
Mi sto specializzando in gift-fic, e questa non fa assolutamente eccezione.
Una KogaXAya dedicata a Aryuna. Ary è un vero tesoro, mi supporta sempre e mi aiuta. E' una persona gentilissima, che merita fan fic molto più belle di quelle che io so scrivere. Ma questo penso sia il mio massimo.
La frase di apertura, come ho scritto, proviene da Full Moon, manga per cui io e Ary-chan stravediamo letteralmente. Spero vi piaccia ^^.
E commentate! XD
Ciao a tutti!

 

[Mini revisione del 03/04/10]*%*%*


Il telefono.

[Di Ayame, Koga e tante cavolate.]




«Ricordo tutte le emozioni che mi hai trasmesso.
Nonostante il mio cuore soffra in silenzio...
... quando penso a te, si colma di dolcezza.
Il tempo delle lacrime ormai è finito.
Rimproverami con tenerezza, mentre sussurri al vento che spazza la città, agli specchi d'acqua e ai ciliegi che fioriscono di notte...
affinché io possa finalmente sorridere, anche solo per un attimo».
(Full Moon Wo Sagashite - volume 2 - capitolo 6)

                                                                                                     

 

 

 

 

 

 

«Salve, gente! La vostra Aya non è a telefono, ma non dovete disperarvi, anzi. Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico e sarete prontamente richiamati, meow!».

 

Ok. O andava, o avrebbe anche potuto ritirarsi. Era l’ultima spiaggia, insomma.

«Pronto? Ayame, sono Koga. Ehm, ciao. Sai che non so neppure bene perché ti ho chiamato?». Prese fiato, perplesso. «O, meglio... So perché ti ho chiamato, e so di aver fatto una cazzata. Dovrei attaccare e far finta di nulla, lo so. Ho già rovinato abbastanza la nostra amicizia. Ma non ce la faccio».

Ecco, era arrivato il momento patetico.

…evviva.
«Devo parlarti. E scusarmi, perché ti ho ferita nel profondo, oggi, sebbene sia stato il tuo sorriso a tirarmi su negli ultimi tempi», biascicò. Si grattò appena il capo, indeciso sul cosa dire. Poi prese fiato: « Sono seduto sulla scala di marmo di casa mia, quella esterna – ricordi le varie cavolate che ci facevano da bambini? E quando cadevi, e ti sbucciavi le ginocchia, ed ero io a doverti rialzare?». Ridacchiò. «Ho i capelli bagnati dalla pioggia incessante e, beh, ringrazio l'acqua che cade dal cielo. Nasconde le, ehm, fare il teatrale non è proprio la mia specialità, lacrime che continuano a solcarmi le gote».

Okay, forse il momento peggiore era passato. Ma Ayame l’avrebbe preso in giro a vita, e non sarebbe stato granché piacevole.
«Sei sempre stata una costante fonte di felicità, sai?», balbettò imbarazzato. «Sempre. Non c'è mai stato un giorno in cui il tuo volto abbronzato – dannata tu che ti fai tutte quelle lampade e poi prendi in giro me! –, i tuoi capelli scarlatti e i tuoi occhi smeraldo non mi abbiano tirato su di morale», aggiunse, «peccato io sia un idiota».

Uhm. Forse i pezzi imbarazzanti non erano ancora definitivamente finiti, e forse le ragioni per cui Ayame l’avrebbe potuto prendere in giro erano ancora parecchie. Argh.
«Ho inseguito costantemente una ragazza che non mi amava, l'ho braccata, ho provato a farla innamorare. Ma non è servito a nulla. Lei amava un altro – beh, ovvio. Baka io che mi sono illuso».

In realtà, pur essendo conscio di non aver mai amato realmente Kagome, l’argomento bruciava ancora – Koga prese fiato, cercando di calmarsi. Meglio non mostrarsi agitati.
«Nella mia buca delle lettere, due mesi fa, ho trovato l'invito al loro matrimonio, qualcosa che suonava come: Kagome Higurashi e InuYasha no Taisho sono felici di annunciare il loro matrimonio, e la invitano cordialmente alla cerimonia che si terrà – boh, non l’ho letto. Però, sai che ho deciso di andarci?».

Ecco, nuovo momento ridicolo.

«Dopo tutte quelle scenate che ti ho fatto, dicendo che quel coglione poteva risparmiarsi questa cavolata di invito, e che poteva ficcarselo – sai dove, no? –, il suo invito, ho deciso di andarci comunque. Ho comprato un regalo – un costosissimo regalo, un bel regalo, un regalo perfetto, e andrò al matrimonio del mio migliore amico».

Però bruciava parecchio, l’ultima affermazione. Parecchio-parecchio.
«Il mio migliore amico, quello che mi ha rubato il mio primo amore, InuYasha-lo-sfigato. Ti rendi conto, Ayame, di quanto io sia un caso disperato? Ah, sì. So che sto parlando di fretta. Ma scusa, il tempo è limitato, non ho fatto che una minuscola ricarica ed io ho tante – troppe, volendo essere sinceri – cose da dirti. Così continuo a parlare a ruota libera. E uhm, scusa».

Deglutì.
«Volevo, non so. Scusarmi? Oggi sono stato un bastardo, nel vero senso della parola, e non è vero che non ti amo e che sei una rompiscatole, non è affatto vero. Ma mi hai preso alla sprovvista, dai! Insomma, non puoi afferrare il braccio – cioè, mi hai strattonato! Hai iniziato a tirarmi! Come avrei dovuto reagire?».

Argh, nuovo momento imbarazzante, nuovo momento imbarazzante! Ayame l’avrebbe davvero, davvero, davvero preso in giro, questo era certo.
«Ti ho detto tutto quello che mi passava per la mente, e ho finto di odiarti. Perché, sai?, quelle sono le parole che desideravo mi dicesse Kagome.Quando mi ha rifiutato, lo ha fatto con una dolcezza infinita – e la cosa, checché se ne possa dire, è stata tutto fuorché piacevole. Mi ha illuso, quando mi sono trovato davanti l’invito per poco non sono impazzito e… avrei preferito un taglio netto», aggiunse, «e mi sono sfogato su di te. Io… Ti amo. Scusa».
Argh.

 

 

*

 

 

Spinse nuovamente il tasto replay con gli occhi lucidi, inginocchiandosi accanto al tavolino su cui era poggiato il telefono. Oh, Dio, oh, Dio, oh, Dio, oh, Dio – stava andando in iperventilazione. Dannato Koga.

Le aveva detto: «Ti amo», quell’idiota. Quell’idiota le aveva detto: «Ti amo».
Ebbe una fitta al cuore, iniziando a singhiozzare.

Era un idiota patentato, Koga.

Afferrò la borsetta, riversandone il contenuto sul pavimento, e afferrò il pacchetto di fazzoletti, soffiandosi il naso. Poi tirò le ginocchia al petto, piangendo sul jeans nero, chiazzandolo di macchie umide e stringendo con forza tra le dita il fazzolettino umido.
Quel pomeriggio lui le aveva letteralmente spezzato il cuore.

E adesso era innamorato di lei, o almeno così diceva.

Un singhiozzo le si formò in gola – era scappata via, quando lui si era messo ad urlare, e per la prima volta non era stata capace di rispondere a quelle offese. Aveva pianto e nulla più, perché le riusciva difficile fare altro.

E adesso era innamorato di lei, o almeno così diceva.
E lei lo avrebbe perdonato, dopotutto.
Lo faceva sempre.
Da quando erano bambini, e lui la faceva cadere, e lei si sbucciava il ginocchio; oppure, come quando, per errore, le aveva versato l'intera ciotola di ramen sul vestitino nuovissimo.
Koga le faceva sempre male. La faceva sempre immensamente piangere.
Ma il suo dovere era perdonarlo, no?
Scattò su, aggiustandosi i codini ed afferrando il mazzo di chiavi.
Era come una guerra tra loro: chi distoglie per primo lo sguardo perde. E lei non voleva perdere.

Smettere di guardarlo sarebbe stato segno di resa – osservarlo sarebbe stata una sfida. Non avrebbe ceduto, Ayame. Non questa volta.

Lei vinceva, sempre.

 

 

*

 

 

«Ayame?».
Un passo, due, poi la donna sbucò fuori dalla cucina, un piatto tra le mani e l’espressione più pacata che Koga le avesse mai visto sul volto. «Mh?».
«Tuo figlio», scandì lo youkai, indicando una pila di giocattoli gettati sulla sua poltrona preferita, «è il demonio. Il demonio, dico!».
«Su, non lamentarti. Eichi ha il diritto di giocare, non credi?».
Lui non controbatté, limitandosi ad uno sbuffo frustrato e sollevando di peso i giochi – salvo poi lasciarli rumorosamente cadere sul parquet.

Ayame ridacchiò appena.
«Papà!». Un bambino dai capelli biondo chiaro e gli occhi marroni arrivò di corsa. Sembrava irritato, il pupo. «Chi – con che – come hai osato?».
Koga, come sempre, sospirò. Lui e suo figlio erano l'uno l'antitesi dell'altro: lui moro, il piccolo biondo, lui con gli occhi azzurri, il figlio con gli occhi nocciola, lui con la carnagione scura, il ragazzino con la pelle pallidissima.

…e se non fosse stato per le orecchie a punta e la coda – dello stesso marrone –, nessuno avrebbe sospettato la parentela strettissima. Eichi era anche un piccolo nanerottolo saccente, poi!
Sentì un leggerissimo rumore, e si voltò, appena in tempo per evitare un assalto di Momoko, la secondogenita – la secondogenita che sembrava un piccolo uragano eccitato.

In un angolo, sulla scrivania, c'era un piccolo cellulare, vecchio di parecchi anni, intriso di ricordi.
Era il telefono con cui aveva chiamato Ayame.
Era il telefono che li aveva fatti mettere insieme.
Era il telefono.
E non se ne sarebbero mai più sbarazzati.

 

…o forse sì?

   
 
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