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Autore: Elsie91    18/08/2008    1 recensioni
Prefazione Non so dirvi come sia iniziata. Non riesco ancora a collegare gli eventi in modo coerente nella mia testa. Ricordo che, durante il primo periodo, quando tutto è cominciato, la mia memoria inviava sempre le stesse immagini, come qualcuno che manda indietro sempre gli stessi fotogrammi di un film, per rivedere la scena preferita e cogliere i nuovi dettagli, che sembrano comparire ad ogni nuovo play. La sostanziale differenza, tra me e chi decide di guardare sempre la stessa rappresentazione, è che non sono io a decidere la comparsa di queste "visioni", flashback sconnessi, che raccontano la vita di qualcuno... no, un secondo... non la vita di qualcuno, ma istanti di vita vissuti insieme a quel qualcuno... un ragazzo...il suo amore. Le circostanze mi portarono a pensare che, probabilmente, i ricordi, le lacrime, che la notte scivolavano silenziose sulle guance, gli urli smorzati, che mi coglievano sempre impreparata... forse appartenevano alla vecchia proprietaria del mio cuore... Mi chiamo Dawn Bishop, e questa è la nostra storia.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo I Il ricordo Alcune statistiche affermano che la maggior parte delle bruciature lievi alle mani siano causate da una mancanza di attenzione nel ritirare i toast dal tostapane. Ovviamente io non avrei potuto far altro che confermare la regola. Andai a mettere la mano sotto l’acqua gelida del lavandino in cucina. Come aveva fatto mio padre a convincermi a preparargli tutte le mattine la colazione? Sapeva che ai fornelli ero un completo disastro, eppure a lui piaceva. Aveva detto: “Non trovi che coltivare il rito della colazione insieme sia molto produttivo per noi? Dalla morte di tua madre non abbiamo avuto più modo di parlare … e io non voglio rischiare di perderti, piccola, in nessun modo, okay?” Ecco come mi aveva convinto. Tirava sempre in ballo la mamma quando voleva ottenere qualcosa. Che imbroglione… << Papà scendi, la colazione è pronta!>>, “e che colazione”, pensai, “toast bruciati e succo d’arancia caldo…” Quando lo sentii scendere, io avevo appena finito di completare l’operazione “elimina bruciatura”, e mi stavo asciugando la mano. Rimase impalato sull’ingresso della cucina. << Ti sei bruciata un’altra volta, vero? Sei davvero impossibile>>, mi stava guardano con gli occhi spalancati; era incredulo. Il tono della voce era ironico. Da quando era così perspicace? Alzando gli occhi al cielo si avviò verso il tavolo e si sedette. Io feci lo stesso. << Allora, se credi che io sia impossibile, perché non sei tu a preparare la colazione? O preferisci fingere che tutto ciò che cucino – e che tu mangi – sia degno di uno chef internazionale?>>, il mio, di tono, era di sfida. Alzai un sopracciglio per enfatizzare. << Ah, te ne sei accorta… be’ preferisco continuare a fingere, se non è un problema….>>. Stava sghignazzando. Ma mi aveva presa per una stupida? Certo che me ne ero accorta. Lui era un pessimo bugiardo… anche se il cambiamento di colore che subiva in faccia ogni volta che ingeriva un mio manicaretto mi avevano aiutata ad intuire. << Papà, se non te ne sei ancora reso conto, tu non sei capace a mentire. E, tra l’altro, sei anche masochista. A questo punto credo che anche l’arsenico sia più commestibile di un piatto cucinato da me>>, scossi la testa disgustata. Questa carenza – il non saper cucinare – mi metteva un po’ a disagio; era l’unica materia in cui non eccellevo. Che tristezza. Come d’abitudine lanciai un’occhiata all’orologio sopra il tavolo. Saltai letteralmente in piedi. Era tardissimo… la mia lezione sarebbe iniziata di lì a poco. Se volevo arrivare con cinque minuti di ritardo, dovevo correre. La macchina era dal meccanico. A quel pensiero strinsi i pugni e iniziai a respirare lentamente, per calmarmi. << C’è qualcosa che non va?>>, la voce calda di mio padre mi fece sussultare. Ricordare che la mia macchina era lontana da me, mi faceva soffrire. << Devo andare, sono terribilmente in ritardo. Ci vediamo questa sera, okay?>> Lo dissi talmente di corsa che ebbi paura di essermi mangiata qualche parola. Andai verso di lui per salutarlo con il classico bacio sulla guancia, e come sempre mi sussurrava “ti voglio bene, Juliet”. Corsi a lavarmi i denti – sebbene non avessi mangiato nulla – e passai dalla mia camera per prendere i libri e lo zaino. Uscii di casa sbattendo inconsapevolmente la porta. Ero di fretta, mi consolai con quel pensiero. Iniziai a correre. In fondo il college non era molto distante da dove abitavo… se si prendeva la macchina. A un tratto mi venne un’idea: l’autobus, ma la bocciai subito, perché non sapevo gli orari di partenza… Mentre ero alla ricerca di un piano che non mi facesse arrivare in ritardo alla lezione del Signor Abbott, non mi accorsi del clacson, che probabilmente stava suonando da parecchio tempo dietro di me. Mi girai, per dire al conducente di quella macchina di smetterla, ma quello che vidi mi fece aprire il cuore. Ero salva! << Serve un passaggio?>>, la voce di Claire sembrava quella di una bambina, dolce e a suo modo rassicurante. Entrai di corsa in macchina e lei mi accolse con un sorriso smagliante. << Anche tu in ritardo, oggi?>>, scherzò, tornando a guidare. << Grazie, mi hai salvato la vita>>, sussurrai. Avevo il fiatone. Claire era la classica migliore amica, anche se lei era migliore di tutte le altre. Ci siamo conosciute il primo giorno d’asilo e non ci siamo più lasciate. A lei devo tutto. Mi è stata accanto durante la malattia di mia madre, e anche dopo che lei se ne era andata. E’ la mia confidente… sarebbe banale dire che le voglio bene come una sorella, perché lei è molto di più: è il mio angelo. Caratterialmente non ci assomigliamo quasi per niente. Lei si definisce “l’ultima delle romantiche”, mentre io sono molto più pratica. Ormai ho smesso di credere a Babbo Natale. Claire è molto introversa, anche se ultimamente si rapporta con gli altri in modo diverso. Forse sarà la mia influenza positiva, come la definisce lei. Alla radio stavano passando la canzone di un gruppo che non ho mai saputo apprezzare veramente. Il ritmo era travolgente, fresco. I finestrini erano abbassati. Bisognava approfittarne finché il bel tempo continuava a persistere a Seattle. L’aria tiepida mi scompigliava i capelli e mi solleticava il viso. Forse me ne accorsi troppo tardi, ma Claire era stranamente silenziosa, e con me questo comportamento non le si addiceva. Mi girai dalla sua parte e la guardai… apparentemente sembrava la stessa. I capelli ricci e rossi, raccolti in due trecce alla Pippi Calze Lunghe; il viso bianco, costellato da qualche lentiggine; gli occhi verdi fissi sulla strada; le labbra rosse e carnose serrate. Sì, c’era decisamente qualcosa che non andava. Decisi che, quando fosse stata pronta a confidarsi, lo avrebbe fatto di sua spontanea volontà. Ma la curiosità cercava di prendere il sopravvento. Tentai di trattenerla. Troppo tardi. Mi sentii dire << va tutto bene Claire? Sei strana. Che è successo?>> Mi tappai la bocca con entrambe le mani. Claire mi lanciò un’occhiata strana, ma non rispose. Soffriva per caso di sbalzi d’umore? Era vittima della sindrome della doppia personalità? Chi era la ragazza seduta accanto a me? Dov’era finita la Claire che mi aveva offerto un passaggio solo dieci minuti prima? Non avevo ancora finito di pormi tutte le domande del caso, che arrivammo all’università. In tempo. Tutto merito della guida della mia amica in stile “Gran Prix”. Salutai Claire con un “ci vediamo dopo” e uno sguardo molto eloquente. Mi diressi verso l’aula di letteratura inglese. Stavano ancora entrando. Occupai il mio solito posto, al centro della terza fila a destra. Il professor Abbott riportò la classe all’ordine, e la lezione ebbe inizio. xxx Perché stavo correndo? Perché avevo lasciato la classe nel bel mezzo della lezione? La stessa agitazione mi aveva fatto dimenticare il motivo per cui lo ero. Poi, all’improvviso, un lampo di lucidità mi balenò nella testa. Claire stava male. Ripensavo al ragazzo corpulento, che era entrato in aula per informarmi che la mia amica era svenuta. Allo stage di pronto soccorso insegnavano che, se un soggetto sviene per più di dieci minuti, la situazione si può considerare un allarme rosso. Claire aveva perso conoscenza da venticinque minuti. Perché non si risvegliava? Eppure anche lei aveva frequentato quello stage con me… le cose le sapeva. E allora perché non lottava con tutte le sue forze per riprendersi? Sfrecciavo tra gli altri ragazzi, impacciata e con gli occhi pieni di lacrime. Non lo vidi. Gli andai letteralmente addosso, facendolo cadere a terra. Io sopra di lui. A quel punto il dolore ebbe la meglio sull’autocontrollo e inizia a piangere, inzuppando la maglietta di quell’estraneo, che non si era mosso di un solo centimetro. Dopo non so quanto tempo in quella posizione, sentii un peso sulla testa. La sua mano. Quell’estraneo gentile mi stava consolando senza sapere chi fossi, né tantomeno per quale motivo stessi piangendo sopra di lui. Poco a poco riacquistai lucidità, e con lei arrivò anche l’imbarazzo. Alzai la testa di colpo per guardarmi attorno. Stranamente non c’era nessuno. Poi abbassai gli occhi e incrociai il suo sguardo. Erano neri come la notte, profondi come un buco nero. Probabilmente arrossii, perché lo vidi accennare un sorriso. <>, disse. Il tono era dolce con un pizzico di ironia sulle labbra. La consapevolezza mi invase come un’onda per la seconda volta. Dovevo andare da Claire. Sostenni il mio peso con le braccia e mi alzai, un po’ frastornata. Mi voltai per aiutare il ragazzo ad alzarsi, ma lo trovai già in piedi al mio fianco. Era più alto di me. Mi stava fissando con uno strano sguardo indagatore. Sperava di trovare il motivo di tutta quella disperazione nei miei occhi? Infine disse soltanto <>. Mi regalò uno dei sorrisi più belli che avessi mai visto. La sua voce era così calda e rassicurante…. << Io... ehm… io devo andare… lei sta aspettando me…>>, furono le sole cose che riuscì a pronunciare. Gli voltai le spalle. Ripresi a camminare con passo lento e misurato. Sentivo la forza del buco nero. Il cuore scalpitava; mi faceva male tanto i suoi battiti erano veloci e aritmici. Mi stava fissando, mentre mi allontanavo. Quando credetti di essere abbastanza lontana, iniziai nuovamente a correre. Giunsi al padiglione di psicologia in pochi minuti. Mi poggiai qualche secondo al muro per riprendere fiato. Andai fino alla porta dell’aula, che stranamente era chiusa. Di solito una persona priva di sensi ha bisogno di quanta più aria possibile, e sapevo che la sala di psicologia non era dotata di un sistema di areazione funzionante. L’unica soluzione sarebbe stata quella di spalancare la porta. La aprii. La scena che mi si presentò agli occhi non era certo quella che mi sarei aspettata. L’aula era sommersa nel buio più totale. Cercai l’interruttore della luce, tastando il muro alla mia sinistra. Lo trovai e accesi la luce delle grandi lampade, che sovrastavano la sala dall’alto. Non c’era nessuno. Ripescai dalla memoria le esatte parole che aveva pronunciato il ragazzo, che aveva fatto irruzione durante la lezione di letteratura inglese… “Juliet Abrams deve recarsi immediatamente all’aula di psicologia. Claire Fitzgerald si trova priva di sensi da venti minuti.” Ricontrollai la targhetta attaccata all’esterno della porta. In caratteri cubitali appariva la scritta :“AULA DI PSICOLOGIA.” Non avevo sbagliato a seguire le indicazioni… ma allora dove erano tutti, e dove avevano portato Claire? Un’idea mi balenò nella mente: l’ospedale, ovvio. xxx <>, avevo il fiato corto, mi sentivo mancare la terra sotto i piedi… Lui se ne accorse e mi afferrò prima che potessi cadere. Mi portò in braccio fino alla sala d’aspetto, e mi fece distendere su un piccolo divano color crema. Lui, invece, si accomodò, accanto a me, su una piccola poltroncina della stessa tonalità del divano. xxx Dopo aver capito che Claire era stata portata all’ospedale, raccolsi tutta la forza che mi era rimasta in corpo, e corsi fino a raggiungere la strada. Mi aspettava una bella sfida: arrivare in ospedale con la sola forza delle gambe. Rimpiansi ancora una volta la mancanza della mia macchina. La fortuna, però, era stata dalla mia parte, almeno all’inizio. Come se il destino volesse farci incontrare solo in quel modo, gli andai di nuovo addosso. Sarà stato il nostro secondo incontro, o qualcosa che vide sul mio viso. Fatto sta che con una mano mi cinse la spalla, e con l’altra mi sollevò il mento per costringermi a guardarlo negli occhi. Sentii ancora la sensazione del buco nero che mi risucchiava. Non so cosa vide di preciso, ma di colpo mi si rivolse con tono brusco, autorevole. <> Cercai di sfuggire il suo sguardo, ma lui mi ripescò. <>, questa volta il suo tono era più morbido. Forse pensava di conquistare una mia “confessione” con le buone. <>, la mia voce era un sussurro, forse perché ero stravolta, o forse perché temevo che se avessi parlato con tonalità normale, la voce avrebbe tremato… ero ancora persa nella notte degli occhi di quello sconosciuto. <>, riprese. <> Diedi all’ultima parola una forza particolare, che non credevo di avere ancora in corpo. Sicuramente il mio tono lo aveva sorpreso. Non fece più domande, ma disse quello che avevo sperato dicesse: <> Dopo aver detto ciò, lasciò la presa che mi immobilizzava il viso e mi prese la mano. Mi guidò fino alla sua macchina. Mi aprì lo sportello dalla parte del passeggero. Io lasciai la sua mano e salii in macchina. Lo osservai mentre faceva il giro per arrivare alla parte del conducente. Diede gas al motore, e partimmo a tutta velocità. Ci inoltrammo nel traffico di Seattle. Pensavo quanto fosse strano che ci fosse traffico a quell’ora. Ma poi riflettei: io non sapevo che ora fosse. Mi sorpresi ad aver perso la cognizione del tempo. Lanciai un’occhiata al cruscotto. I grandi numeri verdi dell’orologio segnalavano l’ora di punta. Era l’una e mezza. Probabilmente saremmo rimasti imbottigliati nel traffico per molto tempo. Non potevo pretendere nulla da un ingorgo, quindi decisi di rilassarmi contro il sedile. Dalla radio usciva una melodia rilassante, avvolgente. Quando arrivò il momento di un duetto di pianoforte e violino, dedussi che doveva trattarsi di musica classica. Guardai fuori dal finestrino. <> La sua voce non mi spaventò, anzi mi diede un senso di protezione. Mi voltai dalla sua parte e gli sorrisi, per rassicurarlo. <>, dissi, ricordandomi che ancora lui non sapeva come mi chiamassi. <> Sorrise a sua volta e tornò a fissare davanti a sé, sebbene non ce ne fosse motivo, perché la macchina era praticamente ferma. Aveva detto di chiamarsi Gareth… Mi ritrovai a fissarlo. Non trovai nessuna imperfezione. Era uno di quei pochi ragazzi che poteva definirsi davvero bello. I capelli erano scuri quasi quanto gli occhi. Le labbra non avrei potuto dire se fossero carnose o fini, ma gli conferivano un aria elegante. Il naso sembrava scolpito nel marmo, tanto era perfetto, come tutto il resto del corpo. La pelle riportava i segni di un’abbronzatura che stava scomparendo. Con molta fatica mi costrinsi a spostare lo sguardo. Guardai a terra, scuotendo lentamente la testa. Sospirai. Con la coda dell’occhio vidi che lui si era voltato verso di me. Lo avevo incuriosito? Con mia grande sorpresa ci ritrovammo nei pressi dell’ospedale. Non mi ero accorta che Gareth aveva imboccato una strada secondaria per fare prima. Ero stata troppo concentrata a studiarlo. Quando fummo abbastanza vicini, mi lanciai fuori dalla macchina – che stava rallentando – e corsi fino a raggiungere le porte scorrevoli. Mi girai un attimo, ma la macchina non c’era già più. Respirai a fondo e varcai la soglia dell’ospedale. xxx Mi ci volle poco per riprendermi, grazie alla prontezza di Gareth, che mi aveva fatta sdraiare. Lui era rimasto in silenzio tutto il tempo. Chissà a cosa stava pensando… forse credeva di trovarsi davanti ad una pazza. Se fosse stato davvero questo il suo vero pensiero non avrei potuto biasimarlo. Sospirai, tenendo ancora gli occhi chiusi. Non volevo rivedere il posto in cui mi trovavo. <>, azzardai. Ci fu un istante di silenzio, poi disse: <> Sospirai ancora. <> Mi asciugai le lacrime, che erano appena sgorgate silenziose. Mi prese la mano destra e iniziò a giocarci, poi intrecciò le sue dita con le mie. Anche se il nostro primo incontro era avvenuto solo qualche ora prima, io sentivo di conoscerlo da sempre, e dentro di me speravo che lui provasse la stessa sensazione. <>, mormorò. Risi tra le lacrime. Gareth non sapeva nulla. <>, iniziai, <> La risata iniziale si trasformò in una crisi isterica. Strinsi i pugni, con i quali mi coprii gli occhi, e scoppiai in tutto il mio dolore. Gareth mi sollevò piano, fino a farmi mettere seduta, e mi strinse forte a sé. Le mie mani, ancora strette nei pugni, erano inermi sul suo petto. La sua maglietta si bagnò per la seconda volta delle mie lacrime. <>, singhiozzai. <> Detto questo, mi strinse ancora di più a sé.
  
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