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Autore: Shin83    22/06/2014    4 recensioni
Nel presente di Steve, torna ad affacciarsi qualcuno del suo passato.
Che aveva amato tanto ma che lo aveva anche molto ferito.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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 I've been living so long with my pictures of you



 

La sua prima cravatta di seta.

Aveva ventotto anni e quella era la sua prima cravatta di seta. Era di Gucci. Stava davanti allo specchio a lisciarla e continuava a sistemare il nodo.

 

Gliel’avevano regalata Peggy e Bucky, i suoi migliori amici. Azzurra, così che si abbinasse ai suoi occhi.

Quando aveva visto la busta di carta patinata, liscia, lucida, color oro, della boutique sulla Quinta Strada, si era arrabbiato tantissimo.

“Voi due siete pazzi! Siete andati a spendere, quanto? Duecento dollari? Per una striscia di seta!”

“Stai zitto Steve e accetta un regalo per una volta. E’ la tua prima mostra importante e poi c’è il rischio che tu possa incontrare lui.” Peggy era stata perentoria e non aveva del tutto torto riguardo a certi incontri casuali.

 

Dopo aver sistemato per la settima, o l’ottava, volta il nodo della cravatta, controllò il resto.

Tolse un pelucco dal risvolto della giacca nera del suo completo elegante, uno dei pochi che possedeva e no, quello non era di Gucci, non poteva permetterselo. Però il reparto uomo di Bloomingdale’s dava buone soddisfazioni in periodo di saldi.

I capelli erano perfetti: aveva la fortuna di averli lisci, biondi come il grano maturo e riusciva a tenerli sempre in ordine con la riga di lato.

 

Lui era un artista anomalo: il suo studio era il regno del rigore e della pulizia, non c’era pennello o tavolozza fuori posto.

Forse per questa sua peculiarità, così inusuale in un mondo creativo come il suo, riusciva a creare opere straordinariamente uniche.

 

Per questo motivo la fondazione Stark Industries for New York Young Artists l’aveva selezionato per la mostra annuale che si teneva al Metropolitan Museum i primi di giugno da alcuni anni a quella parte.

Era stata la presidentessa in persona a chiamarlo, Virginia Potts. Si era innamorata del suo Kids in the Park, esposto in una galleria sulla Cinquattottesima Strada, proprio dietro a quel grande e brutto edific-, sì, insomma, la Stark Tower.

“Finalmente vedo qualcosa di delicato, Steve. La posso chiamare Steve, vero?” Gli aveva detto, durante la loro lunga chiacchierata telefonica.

All’inizio aveva pensato ad uno scherzo di Bucky: lui era un buontempone e non poteva credere di essere stato scelto per esporre al Metropolitan Museum. Quel posto dove aveva passato intere giornate della sua vita accademica a disegnare, studiare o semplicemente a riflettere.

 

Aveva lo stomaco attorcigliato in un garbuglio di emozioni e non sapeva se era dovuto all’agitazione per la mostra o al pensiero di correre il rischio di incontrare lui.

Erano passati dieci anni dall’ultima volta che si erano visti. Il giorno del loro diploma.

Poi, più nulla, nonostante vivessero nella stessa città e la galleria che vendeva le sue opere era praticamente a due passi da casa sua.

Quando andava in galleria, qualche volta, casualmente passava davanti alla Stark Tower, ma non era mai riuscito ad incrociarlo, nemmeno per errore.

Quella sera, però, lo avrebbe finalmente rivisto; in fondo lui era il capo e per quanto odiasse l’arte, o almeno così ricordava, avrebbe dovuto presenziare.

Un’ultima occhiata allo specchio di camera sua prima di fare un lungo respiro, prendere le chiavi di casa, l’invito della serata e il portafoglio e chiudere la porta del suo appartamento in Monroe Street.

Abitava lì, in quella porzione di strada che stava proprio in mezzo a due ponti che collegavano la sua nuova casa, Manhattan, con quella vecchia, Brooklyn.

Il suo appartamento era piccolo, ma accogliente. Aveva tutto ciò che gli serviva, non era mai stato il tipo a cui piacevano le cose superflue. Non era certo Park Avenue, ma aveva tutto a portata di mano e riusciva a vivere dignitosamente senza spendere un patrimonio.

 

L’aria della sera si era fatta tiepida e, controllata l’ora, decise che poteva permettersi di prendere il taxi qualche isolato più avanti.

Era abituato a muoversi in metropolitana o a piedi, ma non gli sembrava proprio il caso, quella sera, di presentarsi ad un evento così importante con il completo un po’ sdrucito o peggio, portandosi dietro qualche olezzo tipico dei sotterranei e per niente gradevole.

Sulla Broadway giravano sicuramente più auto gialle e in pochi minuti riuscì a fermarne una.

“Metropolitan Museum, grazie.” Indicò cortesemente.

Le luci al neon e i rumori tipici della notte newyorkese riempivano le strade e lui si guardava attorno, in silenzio, riflettendo su quella serata.

Era il suo exploit, il suo riconoscimento ufficiale. Già da qualche anno era molto apprezzato nel circuito artistico e dai salotti bene dell’Upper East Side; i suoi quadri vendevano molto bene, o almeno, quel tanto che gli bastava per avere una casa decente e permettersi uno studio in condivisione con altri ragazzi.

Era un grande loft vicino ad Union Square, dove ogni artista aveva un certo numero di metri quadri a disposizione in base all’affitto che pagavano.

Si trovava bene e, nonostante fosse un tipo per lo più solitario, aveva fatto qualche amicizia.

 

Il taxi si fermò poco prima del museo, l’area circostante era transennata; di solito a quelle manifestazioni partecipavano anche parecchi VIP e le misure di sicurezza erano fortemente richieste.

Pagò il tassista  e strinse tra le dita la busta con il suo invito. Non voleva certo farsi bloccare fuori dalla sua festa.

 

Arrivato all’ingresso fu letteralmente assalito da una delle assistenti dell’organizzazione che lo costrinse a fare alcune foto di rito sul red carpet. Detestava da morire quel tipo di convenzioni, ma per quella volta non poteva esimersi.

Il vero colpo fu entrare nella sala adibita per la mostra, proprio quella alle spalle della Thomas J. Watson Library, biblioteca dove aveva passato ore e ore a studiare e a incantarsi sulle opere del passato, il suo Kids in the park, per quanto fosse un piccolo e quasi fragile acquerello, troneggiava al centro della sala.

Si passò una mano dietro la nuca, imbarazzato e al contempo onorato di trovarsi al centro dell’attenzione.

Un cameriere dal tempismo perfetto passò accanto a lui con un vassoio pieno di flûte di champagne e ne prese al volo uno.

Ne bevve un sorso e si guardò attorno, con la speranza di trovare un’opera di una collega che attirasse la sua attenzione.

Quel posto traboccava lusso e ricchezza, due cose con cui aveva poca dimestichezza, nonostante avesse frequentato un ottimo liceo di Manhattan, nonostante lavorasse e vendesse le sue opere nelle zone più in di New York. Lui era così, una persona semplice che non amava i fronzoli.

 

Tra completi costosi, collier che costavano più dell’affitto annuale di casa sua e abiti da sera fruscianti, si fermò con il suo flûte ormai vuoto, davanti ad un quadro un po’ particolare, gli ricordava molto certi studi di nudi del pittore espressionista austriaco Egon Schiele.

Forse si stava soffermando un po’ troppo davanti a quel quadro, non voleva dare l’impressione di essere una persona morbosa, anche se, gli sembrava che nessuno si stesse curando di lui, neanche Miss Potts si era fatta vedere.

Si stava allontanando quando una voce calda e sicura gli chiese: “Un po’ troppo dettagliato questo, non trova? Probabilmente è uno dal vero fatto in uno studio ginecologico.”

Lì per lì non riconobbe quella voce, ma quando l’uomo gli si palesò di fianco, per poco non fece scivolare il bicchiere dalle mani.

 

Capelli scuri sapientemente scolpiti in un ciuffo che voleva sembrare casuale ma studiato metodicamente, barba curata e disegnata in un modo che era più unico che raro e che era quasi un tratto distintivo, completo di alta sartoria dalle rifiniture impeccabili che al confronto il suo onestissimo vestito comprato coi saldi ci faceva una figura poco egregia, mani che sorreggevano un bicchiere semivuoto di liquido ambrato, probabilmente whiskey ma più sicuramente bourbon, dita sottili ma forti, definite da una manicure rigorosa ma che nascondeva imperfezioni, sintomo che erano inclini al lavoro, e infine gli occhi, quegli occhi nocciola che avrebbe riconosciuto in mezzo a mille altri, anche a distanza di dieci anni e che aveva cercato per dieci anni.

 

L’uomo continuò a parlare, forse abituato a sentirsi sotto osservazione. “Invitato casuale o uno degli artisti fortunelli?”

Lui deglutì, cercando di mantenere un contegno dovuto ad una persona adulta.

“Artista,” riuscì a rispondere, quasi aveva paura a sbagliarsi nel farlo.

“Tony Stark,” l'uomo elegante tese la mano nel presentarsi.

“Steve Rogers,” replicò, stringendola in modo fermo.

 

Chiaramente non l’aveva riconosciuto. Era cambiato in tutti quegli anni.

Del sano e costante sport lo avevano aiutato a guadagnare centimetri in altezza e in muscolatura e la sua pubertà era arrivata semplicemente più tardi degli altri.

“Oh, il famoso Steve Rogers. Pepper non fa che parlare di lei. L’ha già conosciuta?”

“N-no. Sono arrivato circa venti minuti fa e ho dato un’occhiata veloce in giro, non ho avuto modo di cercarla, ancora.”

“Tranquillo, starà facendo pubbliche relazioni in giro, non le sfuggirà, non si preoccupi.”

Steve aspettava una reazione, positiva o negativa, una qualunque, non gli importava. Ma gli bastava che arrivasse.

“Sì, mi farebbe piacere incontrarla di persona, abbiamo solo parlato per telefono in queste settimane.”

“Steve Rogers, ha detto?” Stark fece roteare il ghiaccio del suo bicchiere ormai svuotato dall’ultimo sorso.

Per un attimo gli occhi di Steve si illuminarono.

“Mi è familiare questo nome. Ma mi sarei indubbiamente ricordato di lei se ci fossimo già incontrati prima. Probabilmente mi confondo con qualcun altro.”

No. L’aveva dimenticato.

Steve abbassò lo sguardo, notando quanto anche le sue scarpe tirate a lucido risultassero sciatte accanto a quelle di finitura italiana di Stark.

 

La sua cotta adolescenziale era davanti a lui dopo dieci anni e quello l’aveva rimosso completamente. Ma, d’altra parte, non poteva aspettarsi altro.

 

 

 

Era tutto sparso a terra. Fogli, libri, matite. Come accadeva ogni santo giorno.

Bastava uno spintone, neanche tanto violento, a farlo finire con il naso schiacciato contro il pavimento del corridoio e tutte le sue cose alla mercé di chiunque.

“Stecco Rogers, sei proprio uno sfigato, non riesci neanche a stare in piedi da solo.”

Seguivano le immancabili risatine di scherno e l’ingombrante indifferenza del resto della scuola.

Ormai era diventato quasi un rito, ogni giorno subiva qualsiasi tipo di angheria, ma i più frequenti erano gli spintoni.

Tony Stark e il suo gruppo ci trovavano un che di soddisfacente a vederlo prostrato ai loro piedi.

D’altra parte, non solo Steve era un ragazzino minuto, asmatico e più basso della media, aveva anche il torto di essere di Brooklyn e amante dell’arte. “Frocetto di Williamsburg” era uno degli appellativi con cui lo chiamavano più spesso, subito dopo “Stecco Rogers”.

 

Lui ci provava a difendersi, ci ha provato per quattro lunghi anni. Ma era solo, circondato da indifferenza e cattiveria, non quella fine a se stessa ma quella che provano gli adolescenti, incazzati con il mondo, chissà poi per quale ragione, e che, per provare di valere qualcosa, individuano l’anello debole del loro ambiente e lo trasformano nel loro personalissimo sacco da punch ball.

Tony e compagnia erano “loro”, Steve era il sacco.

Ci fosse stato Bucky, con lui, le cose molto probabilmente sarebbero andate in un modo diverso.

Un paio di volte, quando Steve era tornato a casa con qualche livido o con un occhio pesto, dovette trattenere il suo migliore amico dall’andare a cercare Stark e seguito per spaccargli la faccia.

Bucky detestava nel profondo quei figli di papà, viziati ed annoiati, che si divertivano a prendersela con una preda facile come Steve.

 

Odiava i bulli, Steve, però cercava sempre il buono nelle persone. Anche a chi gli faceva del male, come Tony.

La prima volta che lo aveva incrociato nei corridoi della scuola, perse un battito cardiaco.

Era piuttosto smilzo anche lui e all’epoca lo superava di qualche centimetro, era bello, cosa molto rara per i ragazzi di quell’età che ancora dovevano sbocciare. Aveva l’aria dello sbruffone nonostante i suoi quattordici anni.

I suoi occhi, però, tradivano altro. Gli dicevano che c’era molto altro, dietro quell’armatura che si era costruito.

Peggy, invece, diceva che soffriva di Sindrome di Stoccolma, che si era semplicemente innamorato del suo aguzzino.

Lui le rispondeva sempre che diceva così solo perché non l’aveva mai visto.

 

Sua madre Sarah aveva lavorato e continuava a lavorare tanto per permettergli di frequentare quella scuola, una delle migliori di New York, perché voleva che suo figlio avesse un’istruzione seria e non poteva immaginare che anche in strutture che dovevano essere di un certo livello succedessero certi “incidenti”.

Avevano discusso più volte, Steve e Sarah, sul fatto di tornare a scuola a Brooklyn, e per quanto gli sarebbe piaciuto, il ragazzo non voleva darla vinta ai bulletti. Sua madre stava facendo tanti sacrifici per garantirgli un’educazione scolastica a modo e lui non voleva sembrare uno debole, non gli importava di essere picchiato o di non avere amici, voleva apparire agli occhi di sua madre come una persona forte visto che, in fondo, lo era.

 

Terzo anno. La classe di arte aveva organizzato una mostra e Steve non poteva non partecipare.

Ogni ragazzo poteva portare fino a cinque “opere” ciascuno e ovviamente lui si mise sotto per dare il massimo. Passò ore e ore, giorno e notte sui lavori che voleva far esporre.

Era la prima volta che gli capitava un’occasione del genere, far vedere agli altri quanto amasse l’arte e potersi esprimere nel modo che lui trovava più affine a sé.

Carboncino, sanguigna, acquerelli, olio, acrilici. Ogni dipinto doveva avere la sua tecnica.

 

Né Bucky, né Peggy riuscirono a tirarlo fuori casa in quei giorni. Era così immerso nel lavoro che, a stento, Sarah era in grado di farlo cenare a modo, anche se, nonostante i rimproveri, non era mai stata orgogliosa di suo figlio come in quel momento.

La cocciutaggine di Steve quando voleva portare a termine qualsiasi cosa, che si trattasse del percorso scolastico, un disegno o una partita di Scarabeo, era indomabile. Non aveva importanza quello che faceva, non doveva lasciare nulla a metà.

Se si trattava di prendere in mano pennelli o matite, il tutto si amplificava senza limiti.

Un ritratto di sua madre con la sanguigna, uno di Bucky ad olio, quello di Peggy in acquerello, facce da metropolitana in acrilico e uno studio di mani ed occhi col carboncino. Questi ultimi volevano essere anonimi, ma pensava ad una persona nello specifico; sperava nessuno se ne accorgesse, ma era disposto ad accettare il rischio delle conseguenze, in fondo peggio di come già lo trattavano, non poteva andare.

O, almeno, era quello che pensava lui.

 

La scadenza per la consegna dei lavori era fissata a cinque giorni prima dell’inaugurazione della mostra, che sarebbe avvenuta in un mite sabato di aprile.

Steve consegnò il suo materiale al professore puntuale come un orologio svizzero.

Era anche riuscito a convincere Sarah a partecipare all’inaugurazione, voleva che fosse fiera di lui, voleva che vedesse coi propri occhi quanto si era impegnato, come se non lo sapesse già.

Quello che Steve non aveva messo in conto era che sua madre, ma soprattutto lui, quella sera avrebbero subito un’umiliazione difficile da dimenticare.

 

Aveva indossato il suo miglior paio di jeans e la camicia più bella che aveva nel suo non proprio fornito armadio. Teneva stretta a braccetto sua madre, quando entrò nell’auditorium della scuola che era stato attrezzato per la mostra per quelle settimane.

Il sorriso che aveva stampato in faccia si trasformò in una smorfia di delusione quando non vide nemmeno uno dei suoi dipinti esposti.

Lasciò per un momento il braccio di Sarah e andò a cercare il professor Hopper a chiedere spiegazioni, aveva creduto che fosse entusiasta del suo lavoro.

“Professore!” Lo chiamò non appena lo intravide mentre stava parlando con la vicepreside Hill.

“Steve, cercavo proprio te.”

“Perché i miei lavori non sono esposti?” Chiese a bruciapelo il ragazzo.

“Bè… vedi, c’è stato un problema.”

Che problema poteva mai esserci stato? Aveva consegnato tutto in tempo, aveva lavorato duro, il professore non si era risparmiato in complimenti.

Steve lo guardò muto con uno sguardo corrucciato, aspettando delle spiegazioni.

Il professore si grattò la nuca e decise, una volta per tutte, di esporre la situazione, prendendo da parte il ragazzo e portandolo nel corridoio adiacente l’aula magna.

“Steve. Qualcuno ieri dopo le lezioni si è introdotto nell’aula di arte e, dopo aver messo a soqquadro tutto, ha deturpato i tuoi lavori, uno addirittura è stato rubato. La cosa sembra sia stata mirata, perché come vedi, quelli dei tuoi compagni non sono stati toccati. Cercheremo di scoprire i vandali, ma sono stati furbi e hanno manomesso le videocamere di sorveglianza dei corridoi. Mi dispiace.”

Il ragazzo strinse le mani in due pugni, talmente forte da farsi diventare le nocche completamente bianche. La vista si annebbiò, un po’ per la rabbia, un po’ perché gli si erano velati gli occhi di lacrime. Ma non pianse. Non poteva, non doveva piangere. Non a scuola, non di fronte al suo professore.

Mantenne un contegno invidiabile, deglutì a vuoto e rivolse lo sguardo all’uomo di fronte a lui. “Posso sapere quale dei quattro lavori è stato rubato?”

Per lui era abbastanza chiaro chi avesse compiuto quel gesto, ma non poteva accusare suoi compagni senza avere prove. Soprattutto se i suoi sospetti ricadevano su Tony Stark, il più sfacciato tanto quanto impunito bullo della scuola.

“Lo studio anatomico in carboncino.” Rispose il docente.

Bingo. I suoi sospetti erano diventati certezze. Stark era un’idiota, d’accordo, ma era estremamente intelligente, aveva sicuramente riconosciuto se stesso in quegli schizzi.

Chissà cosa gli avrebbe riservato nei giorni a venire, visto che aveva osato rendere sua maestà Stark oggetto dei suoi lavori.

“Mi dispiace, Steve. So quanto ci tenevi a partecipare, ma il tuo voto non subirà conseguenze, in fondo non è colpa tua.” Hopper provò a consolarlo, poggiandogli una mano sulla spalla ossuta.

Steve provò a fare un sorriso, ma ne venne fuori una smorfia.

Tornò sconsolato nell’aula magna a cercare sua madre per potersene tornare a casa sua, a Brooklyn.

Ma la sorte sembrava volersi prendere ancora gioco di lui.

Appena rimesso piede nella grande stanza adibita a mostra si scontrò letteralmente contro Stark che lo allontanò subito con uno dei suoi “delicati” spintoni che lo fece finire contro la parete.

“Oh, Stecco Rogers. Sono piaciuti i tuoi capolavori? Ah già! Non ci sono!” Tony e il resto del gruppo scoppiarono in una sonora risata, la solita denigratoria risata che usavano per sbeffeggiarlo.

Ma Tony aveva qualcosa di diverso negli occhi, lo guardava in maniera inusuale.

Steve alzò lo sguardo, gli occhi ancora rossi per aver trattenuto i fiumi di lacrime che invece volevano sgorgare, copiosi. Non disse nulla, come sempre. D’altra parte non poteva di certo mettersi a fare scenate davanti a mezza scuola, docenti e genitori compresi, ma peggio ancora, davanti a sua madre.

“Un giorno me la pagherai, forse.” Si ripeté come un mantra il ragazzino minuto e orgoglioso.

Il suo momento di gloria gli era sfuggito dalle mani, non a causa sua, ma per colpa di un gruppetto di ragazzini viziati che, chissà per quale oscuro motivo, non perdevano occasione di umiliarlo, possibilmente davanti a tutti.

 

“Mamma, torniamocene a casa.” Fu l’invito di Steve, una volta ritrovata Sarah.

Nessuna spiegazione, nessun dettaglio. Solo un volto cupo su una giacca che era troppo lunga di maniche e larga di spalle.

Sarah non chiese niente, sapeva leggere il figlio fin troppo bene solo con uno sguardo.

 

Un giorno Steve avrebbe avuto la sua rivincita, ne era certo. Doveva solo avere tanta pazienza.

 

 

 

Tony parlava e parlava. Aveva riempito la testa di Steve di parole.

In un certo senso non era molto cambiato, era ancora lo sbruffone senza modestia di un tempo, anche se sembrava sparita la voglia di dover far soffrire il resto del mondo per puro divertimento.

Non poteva dirlo, Steve ci stava parlando sì e no da mezzora.

Sembrava quasi che Tony stesse flirtando con lui. No, Stark lo stava facendo davvero.

Che fosse arrivato il momento della sua rivincita?

 

Steve lo osservava mentre chiacchierava. La sua sicurezza e il suo fascino lo avevano catturato. Esattamente com’era successo quattordici anni prima lungo i corridoi di una scuola superiore di Manhattan.

C’era solo un piccolo particolare che faceva la differenza: non era più un ragazzino rachitico e fragile, era diventato un uomo. Con centimetri e muscoli aveva anche acquistato più sicurezza, era sempre stato consapevole delle sue buone qualità e aveva sempre mantenuto la sua dignità nonostante tutto.

Solo che adesso era tutto diverso, la gente finalmente lo trattava con rispetto. Apprezzavano lui e il suo lavoro.

 

Mentre Tony blaterava sui migliori ristoranti italiani di Manhattan – gli aveva promesso che lo avrebbe portato da Cipriani visto aveva un tavolo riservato solo per lui, non doveva neanche prenotare –, una donna molto affascinante si avvicinò a loro, arrampicata su un paio di Louboutin tacco dodici lucide e argentate e fasciata da un vestito in taffetà nero e costosissimo, i capelli rossi naturali tirati su in un elegante chignon.

“Chi è questo bel giovanotto che ha compiuto il miracolo di trattenere Tony Stark in una delle sue serate di gala per più di dieci minuti?”

Sorrise benevola, nonostante un tono di voce piuttosto determinato.

Il ragazzo tese la mano. “Steve Rogers.”

“Oh! Steve, finalmente la conosco. Virginia Potts.” Rispose la donna con un guizzo di entusiasmo.

“Non solo lei è uno straordinario artista, è riuscito anche a non far scappare colui che paga tutto ma non riesce a comportarsi come un imprenditore vero.”

Tony le lanciò un’occhiataccia, sminuirlo così davanti ad uno sconosciuto, per quanto statuario e pure intelligente, non era cosa gradita.

“Devo assolutamente presentarle alcune persone, sono sicura che Tony la stia infastidendo. Venga pure con me.” Pepper gli fece segno di seguirla, ma Stark bloccò entrambi.

“Potts, ricordami perché ti ho assunta. Ah, un’ultima parola a Rogers e lo do in pasto ai tuoi PR da strapazzo.”

 

Le cose si erano decisamente ribaltate. Da ragazzino bullizzato e ridicolizzato davanti a tutti era diventato oggetto di diatriba tra due tra gli esponenti più importanti dell’alta società di Manhattan.

La vita era davvero buffa alle volte.

Tony lo bloccò afferrandolo per un polso.

“Dobbiamo vederci un’altra volta. Solo noi due, per un aperitivo. La farò chiamare dalla mia segretaria in questi giorni, va bene?”

Steve strabuzzò gli occhi. Non poteva davvero crederci. Invitato fuori dall’aguzzino e oggetto dei suoi sogni di tutta la sua adolescenza. Che fosse l’ennesimo scherzo di Stark?

“D’accordo.” Riuscì a rispondere, come se la bocca si fosse disconnessa dal cervello e avesse preso l’iniziativa per conto suo. Il buon senso gli avrebbe detto di non accettare, che la sua cotta era tutta acqua passata, che erano passati dieci anni senza vedersi, che la sua vita era andata avanti senza di lui e i suoi stupidi dispetti.

E invece. No. Invece accettò, perché erano quattordici lunghi anni che aspettava quel momento.

 


E buonsalve.
Lo so che non stavate sentendo la mia mancanza, ma che volete, ogni tanto mi vengono questi sprazzi di ispirazione e mi tocca scrivere.

Questo che avete appena letto è il primo capitolo di una mini long di quattro. 
Ho già tutta la trama, ma visti i miei soliti tempi biblici non vi prometto aggiornamenti rapidi, sappiate però che è già tutto stabilito, dunque dovete avere solo pazienza che tempo, ispirazione e varie ed eventuali mi permettano di scrivere con regolarità.

Avevo voglia di scrivere qualcosa con tiny!Steve, dunque mi è venuta l'idea di inserire questi flashback dove si racconta un po' di Steve piccino picciò; so che Tony bullo che tormenta Rogers prima della cura non è proprio una novità, specialmente se leggete fic in inglese altrove, ma ho comunque pensato che per come volevo impostare la storia ci calzasse a pennello, dunque, così è.

Per ora il rating è giallo, ma verso il terzo potrebbe diventare arancione/rosso, vedremo come andrà a finire.

Altro da dire? Non lo so, non mi ricordo.
Grazie alla Marti per il betaggio e grazie a chiunque arrivi alla fine di ogni capitolo. <3

Alla prossima. :)
  
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