Prompt: Cometa
Word
Count: 736
Genere:
Angst,
Triste,
Introspettivo
Pairing: Johnlock
Accompagnamento:
“We
Move Lightly”,
Dustin O' Halloran
Sherlock Holmes - unico consulente
investigativo del mondo, l'eroe di Reichenbach, l'Uomo del Cappello -
non si era mai particolarmente appassionato all'astronomia, com'è
rinomato, a tal punto che era arrivato persino ad eliminarla
completamente dal suo Mind Palace e a smentirla con ogni parte di sé.
Eppure, John Watson - medico militare e personale baby sitter del più
giovane dei fratelli Holmes – era sempre stato attratto dalla
materia e, nonostante avesse a lungo tentato di nascondere questa
passione al suo coinquilino, il tentativo non aveva fatto molti
progressi.
Era la notte del dieci di Agosto e i tetti londinesi,
ultimamente abituati alla calura estiva, erano stati rasserenati da
una pioggia recente e dalla brezza fresca che questa aveva portato.
Sherlock
e John sedevano, vicini, sul tetto del 221 di Baker Street,
accontentandosi
di ricercare nel cielo le luci degli aeroplani e di fingere che
fossero stelle, non badando affatto al resto del mondo, spalla
contro spalla e
avvolti
dalla coperta rosso scuro che una volta giaceva sullo schienale della
poltrona di John. Due tazze di tea non erano state toccate da quando
erano state portate su dall'appartamento, la bevanda calda dentro di
esse ormai raffreddata. Sherlock
stesso se n'era dimenticato; lui che ricordava tutto, lui che non
rinunciava mai ad una tazza di tea. Ma
egli,
più che fissare il cielo, preferiva osservare John, le sue
iridi illuminate dalla pallida luna che non lasciavano mai
il firmamento, la sua presa mentale sulle stelle, la sua
incontrastata meraviglia nel constatare che qualcosa, chissà
cosa, era proprio lì sotto i suoi occhi e non se ne sarebbe
andato se anche
avesse
mosso lo sguardo. Sherlock lo guardò e per un attimo gli
sembrò di dimenticare tutto: la deduzione, la ricerca,
l'esibizionismo, forse persino l'amore. Guardandolo non vide un
oggetto da comprendere, né
la
vittima di un caso, né
la
cavia del suo ennesimo
esperimento. Vide l'ammirazione e la passione, e, in fondo, nascoste
dietro a strati di insicurezza, la tristezza e la desolazione, la
nostalgia e l'amarezza. Sentì il bisogno, per la prima volta
in tanto tempo, di prendergli la mano e di stringerla, di farsi
carico di tutta la sua maliconia e di rimanere in silenzio con essa
nel petto. Tuttavia, avendo abbassato lo sguardo, fece per dire
qualcosa di sciocco, o per lanciare una lamentazione al cielo vuoto e
fin troppo scuro, ma venne interrotto dalla voce candida del
dottore.
«Avevo
un telescopio, quando ero bambino. Me lo comprò mio padre
quando morì mia madre. Aveva il colore dei suoi occhi, lo
stesso del cielo notturno, e pensai che se vi avessi guardato
abbastanza attentamente attraverso avrei potuto dimenticare di
osservare il cielo e credere di essermi immerso dentro ai suoi
occhi», sussurrò con sguardo malinconico, puntato al
terreno, le dita che giocavano distrattamente con l'orlo della
coperta. «Non avevo calcolato, ovviamente, che del cielo non
esisteva solo il colore, ma anche gli abitanti. A San Lorenzo, dopo
un anno dalla sua morte, vidi una stella cadere. Pensai fossero le
sue lacrime. Evidentemente ero troppo ingenuo per
realizzare che al cielo non importa nulla di ciò che ci
accade, quindi tantomeno ai morti».
Sherlock lasciò
che le cicale
riempissero il silenzio e che John appoggiasse la testa alla sua
spalla, respirando profondamente contro il suo petto,
il frinire
e i lenti spostamenti d'aria gli
unici
suoni
ad
accompagnarli nel sonno.
Poi, in una lenta ninna nanna, cominciò a recitare.
«San
Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria
tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel
concavo cielo sfavilla».
John tacque a sua volta, questa volta stringendo la camicia di
Sherlock con una mano, mentre la destra dell'altro s'appoggiò
con dolcezza sul suo braccio e lo strinse a sé. John aprì
gli occhi per un istante, scrutando il cielo davanti a sé.
Una
cometa cadde oltre il tetto del St. Batholomew Hospital.
Quando
John Watson riaprì gli occhi giaceva sul prato ancora umido per la
pioggia, le fronde degli alberi secolari tese ad abbracciare il cielo
sotto al suo sguardo assonnato. Il medico si lasciò sfuggire
un sospiro, si puntellò sui gomiti, si alzò.
Di
Sherlock non rimaneva che la tomba sopra alla quale aveva dormito e
il ricordo spezzato di un sogno che già sbiadiva. L'Universo
non era mai stato tanto malvagio.
“E
tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh!
d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!”
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felice milioni di scrittori.
Angolo
dell'Autrice
Due
storie in due giorni – sono una macchina da combattimento
(▰˘◡˘▰) Teoricamente non valgono, eh,
dato che quella di ieri non mi convinceva un granché e temo
che questa sia troppo criptica e di aver lasciato un finale troppo
vago ed esageratamente misterioso. Però è tardi e
come ieri non ho capacità di ragionare a quest'ora e le fic
angst mi distruggono per piacere comprendetemiSiete
un fandom adorabile e niente, spero di avervi soddisfatti. Alla
prossima fic! ♡
P.S. Nel caso, come al solito, abbia
cannato in metodi di comunicazione: John ha sognato tutta la prima
parte del testo. Post!Reichenbach.