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Autore: FreddiePie    21/06/2014    7 recensioni
[ Nel terrore che mi abbia già cancellata ti scrivo per raccontarti tutto, tutta la mia vita. Le cose dette e non dette, le cose che i fan fremono per sapere ma che giudicherebbero appena sentite. Le stesse cose che forse tu già sapevi, ma che hai preferito rimanessero nel silenzio o nel dubbio. ]
L'off camera è la fotografia ridotta allo stato puro, è la fotografia senza la fotocamera, è l'immagine creata con le nostre mani in camera oscura.
Chi è veramente questa persona anonima102? Perché continua a far male ai protagonisti solo per gioco?
In una Fanfiction dove predominerà la delusione, il rimpianto, il perdono, l'amore; tuffatevi nella vita del cast di A Tutto Reality a telecamere spente per scoprire finalmente cos'hanno ripreso e cosa si sono lasciati scappare Chris e i cameraman.
Genere: Fluff, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Trent, Un po' tutti | Coppie: Alejandro/Heather, Duncan/Courtney, Duncan/Gwen, Trent/Gwen
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale
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momento icananas: Sto correggendo i capitoli e sto facendo tutte le copertine… tra un po' continuerò la FF ma per adesso abbiate un po' pazienza :3 Ah, per altre fan art visitate anche il mio profilo deviantart: http://icananas.deviantart.com Image and video hosting by TinyPic

Cara persona anonima102, mi manchi.
Sento ancora il calore dei tuoi abbracci e l'eco della tua risata, ma vivo nel terrore che presto perderò poco a poco anche le ultime tracce di te. 
Nel terrore che mi abbia già cancellata ti scrivo per raccontarti tutto, tutta la mia vita. Le cose dette e non dette, le cose che i fan fremono per sapere ma che giudicherebbero appena sentite. Le stesse cose che forse tu già sapevi, ma che hai preferito rimanessero nel silenzio o nel dubbio.

Se potessi dare un inizio alla mia storia sicuramente si aprirebbe in una villetta di quartiere, una di quelle tante case che si amalgamano con la somiglianza delle altre creando un'immagine di anonimato e di tristezza assoluto che ammazzano l'originalità.
Mi ricordo quella sera, faceva molto freddo, il vento e la pioggia sbattevano sulle finestre e i lampi illuminavano a scatti le pareti della stanza alterando gli oggetti e creando un gioco di luci ed ombre quasi spaventoso. 
E' una di quelle sere impossibili da dimenticare, come una foto stampata nella mia mente che non mi abbandonerà mai, indipendentemente dal tempo che passa. 

Il ricordo ha inizio con una porta d'ingresso che si apre sbattendo con violenza e teatralità, facendo girare di scatto me ed il mio cane; davanti alla porta, con lo sfondo della pioggia e della notte, una sagoma massiccia ed imponente teneva lo sguardo perso nel vuoto.
Traballando da sinistra a destra e tenendosi alle pareti per non cadere, mio padre face capolinea nel soggiorno, lasciandosi dietro una scia di impronte bagnate di fango ed acqua che sporcarono tutta la stanza. Scrutò l'area circostante ed una volta individuato il divano fece un passo per raggiungerlo ma subito dopo era per terra, con la faccia spiaccicata sul parquet e la bottiglia di birra in mille pezzi nella mano a pochi centimetri dalla sua faccia. La puzza di alcool ed un urlo inondarono la stanza e come subito dopo un lampo arriva il tuono, si rialzò in piedi, prese la scatola di pastelli che l'aveva fatto inciampare e la scaraventò con tutta la forza e la rabbia che aveva in corpo verso di me «Brutta stronza!» mi urlava, imprecando e gettandomi contro ogni genere di cosa che aveva sotto tiro.
Invasa da dolore e paura, mi raccolsi la faccia nelle mani e mi chiusi in un angolo tremando e strillando dalla paura.

Il mio pianto e le mie stilla di terrore furono tali che una porta da sopra le scale si aprì e arrivarono correndo mio fratello e mia madre in camicia da notte. Lei si fermò un millesimo di secondo per capire cosa stesse succedendo e subito dopo era già addosso a mio padre cercando di fermarlo.

I miei occhi da ragazzina non capivano bene, vedevano mio padre fare qualcosa a mia madre e capivano che era qualcosa di male perché la faceva dimenare ed urlare.
«Lasciala stare! Lasciala, lasciala le fai male!» Urlavamo io e mio fratello; vedevamo mio padre picchiare mia madre, allontanare il cane che gli azzannava il polpaccio, poi di nuovo picchiare mia madre. Io ero in un angolo a piangere e a guardare la scena senza far nulla, mio fratello osservava in lacrime da sopra le scale. Ero solo una ragazzina di 13 anni, inerme, spaventata e dolorante in ogni punto del corpo. 

Un lampo di luce che entrò dalla finestra illuminò brevemente la scena, fermandola per qualche secondo nei miei occhi. Lo sguardo di mio padre fisso su mia madre, gli occhi iniettati d'odio e di rabbia, la bocca chiusa in un ghigno feroce, un portacenere pronto a colpire nella mano destra. Poi tutto buio. La luce del lampo andò via e lasciò sospesa quella scena ai miei occhi terrorizzati. Pochi secondi dopo mia madre era in un angolo, lo sguardo terrorizzato fisso su mio padre, lui in ginocchio davanti al corpo del mio cane immobile, con in mano ancora il posacenere gocciolante di sangue. Sul tappeto era esplosa la sua testa fracassata lasciandolo privo di vita. Non avrebbe scodinzolato mai più. 

Amavamo quel cane, tutti. Era il nostro punto d'incontro, la nostra ancora per quando avevamo dei problemi. Lui con la sua allegria e spensieratezza riusciva a ridarti le energie per andare avanti. 
Da sobrio era un padre normale: amorevole, gentile, autoritario al punto giusto; forse con un po' di risentimento ed amarezza per qualche rimpianto ma comunque un padre normale. Quando beveva però risaliva a galla tutto quello che cercava di tenere dentro, tutto il dolore e la frustrazione che lo graffiava quando viveva la sua vita. Era in quei casi che arrivava Kida, un cane compratoci per scusarsi dopo una brutta litigata fatta con mia madre. Lui ricordava a me, a mio fratello e a mia madre che nonostante tutto quello che ci facesse nostro padre ci voleva bene, più di ogni altra cosa al mondo. Ci ricordava che dovevamo subire, o almeno provarci in qualche modo, perché non potevamo abbandonare una persona malata in difficoltà. 

Dopo quella sera però era tutto finito. La nostra famiglia, che si aggrappava ad un unico filo sottilissimo, era appena finita. Lo capì mia madre, lo capii io, lo capì mio fratello, lo capì mio padre. Davanti a quella scena ci rendemmo tutti conto che l'unico nostro appiglio non c'era più. 
Si alzò in piedi e se ne andò, non si fece più vedere. Solo una volta mi sembrò di intravederlo, qualche anno fa. Nascosto nell'anonimato di una massa di conoscenti e parenti durante il mio sedicesimo compleanno. Scoprii anche da mia madre che per tutta la durata del reality mi aveva seguito ed aveva registrato ogni singola puntata.  Non so che fine abbia fatto e nemmeno voglio saperlo. Ha commesso degli sbagli come io ho commesso i miei, ma sento che non riuscirò mai a togliermi l'orrore di quei ricordi e la puzza di alcol che mi invase le narici.

L'avevi intuito vero? Avevi capito che c'era una macchia nera nel mio passato giusto? Ma fino che punto avevi capito? Non ho mai trovato il coraggio di dirlo a nessuno, trovare il coraggio di rivivere quel momento orribile a parole. Risentire le urla, l'orrore, il freddo, quell'odore…

Quest'esperienza mi ha cambiata, o quantomeno influenzato la mia crescita.
Ero spaventata dal mondo, dalla società e sopratutto dai pregiudizi che aleggiavano nell'aria. Ragazze perfette pronte a criticare tutto e tutti. Vedevo il mondo prendere in giro persone deboli ed indifese proprio come mia madre. Sapevo che sarei dovuta diventare più forte, per loro, tutti loro. 
A 14 anni decisi di cambiare radicalmente il mio look, come segno di protesta verso quella società fissata con l'apparenza. Persi molte amiche, amiche che ritenevo tali ma che si rivelarono per quello che erano veramente: stupide ipocrite. Convinte che la nuova me fosse troppo trasandata e non adatta a stare con loro.
Vedevo il mio riflesso allo specchio e non mi riconoscevo più, ma la cosa mi piaceva, e molto. Il giorno che tomai a casa con quel nuovo look tra le prese in giro di mio fratello e le prediche di mia madre sentivo finalmente aria di rivoluzione.

«Oh mio dio, Gwenny! Cos'hai fatto ai capelli? I tuoi bellissimi capelli lunghi! E poi cos'è quel corsetto? Sembri una poco di buono!» 
La cosa ridicola fu che non mi chiese nemmeno il perché, si limitò a criticare la mia scelta, come se fosse uno stupido capriccio di un'adolescente impazzita. 

Odio ammettere che quello tra i miei 13 e 16 anni fu il periodo più brutto della mia vita, ancora più brutto del tempo passato con mio padre. Ho preso scelte sbagliate, mi sono persa ed ho cominciato a farmi male.
Odiavo me stessa e gli altri ma per fortuna ho incontrato voi, tutti voi. Andare ad "a tutto reality", mi spiace ammetterlo Chris, mi ha salvata. 

Ricordo ancora la nave che venì a prendermi: faceva un caldo allucinante e durante tutto il tragitto pensavo e ripensavo a come sarebbe stato, convinta in una fregatura dopo l'altra «Che palle, dovrò dividere un campo estivo con degli idioti! Mah, almeno il posto sembra bello e in più posso vincere un po' di soldi…» 
Stavo sulla prua della nave e in lontananza già vedevo qualcosa. Man mano che quel "qualcosa" diventava sempre più visibile sentivo la prima fregatura già tirarmi un calcio nel sedere: il posto era uno schifo.

«Ciao Gwen!» Una voce inspiegabilmente irritante mi accolse appena misi piede sul molo. 
«Intendi dire che staremo qui?» chiesi guardandomi intorno.
«No, voi starete qui! Io sto in un camper con aria condizionata da quella parte» 
«Non ho firmato per questa cosa!» 
«Invece lo hai fatto!» E nel dire questo estrasse con un sorrisetto compiaciuto una pila di cartacce e me la sventolò davanti agli occhi. Mi Sembrò che il vedere la mia faccia delusa ed arrabbiata gli piacque particolarmente tanto e questo non fece altro che irritarmi ancora di più. Gli strappai dalle mani il fascicolo e lo strappai in mille pezzettini, soddisfatta della mia bravata. Non poteva controllarmi, no, non me almeno.  
Inspiegabilmente però quel suo sorrisetto irritante era ancora ben visibile sulla sua faccia, nonostante il mio gesto provocatorio «Sai la cosa bella degli avvocati?» ed estrasse un'altra pila di fogli identica alla precedente «fanno un sacco di fotocopie!»
«Io qui non ci resto!»
«Bene, spero che tu sappia nuotare, perché la tua barca è appena partita!» 
Mi girai e vidi la mia barca scomparire poco a poco nell'orizzonte. Al suo posto ne arrivò un altra da cui proveniva una musica fastidiosamente alta.
«E adesso?» mi chiesi rassegnata.

Un ragazzo con uno stupido cappello da cowboy in testa, ed una camicia rosa sbottonata, saltò giù dalla barca e andò a salutare il conduttore. Il loro saluto fu ancora più stupido del cappello del ragazzo. Si davano dell' "amico" ogni due parole e la cosa mi ricordò del perché ero così titubante a partecipare «se dicono amico un'altra volta, giuro che vomito» 

Prima di me erano arrivati già due concorrenti: un ragazzo grande e grosso con una maglietta verde ed una ragazza con l'apparecchio che non faceva altro che sorridermi inspiegabilmente.
Dopo Geoff (il ragazzo col cappello da cowboy) arrivarono in ordine: una gatta morta, una ragazza forse di origini asiatiche, un punk allupato, uno stuntman maldestro e un nerd sfigato. Dopo quest'ultimo, di nome Harold, scese dalla barca un ragazzo molto carino con la chitarra di nome Trent. Ricordo che per una frazione di secondo i nostri sguardi si incontrarono e l'emozione che ne scaturì fu un inspiegabile senso di felicità misto ad emozione. Quel suo sorriso incredibilmente sexy mi riuscì a sciogliere per qualche secondo.

Subito dopo arrivò una bella surfista di nome Bridgette che suscitò immediatamente l'interesse di Geoff (cappello da cowboy).
Poi arrivarono un sociofobico, una ragazza di origini africane, pincopanco e pancopinco, un privatista, un playboy sfigato, una donnona inquietante, una polpetta gigante ed euforica, una ragazza con i capelli castani, un belloccio, ed infine una pazzoide.

Dopo la disastrosa foto di gruppo che facemmo una volta arrivati tutti i concorrenti, il conduttore (Chris) ci divise in squadre. Sentivo che da un momento all'altro avrei avuto una crisi di nervi. Da qualsiasi parte mi girassi vedevo idioti da tutte le parti e l'idea di un'intera estate con loro mi uccise. 
«No, no e no. Non può essere vero» 
Owen, il ragazzo polpetta, notato il mio malumore afferrò me e ed un altro ragazzo alla sua destra e ci soffocò entrambi sotto il suo abbraccio, togliendoci il respiro. Cercò di tirarci su incoraggiandoci ma senza alcun risultato, ero ancora più irritata di prima.   

Le casette erano qualcosa di improponibile. Costretta a dividerla con Heather (la ragazza asiatica) che si rivelò un'insopportabile bisbetica primadonna; e Lindsay, un'idiota di dimensioni bibliche. Sentivo che non sarei mai riuscita a reggere quella triste agonia... e ancora non avevo visto la cucina.

Lo chef era un omone imponente e minaccioso. Orgoglioso e convinto di saper cucinare, con qualche precedente nell'esercito perché ci urlava contro come fossimo cadetti «Sturatevi le orecchie: servo tre volte al giorno e qui si mangia tre volte al giorno! Vassoi alla mano, prendete il vitto e posate le chiappe sui banchetti!» 
«Em mi scusi, assumeremo cibi appartenenti a tutti i gruppi alimentari?» chiese Beth (la ragazza con l'apparecchio)
«Si, io ho gravi crisi ipoglicemiche se non assumo abbastanza zuccher..» Ma Harold non fece in tempo a finire la frase che Chef lo aggredì urlando «Altro che crisi ti viene se non chiudi quella boccaccia!»
Il tutto con una faccia spaventosa ed agghiacciante. 

«Mi scusi» si intromise Lindsay, incurante probabilmente del rischio a cui stava andando incontro «il mio nutrizionista dice che non dovrei assumere zucchero bianco, farina bianca e latticini»
«Non credo sia questo il problema» intervenni io. Davanti a noi si posavano piatti colmi di una sostanza informe e viscida. La puzza che ne scaturiva era rivoltante e, vi posso giurare, era viva. «Ok, odio essere prevedibile e lamentarmi dal primo giorno, ma il mio panino si è appena mosso» 
Inutile dire che non trovai più il coraggio di ribattere una volta che Chef, con quel suo sguardo minaccioso, spiaccicò il mio piatto con un martello schizzando melma marrone da tutte le parti.«Giusto, va bene così» dissi, togliendomi dai piedi.

Mi sedetti nel tavolo della mia squadra, le marmotte urlanti, proprio di fronte al ragazzo con la chitarra. Il modo con cui giocherellava con la sbobba ricordo che lo trovai adorabile.
«Benvenuti nel padiglione centrale!» disse ad un certo punto una voce teatrale che riconobbi subìto: Chris McLean aveva appena fatto capolinea nella mensa. 
«Hey, ciao amico! Si può ordinare la pizza?» Chiese Geoff mentre spostava da davanti a sè il piatto misterioso di Chef.
Un coltello da cucina che volò proprio sulla sua testa, infilandosi nella parete, gli fece rimangiare subito ciò che aveva appena detto «Bel colpo Chef! La sbobba marrone è ottima! Vero ragazzi?» Da dietro il bancone Chef ci guardava minaccioso e l'unica cosa che potemmo fare fu annuire spaventati. 
«La vostra prima sfida inizia tra un ora» terminò di dire Chris, come se non l'avessero mai interrotto. 
«Secondo te cosa ci farà fare?» chiese al suo vicino di posto una ragazza con due stupidi codini neri. 
Lui con una voce allegra e scherzosa rispose «E' la nostra prima sfida, che sarà mai!» 

   
 
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