Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Feel Good Inc    20/06/2014    5 recensioni
«Va bene. Va bene, Bran.» Jojen spezzò il silenzio come faceva raramente, e la sua voce era salda e fiduciosa. «Ci sei, è lui, è il lupo. Trattienilo, non lasciarlo andare. Senti il lupo.»
Quel che avvenne dopo non fu chiarissimo. Era una sensazione indescrivibile, sentir cambiare il proprio corpo e sforzarsi di non cedere alla curiosità di assistere passivamente al processo. Bran fece quel che diceva Jojen – si aggrappò ai suoi ringhi, alle sue fantasie, ai suoi sogni di lupo e aprì le palpebre solo quando gli parve che tutto fosse finito.
Si era aspettato di vedere il mondo in bianco e nero, invece gli occhi di Jojen fissi nei suoi erano più verdi che mai.

AU: Hogwarts!verse | Jojen/Bran | Gryffindor!Bran, Ravenclaw!Jojen | hurt/comfort, ma anche un bel po’ d’angst
Genere: Angst, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bran Stark, Jojen Reed
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Hoggy Warty Hogwarts'
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Summer may be coming ~

{ happiness can be found, even in the darkest of times, if one only remembers to turn on the light }

 

 

 

 

 

I’m the colorless sunrise that’s never good enough [...]

(searching to find myself, and all I find is you)

 

 

Di notte il castello faceva un po’ paura, il che lo rendeva molto più interessante.

Nonostante tutto, a Bran piacevano ancora le storie dell’orrore. Ce n’era una incredibilmente reale che gli studenti si raccontavano sussurrando, ogni volta che le sale vuote echeggiavano degli strepiti del fantasma di Serpeverde. Ma era una storia triste, quella, più che paurosa. Si diceva che il fantasma avesse combattuto con un gigante per rivendicare l’onore di una sorella, una fanciulla che era stata prima tradita, poi violata, infine brutalmente assassinata insieme ai suoi bambini. Nelle notti più buie le grida si facevano molto chiare – tu l’hai stuprata, l’hai ammazzata, hai ucciso i suoi figli. Bran aveva già incontrato parecchie persone che storcevano un po’ la bocca e dicevano di non darvi peso, era solo l’ennesima stranezza di Hogwarts, niente di cui stare a preoccuparsi; ma nessuno di loro aveva mai fatto l’incontro che aveva fatto lui – nessuno di loro, di notte, aveva visto il fantasma della torre di Corvonero, una giovane donna bellissima, che fluttuava su una balaustra e ascoltava quelle grida e piangeva.

Non che fosse normale che gli studenti gironzolassero per la scuola dopo il crepuscolo, ma Bran non riusciva a stare fermo, mai. Era un posto incredibile. E lui aveva un disperato bisogno di muoversi, di scoprire. Ad esempio gli sarebbe piaciuto sapere com’era possibile che un mondo bello come quello permettesse cose brutte come il Torneo Tremaghi – cose brutte come il sorriso triste del fantasma di Tassorosso, ricucito a stento su una testa mozza, doloroso e familiare insieme.

La cosa più difficile era non imbattersi nel custode, ma in questo Bran era diventato bravissimo. Non gli era comunque mai piaciuta, nemmeno alla luce del sole, la faccia di quel vecchiaccio cattivo che ghignava a chiunque gli passasse accanto e canticchiava tra sé e sé un motivetto minaccioso.

«Sono sicuro che ce l’ha messo lui, il nome di Robb nel Calice» aveva confidato una volta ad Arya, mentre studiavano insieme nell’orto delle zucche di Hodor e Frey li occhieggiava malevolo dal portico.

Arya aveva roteato gli occhi come sapeva fare solo lei. «E perché dovrebbe essere stato lui?»

«Non lo so.» Bran aveva abbassato gli occhi sui suoi compiti di Storia della Magia, imbronciato. «Ma è stato lui.»

E poi, come se l’evitarlo per istinto non fosse una volontà di per sé sufficiente, Bran aveva dalla sua parte la sorpresa: non si limitava a percorrere i corridoi del castello, lui il castello lo scalava.

Un tempo la mamma aveva cercato di farlo smettere di arrampicarsi dappertutto, ma se gli avessero tolto anche quello, probabilmente non avrebbe avuto più nulla – nemmeno a Hogwarts. A Hogwarts, Bran era un Grifondoro di tredici anni gracile e arrabbiato, ennesimo membro di una famiglia sfortunata che se n’era andata un po’ in tutte le direzioni e della quale tutti conoscevano lo sfortunato nome di Robb. Con Sansa non poteva parlarne: lei reagiva isolandosi, era diventata come di ghiaccio, d’avorio. Con Arya nemmeno, perché, in qualche modo, lei era finita a Serpeverde, e tutti i Serpeverde se ne stavano un po’ per i fatti loro – Arya più di tutti. Le vedeva molto poco ed era molto più frustrante di quanto non si concedesse di dare a vedere. Jon l’aveva perso da un pezzo, da quando se n’era andato a Durmstrang, su al Nord, lontanissimo... Quell’anno Bran aveva iniziato a studiare Divinazione e la professoressa, una donna che sembrava nata e cresciuta nel fuoco, alla prima lezione lo aveva guardato dritto negli occhi e gli aveva detto che era destinato «a una grande ricerca». Bran non sapeva cosa dovesse cercare, non di preciso, ma sapeva che ora più che mai non avrebbe mai più potuto starsene semplicemente fermo. Così, ogni notte dava la scalata al castello, e ogni notte cercava un punto di vista diverso, forse sperando che la risposta alla sua collera vibrante si delineasse da qualche parte dell’orizzonte che si stendeva al suo sguardo, nella roccia o nell’acqua o nel cielo.

Fu in una notte come quelle, una qualsiasi, che vide il falco per la prima volta.

All’inizio non fu certo una scoperta sconvolgente. Un falco era solo un falco, per quanto esotico potesse sembrare in un posto che perlopiù frequentavano gufi e civette. Ma era elegante, e quasi splendente nella notte, così stagliato contro la luna; e prima che potesse anche solo realizzarlo Bran lo vide scendere in picchiata, appollaiarsi su un loggione di una terrazza poco sotto il gargoyle sul quale lui si era accucciato e, inaspettatamente, cominciare a cambiare. E quello fu strano davvero, perché il falco si contorse, si raddrizzò ed ecco che dal nulla spuntavano delle braccia, delle gambe, delle ciocche di capelli inargentati di stelle...

«Un Animagus» bisbigliò Bran, meravigliato, stringendosi con le unghie e le ginocchia al gargoyle.

Era uno studente, forse del quinto o sesto anno. Il corpo magrissimo scomparve veloce com’era apparso sotto un mantello nascosto nell’ombra. Bran si sentì vagamente in imbarazzo all’idea di averlo sorpreso così, ma era troppo affascinato per curarsene – era un Animagus, un Animagus vero, ed era solo uno studente, non avrebbe mai immaginato si potesse diventare Animagi così presto!...

In quel momento il ragazzo si voltò nella sua direzione. Impossibile stabilire se lo avesse sentito parlare, o se sapesse già che era lì, ma i suoi occhi viaggiarono sicuri fino a quelli di Bran, che l’ombra non sembrava capace di nascondergli. Ci fu un lungo silenzio. Nessuno dei due si muoveva più.

Bran si chiese se non fosse una di quelle situazioni in cui si potesse barattare un segreto con la condivisione – e a un tratto seppe benissimo cosa sarebbe sorto da quell’incontro notturno, e forse l’aveva sempre saputo.

 

 

 

Cominciarono a incontrarsi dapprima in biblioteca.

Jojen Reed era un Corvonero. Era venuto fuori che la sua famiglia e quella di Bran si conoscevano da tempo, ma su questo punto non c’era molto di cui parlare; Jojen eludeva le domande, diceva che entrambi sapevano benissimo che non era quello il motivo per cui Bran gli rivolgeva anche solo la parola – e Bran sbuffava a queste affermazioni, ma neanche le smentiva. Ogni volta veniva fino al suo tavolo nel suo passo tranquillo, i libri sotto il braccio, salutava cordialmente il signor Luwin sempre alle prese con gli scaffali, prendeva posto con garbo nella panca sempre vuota di fronte a lui e la prima cosa che gli chiedeva – sempre – era quella.

«Perché vuoi farlo?»

Bran non vedeva nessun bisogno di starglielo a spiegare, in realtà. Ed essenzialmente fu per questo che ci volle tanto a raggiungere un accordo. Tergiversava, scrollava le spalle, valutava anche l’ipotesi di giocarsi la carta del ricatto – dovresti essere grato che non l’abbia detto a nessuno, invece di disturbarti a farmi domande. Durante l’ultima di queste conversazioni monosillabiche Jojen chiarì infine ciò che voleva davvero sapere, senza perdere la pazienza, ma con l’espressione più seria che Bran avesse visto finora nei suoi tratti sempre sereni.

«Ho bisogno che tu mi assicuri che non è un capriccio, Bran. Devi volerlo davvero. Altrimenti sarà tutto inutile, ancor prima di cominciare.»

Era la prima volta che lo chiamava per nome, realizzò Bran aprendo la bocca e aspettandosi che ne uscisse qualcosa di molto tagliente. La richiuse e annuì.

E a Jojen, chissà perché, sembrò bastare.

 

 

 

Certo, se si fosse affidato soltanto alle sue escursioni sulle mura non avrebbe mai scoperto la sala segreta.

Quando lo condusse di fronte all’arazzo e lo lasciò lì per percorrere il corridoio tre volte, avanti indietro, avanti indietro, avanti indietro, Bran si chiese se Jojen non lo stesse prendendo in giro. Si vergognò quasi subito di questo pensiero, anche prima che nel muro iniziasse a delinearsi il contorno di una porta che fino a un momento prima non c’era.

Jojen l’aprì e si ritrasse perché lui entrasse per primo. Bran avanzò con cautela in quella che si rivelò essere una stanza del tutto anonima, vuota.

«La chiamano Stanza delle Necessità» disse Jojen alle sue spalle in tono deferente, chiudendo la porta.

Bran si voltò a guardarlo accigliato. «Quali necessità? Non c’è niente qui.»

«Questo perché non abbiamo bisogno di nient’altro che di un posto tranquillo.» Jojen lo superò e andò a sedersi in un punto qualsiasi del pavimento. Dopo un attimo di esitazione, Bran lo seguì. Cominciava a sentirsi nervoso. «Per oggi non devi preoccuparti di nulla» continuò l’altro, come percependo il suo stato d’animo, «ti limiterai a parlare.»

Ancora in piedi davanti a lui, Bran si fermò e lo fissò. «Parlare?»

«Sì. È importante che tu sia pronto. Dimmi in quale animale vorresti trasformarti.»

Senza staccargli gli occhi di dosso, Bran scivolò piano in ginocchio. Non seppe cosa avrebbe detto finché non schiuse le labbra e la parola si scelse da sola. «In un lupo.»

Jojen annuì. «Un lupo.» Sorrise appena, ma fu solo un lampo, un mezzo riflesso. «Credi che ti troveresti a tuo agio nei panni di un lupo? Da come ti muovi ogni notte, avrei pensato che volessi diventare una scimmia.»

Bran si sentì arrossire. Non si era aspettato che lui lo spiasse nei suoi voletti solitari al chiaro di luna. Si chiese se non lo stesse prendendo in giro adesso, ma se c’era una cosa che aveva imparato di Jojen, nell’arco di quel non così breve tempo in cui avevano cominciato cautamente ad avvicinarsi l’uno all’altro – anche se poi, a essere sinceri, Jojen non sembrava affatto cauto: la sua mano era tesa già dall’inizio, solo in attesa di essere certa che la sua presa fosse salda – era che Jojen non rideva del suo desiderio, non l’aveva mai fatto, non l’avrebbe fatto mai. Forse anche lui era alla ricerca di qualcosa, in qualche modo.

«Il lupo è...» S’interruppe. Il lupo è l’animale simbolo della mia famiglia, avrebbe voluto limitarsi a dire, ma sapeva che c’era dell’altro. «Il lupo è un animale che combatte per la sua casa. È solitario, ma ha anche un forte senso della famiglia. Caccia da solo, ma non attacca se non in gruppo. Corre con gli altri, ma se lo guardi... se lo guardi davvero... è sempre solo. Eppure è lì, e tu ti chiedi come fa, come fa ad essere lì se sembra lontanissimo, come fa a suonare così triste e al tempo stesso sembrare così forte, come...»

S’interruppe di nuovo; stavolta fu lo sguardo di Jojen a fermarlo. Quel lampo di divertimento che gli era parso di vedere era definitivamente svanito. Jojen lo osservava con un’attenzione venata quasi di rispetto, e a dirla tutta era quel tipo di sguardo da cui Bran era sempre rifuggito – era quel tipo di sguardo che le persone lanciavano a Robb, e a tutti loro da quando il Calice si era preso Robb – eppure era anche totalmente diverso, perché stavolta era solo di lui che si trattava, di Bran. Jojen sembrava trascurare il fatto che le loro famiglie si conoscessero e che lui fosse uno Stark, ma ora che lo sentiva parlare di lupi, lo rispettava.

Alla fine gli fece la domanda che Bran si aspettava di meno.

«Non ti è mai venuto il dubbio di essere nella Casa sbagliata?»

Non rispose, combattuto tra l’impulso di alzare le spalle e quello di scoppiare a ridere. Non aveva mai avuto un’idea chiara di sé, non quando era entrato a Hogwarts col nome di Stark impresso addosso, non quando si era calato il Cappello Parlante sulla fronte sotto gli occhi curiosi dei professori che lo conoscevano da molto prima che mettesse piede nella sala grande. Jojen sembrava capire tutto questo e al contempo sembrava aspettarsi che lui stesso si chiedesse chi fosse. Era strano e impossibile, ma sembrava sapere anche quel che Bran non voleva sapere.

Forse fu per questo che, dopo qualche istante, Bran si ritrovò davvero a parlare.

I lupi erano gli Stark. Gli Stark erano i lupi. Lui era il lupo, il lupo era Bran – parlò di com’era, di quanto a volte sembrasse tutto insopportabile; parlò di Robb e del fantasma di Tassorosso che gli sorrideva triste, con quella testa che si riassestava sulle spalle solo e soltanto per sorridergli triste, e parlò di Arya sempre arrabbiata, più arrabbiata di lui, e di Sansa fredda e remota come un castello di neve; parlò di Jon che dopo Hogwarts se n’era andato a Durmstrang, a studiare di più, chissà poi perché; parlò della professoressa Asshai che lo aveva guardato negli occhi e aveva letto qualcosa che lui non riusciva a vedere, e dei punti di vista che da qualsiasi torre del castello sembravano sempre tutti uguali, tutti racchiusi nell’arco di uno stesso orizzonte. Parlò anche dei fantasmi di Serpeverde e di Corvonero, e gli domandò se anche lui l’avesse incontrata, la donna che piangeva, e si chiese ad alta voce perché alcuni restavano come fantasmi e alcuni altri sparivano, senza un addio.

A un tratto vide che Jojen scuoteva la testa. Se ne accorse per puro caso, preso com’era dalle parole che sembravano venir fuori da sole. Tacque e rimase in attesa di una replica, una qualsiasi, magari di una risposta a una serie di domande inespresse, soffocate in quel fiume di cose incoerenti. Ma tutto quel che Jojen disse fu: «Sei pronto.»

Di quelle due parole non gli era ben chiaro né il senso né il motivo, però si sentì rassicurato lo stesso.

 

 

 

Cominciò così un lungo periodo di studio ed esercizio costanti. Bran era ancora umano nell’aspetto, ma in tutto il resto viveva il lupo: sogni di lupo, fantasie di lupo, ringhi di lupo si agitavano sotto la pelle, le palpebre, le ossa. Più s’immedesimava nel suo desiderio, più si accorgeva che quel desiderio era sempre stato parte integrante di lui, come un secondo corpo, una seconda ombra invisibile.

Vedeva Jojen tutti i giorni, non solo nella Stanza delle Necessità. Ogni momento libero era buono per un allenamento. Ormai capitava dappertutto, nelle serre, in biblioteca, in visita a Hogsmeade – perché del resto non c’era poi molto da fare, si trattava sempre e solo di entrare nei panni del lupo. Era una magia, quella, che molto aveva a che vedere con la forza interiore, con la volontà e con l’equilibrio, e ben poco con le formule e le pozioni che s’imparavano a scuola.

Capitò, naturalmente, che Bran chiedesse a Jojen il suo perché, ma Jojen si limitava a sorridere e a dirgli di concentrarsi. Bran non insisteva. Tutti hanno i propri segreti.

Capitò che studiassero insieme su pile troppo alte di pergamene accumulate, e capitò anche che parlassero di altre cose. All’inizio di argomenti casuali, privi di una vera importanza, tratti comuni tanto labili da essere inconsistenti. Jojen aveva una sorella a Grifondoro e Bran aveva una sorella a Corvonero. Tutti e due non erano mai stati particolarmente portati per un manico di scopa. Più considerevoli erano le somiglianze più personali – nessuno dei due, a conti fatti, aspettava qualcosa con più impazienza di quanto non si preparasse a quegli esercizi insieme. A Bran, Jojen sembrava molto solo, e in questo non si sentiva affatto diverso da lui... Ma andava bene. In tutti i sensi.

Fu quando Jojen gli confidò di essere andato a trovare il fantasma di Corvonero, e di aver scoperto da lei che alcuni non sparivano perché chi restava si sentisse meno solo, che si disse che forse erano amici.

 

 

 

*

 

 

 

‘Cause the reason that I’m here is the same through all these years

(not changing, not changing anything at all)

 

 

L’ultimo giorno di maggio del secondo anno consecutivo avvertì un fremito nuovo negli occhi chiusi.

«Va bene. Va bene, BranJojen spezzò il silenzio come faceva raramente, e la sua voce era salda e fiduciosa. «Ci sei, è lui, è il lupo. Trattienilo, non lasciarlo andare. Senti il lupo.»

Quel che avvenne dopo non fu chiarissimo. Era una sensazione indescrivibile, sentir cambiare il proprio corpo e sforzarsi di non cedere alla curiosità di assistere passivamente al processo. Bran fece quel che diceva Jojen – si aggrappò ai suoi ringhi, alle sue fantasie, ai suoi sogni di lupo e aprì le palpebre solo quando gli parve che tutto fosse finito.

Si era aspettato di vedere il mondo in bianco e nero, invece gli occhi di Jojen fissi nei suoi erano più verdi che mai.

Bran arricciò il naso e lo sentì più lontano del solito, scosse il capo e avvertì il peso della pelliccia. Si liberò dal groviglio che era l’uniforme scolastica che lo impacciava. Il pavimento sotto le sue quattro zampe aveva una consistenza chiarissima e si lamentò con un debole cigolio quando i suoi artigli lo graffiarono. Torse il collo, curioso, per studiarsi la coda.

«Ce l’hai fatta» sussurrò Jojen.

Non era edificante come aveva immaginato, ma era liberatorio, ed era giusto. Era una forma che gli apparteneva. Si voltò ancora e scoprì Jojen accucciato di fronte a lui e si sentì le sue mani addosso – sussultò e ritrasse le orecchie, sorpreso, e un secondo dopo ringhiò piano alla sua stessa reazione, più da cucciolo che da lupo. Jojen sbuffò una risatina che gli restò tutta nel petto, senza allontanare le mani. Gli accarezzò la testa e gli grattò l’attaccatura delle orecchie – be’, era piacevole – e intanto «Ce l’hai fatta. Ce l’hai fatta» ripeteva, come una ninnananna, e Bran sperò che non si accorgesse del fremito che gli aveva appena scosso la coda. Imbarazzante.

Jojen posò la fronte contro la sua e chiuse gli occhi.

Restarono così per qualche minuto, durante i quali Bran continuò a chiedersi perché, se tutto sembrava perfetto, si sentisse come se qualcosa non andasse.

 

 

 

Lo capì l’ultimo giorno di scuola di quello stesso secondo anno consecutivo, e subito dopo si rese conto di essere stato uno stupido, perché era stato tutto molto chiaro fin dall’inizio.

Il sole inondava i giardini, il lago e l’orto delle zucche di Hodor, ma dopo l’ultima lezione Bran preferì restare dentro la scuola, dove faceva relativamente freddo. Si ritrovò a camminare pensoso dalle parti della Stanza delle Necessità e, naturalmente, lui era lì.

Jojen non alzò lo sguardo al suono dei suoi passi. Sapeva già che era lui, come lo sapeva sempre. Aprì la porta che teneva socchiusa e, senza guardarlo, entrò nella solita stanzetta vuota. Bran aveva voglia di chiedergli come fossero andati i M.A.G.O., ma non trovò il coraggio.

«Immagino che non ci vedremo per un po’, Bran

«Non dire sciocchezze.» Gli si avvicinò, mezzo chiedendosi che cosa avrebbe pensato se lui a un tratto l’avesse abbracciato. «Verrai a trovarmi, giusto? Non è poi un volo così lungo, da casa tua a casa mia.»

Jojen gli mostrò un sorriso, poi cambiò argomento, nel suo solito modo di cambiare argomento senza che tu neanche te ne accorgessi. «L’anno prossimo ci sarà una nuova edizione del Torneo. Che cosa farai?»

Bran esitò. «Non lo so.» Arya si sarebbe iscritta di certo. Arya non vedeva l’ora di vendicarli tutti, dal primo all’ultimo, dal papà a Robb, dalla mamma che era impazzita di dolore a Jon che era andato a Durmstrang e non era più tornato. In pratica era tutto ciò che la muoveva. «Non c’entro molto, con i tornei.»

«Anche se il tuo nome è Stark

«Anche se il mio nome è Stark

Jojen annuì. «Non è quello che cerchi, giusto?»

Bran si strinse nelle spalle. La verità era che non ne era sicuro nemmeno lui. Quell’ansia di impotenza, quella rabbia, quella sete che avevano portato Jojen a chiedergli se fosse sicuro di essere nella Casa giusta si erano un po’ assopite dentro i panni del lupo, ma la strada era lunga e nessuno, nemmeno gli occhi di fuoco della professoressa Asshai, potevano vederne la fine.

«Per il momento mi aspetto solo di rivederti quest’estate.»

Jojen sorrise di nuovo. «Sarà un pensiero egoista...» Portò una mano tra i suoi capelli; era una cosa che faceva soprattutto quando Bran era il lupo, ma nelle ultime settimane aveva iniziato a farlo anche quando il lupo era Bran. «Ma per me è la stessa cosa.»

Bran chiuse gli occhi. L’aria dell’estate non aveva mai avuto un profumo così buono.

 

 

My mind is made up, my feelings changed and

I’m coming home to you (every night, every night)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spazio dell’autrice

 

Tutto iniziò quando la Aya parlò su Twitter di un’idea random che le era venuta di un Ravenclaw!Jojen e un Gryffindor!Bran. Fu il delirio, in senso buono però. Molte bellissime persone diedero il loro contributo a un headcanon che era partito come un sogno di fangirl, ma che a poco a poco diventava sempre più credibile, realistico per un AU di Game of Thrones. È anche e soprattutto a quelle bellissime persone che questa storia è dovuta e dedicata.

E ora, passo a spiegarvi alcuni punti che oramai a noialtre saranno sicuramente chiari al minimo accenno, ma che voi lettori meritate certamente di conoscere meglio.

Previously on Game of Schools:

- Il presupposto è piuttosto semplice, davvero. Ciò che Rhaegar Targaryen ha fatto a Westeros l’ha fatto anche a Hogwarts. Studente a Beauxbatons come tutti i Targaryen, professore di Difesa contro le Arti Oscure a Hogwarts, ivi conobbe la bella studentessa Lyanna Stark e il loro amore diede nascita a una diatriba tra le tre più famose scuole di magia del mondo, risoltasi nell’istituzione del Torneo Tremaghi che, pur nella sua crudezza, altro non vuol essere che un modo per celebrare a intervalli regolari nel tempo la ritrovata armonia. (Sì. Credeteci, piccoli figli dell’estate.)

- Bran Stark è per me un Grifondoro perché la ricerca che ce lo fa facilmente identificare in un Corvonero avviene solo per via della sua rabbia e impulsività, come una sorta di ribellione, non per un fondamentale bisogno di conoscenza. Qui tale rabbia nasce non da una menomazione fisica, ma dalla consapevolezza di aver perso un fratello maggiore nel maledetto Torneo (si sospetta in ciò il coinvolgimento di Walder Frey, bidello magonò il cui unico hobby è fischiettare Le piogge di Castamere), evento che ha portato analogamente a sviluppi di una Arya Serpeverde e una Sansa Corvonero, nonché alla follia della povera Catelyn Stark. Lo stesso fantasma di Tassorosso altri non è che Eddard Stark, rimasto ‘indietro’ in modo da poter vedere crescere i suoi figli – ulteriore dolore aggiunto alla serie di fattori che portano Bran a ‘cercare’ qualcosa di non meglio definito, e che si traduce nel suo desiderio di diventare un Animagus. (Il fatto che riesca in ciò nell’arco di due anni può essere un po’ tirato, ma credo che sotto l’addestramento attento di Jojen Reed sia più che possibile. u__ù)

- Credo che siano chiarissime le identità dei fantasmi di Serpeverde e Corvonero. (;__;)

- Non ci siamo dedicate solo agli studenti, ma abbiamo assegnato un personaggio a ogni cattedra: Melisandre di Asshai è la professoressa di Divinazione.

- Durmstrang è in mano ai bruti, in pratica. Jon Snow è andato a studiarvi in Erasmus. Perché nel nostro headcanon una scuola di magia prevede un Erasmus all’estero. u__u

- Jojen Reed è un Animagus perché sì. Oh, avanti, era l’unico modo in cui potevo renderlo guida di Bran – senza contare il fatto che, avete presente quell’idea iniziale che mi era venuta in mente?, ecco, si trattava essenzialmente di un Jojen che insegnava a un Bran come calarsi nei panni del lupo in un contesto alternativo.

- Vi sono altri aneddoti vari ed eventuali, ma ai fini della comprensione di questo squarcio essenzialmente Brajen penso di avervi detto tutto il necessario.

Il sottotitolo è una citazione di Silente dal film Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, mentre le lyrics vengono da Every night degli Imagine Dragons.

Che cosa aggiungere? Già solo per il fatto che avete resistito fin qui vi sposerei tutti. XD

Aya ~

 

PS. Vogliate unirvi a me nella preghiera che le mie bellissime partners in headacanoning scrivano qualcosa anche loro: questo ‘verse è troppo bbbello perché non se ne attinga a piene mani :3

   
 
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