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Autore: Shomer    23/06/2014    3 recensioni
«Forse dovresti cambiare modo di vedere le cose e domandarti se sono più importanti le persone che odi o quelle che ami. Io faccio così. Il tuo amico che ti chiama ogni tre giorni, con cui stai al telefono ore senza parlare praticamente di nulla... penso che valga la pena tornare almeno per lui.»
«Freddie se la cava alla grande anche senza di me.»
Non era vero. Ultimamente la sua voce era molto più incrinata e triste. Forse da quando Janis aveva cominciato la sua nuova e patetica esistenza, lui si era ritrovato da solo. Senza nessuno con cui uscire la sera, con cui parlare durante le pause dal lavoro.
Forse ormai non andava neanche più alla nostra collinetta per bere una birra. Forse non ci andava più nessuno.

Gli avvenimenti narrati si collocano otto mesi dopo "Ragazzo Sorriso e Lenticchia: la triste storia di un vicolo cieco".
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ragazzo Sorriso e Lenticchia: l'epilogo di un viaggio iniziato male


 

La strada dalla Pennsylvania Station sembrava attraversasse il continente,
come se non tornasse più all'indietro, ma andasse sempre avanti ad occidente
fra tombe in ferro, vetro, pianura, pali e gente. E indietro, invece, e in fretta ci torna

ma in certi miei momenti forse oziosi, mi chiedo dove sei e che cosa fai
e come passi i tuoi giorni noiosi, io che non ti risposi
in questa casa mia che sai e non sai.
100 Pennsylvania Ave - Francesco Guccini

 

Meno sei ore all'arrivo

 

Il vento mi scompigliava i capelli e mi pizzicava gli occhi. Tenevo il finestrino aperto per metà, le dita strette intorno alla sigaretta all'aria, e ogni tanto lanciavo un'occhiata a Lenticchia Due che dormiva beato sul sedile posteriore. Gioele si lamentava continuamente del fumo che impregnava la tappezzeria di quel macinino della Fiat degli anni '70.
Eravamo in viaggio da più di un'ora, ne mancavano sei all'arrivo, e davvero non sapevo se sarei arrivata viva a destinazione, non perché il ragazzo al volante guidasse male, ma perché le sue parole senza senso e i suoi continui lamenti mi stavano martellando il cervello.
«Senti» sbottai, d'un tratto «Sei stato tu ad offrirti di darmi un passaggio, quindi adesso smettila di stressarmi e guarda la strada, che con questo buio non si vede niente!»
Gioele blaterò qualcosa sul fatto che il fumo che gli copriva gli occhi non gli permetteva certo di mantenere una guida ottimale, ma io lo ignorai consapevole che volesse solo un'altra scusa per lamentarsi di me.
Rimase in silenzio per un po', lanciandomi di tanto in tanto occhiate contrariate a cui io cercai di non dar peso.
Quando i miei nervi si tendevano troppo e mi domandavo per quale assurda ragione avevo accettato di fare il viaggio con lui, il coinquilino in assoluto più odioso che sarebbe mai potuto capitarmi, mi ripetevo mentalmente le parole di Freddie e cercavo di tranquillizzarmi.
Senti, fai in modo di trovare un posto. Altrimenti manderà qualcuno a prenderti. E non vorrei che questo qualcuno fosse Janis.”
No, non l'avrei voluto neanche io. E probabilmente non l'avrebbe voluto neanche il diretto interessato, considerando che aveva delegato a qualcun altro anche il compito di telefonarmi.
Ma che mi aspettavo, poi? Avevamo promesso entrambi che non ci saremmo sentiti durante la mia assenza. Io non avevo provato neanche una volta l'impulso di chiamarlo, anzi, cercavo di scacciare via la sua immagine dalla mia mente come meglio potevo e negli ultimi mesi ce l'avevo fatta benissimo.
Mi tenevo occupata con lo studio e sfogavo tutte le mie frustrazioni su Gioele, che sembrava incredibilmente divertito ogni qualvolta me la prendessi con lui.
«Ma perché non vuoi mai tornare a casa?» buttò lì, le mani strette sul volante e lo sguardo fisso sulla strada.
Io sussultai. Non me l'aveva mai chiesto. In realtà non si era mai interessato a qualunque cosa mi riguardasse, a parte al cibo che tenevo in frigo o ai miei appunti di biochimica che, in ogni caso, non gli avevo mai prestato.
«Non sono affari tuoi» borbottai, buttando la sigaretta fuori dal finestrino e appoggiandomi al vetro.
Lui ridacchiò, come faceva sempre quando gli rispondevo male. «Sai, me lo domando dall'anno scorso» rivelò «L'ho chiesto pure a Sara, ma ha detto che non lo sapeva.»
Io gli lanciai un'occhiataccia, ma non se ne accorse. «E tutto questo improvviso interessamento?» domandai, scettica.
«E' una cosa che da nell'occhio» spiegò, scostandosi i capelli neri dal viso «Di solito gli studenti fuori sede non vedono l'ora di tornare al paesello.»
«Beh, io no» sbottai, torva.
Gioele sorrise ancora e scosse la testa quasi impercettibilmente. Io chiusi gli occhi e tentai in tutti i modi di addormentarmi senza risultato.
Nella mia mente si affacciavano le immagini che avevo lottato tanto per dimenticare: Janis che mi voltava le spalle e scendeva le scale del mio pianerottolo, mentre io sbattevo la porta e correvo in bagno a bagnarmi il viso con l'acqua fredda; Freddie che mi guardava compassionevole e mi diceva che prima o poi tutto sarebbe tornato al suo posto, il viso di Febri che mi sorrideva radioso dalla foto sul marmo bianco, Rob che mi diceva di tornare presto.
La domanda giusta non era “perché non vuoi mai tornare a casa?”, ma “perché mai dovresti voler tornare?”.

 

Tre giorni alla partenza

«Sei pazza se credi di poter fare come l'anno scorso, signorina!»
Sospirai, esausta, e chiusi gli occhi. Quella conversazione si ripeteva perfettamente identica ad ogni telefonata, e ormai non avevo più carte da giocare. Decisi allora di insistere sul punto che stava più a cuore a mia madre: lo studio.
«Sto preparando un esame importante, mamma» dissi, avvicinandomi la cornetta alla bocca «Mi servono i libri della biblioteca... lo sai che giù in paese non siamo attrezzati...»
Il sospiro di mia madre giunse metallico e contrariato alle mie orecchie. «Non sarà certo più importante di quello che ti ha impedito di tornare a casa per Natale» si infervorò «O di quello che ti ha fatto perdere il matrimonio di tuo cugino.»
Sussultai. Feci un respiro profondo, chiusi gli occhi e contai fino a quindici. Avevo imparato a gestire situazioni del genere. Avevo imparato a non farmi prendere dalla tristezza e dallo sconforto. Accarezzai la testa di Lenticchia Due, che scodinzolava felice ai miei piedi, e deglutii.
«E' più importante» dissi, con voce rotta.
«Sono sicura che potrai prenderti una settimana di pausa» decretò mia madre «Ti aspetto a casa giovedì, prima che apra il ristorante. Cerca di prendere un treno che ti faccia arrivare in orario.»
Riattaccò prima che potessi rispondere. Mia madre era una donna molto dolce e comprensiva.
Misi giù la cornetta, affranta e sconsolata come non lo ero mai stata negli ultimi mesi. Lei aveva sempre insistito tanto affinché tornassi a casa per le feste, ma in un modo o nell'altro ero sempre riuscita a inventare qualche scusa plausibile per convincerla a farmi restare in città. Mi accasciai lungo il muro con gli occhi chiusi, sfinita, mentre Lenticchia Due cercava di leccarmi la faccia e saltarmi addosso.
«Stai buono» borbottai. Era cresciuto molto nell'ultimo anno, e le sue chiazze marroni si erano fatte sempre più imponenti sul pelo bianco. Adesso arrivava quasi fino al mio ginocchio, ma sapevo che non sarebbe cresciuto più. Vederlo ogni mattina mi provocava una stilettata dritta al cuore, e forse sarei stata meglio senza averlo tra i piedi, ma non potevo liberarmi di lui. Era l'unica cosa che in un modo o nell'altro mi teneva aggrappata alla mia vita precedente, ed ero troppo codarda per tagliare definitivamente tutti i ponti.
Allora mi piaceva pensare, invece, di essere diventata più forte. Tenevo la foto del compleanno di Febri sul comodino, e ogni tanto ascoltavo la cassetta che lui e mio cugino mi avevano regalato per il compleanno di due anni prima.
Ma non ero forte. Non lo ero mai stata. Ero solo pateticamente e ridicolmente debole.
“Il matrimonio di tuo cugino”, aveva detto mia madre. Non sentivo quelle parole da tanto tempo e facevo di tutto per non pensarci. Avevo sempre saputo che prima o poi avrei dovuto affrontare quella questione, ma cercavo di rimandare il momento più a lungo possibile, magari all'estate che ormai si faceva sempre più vicina.
A volte pensavo che se avessi pensato ad una scusa buona, avrei potuto evitare di tornare a casa ad agosto, ma poi, puntualmente, mi chiamava Freddie e tutti i miei buoni propositi per staccarmi dal mondo andavano in frantumi.
Aprii gli occhi. La stanza in cui mi trovavo era arredata in modo spartano, con le pareti spoglie: era presente un tavolo, un angolo cottura, un piccolo divano e uno sgabello per il telefono. L'ideale per accogliere tre studenti fuori sede che non avevano grosse pretese. Su un lato c'era la porta di ingresso, e sull'altro un piccolo corridoio su cui si affacciavano le tre camere da letto e il bagno. Paradossalmente mi sentivo più a casa in quel tugurio buio piuttosto che con i miei genitori.
«Hai deciso di spazzare il pavimento con il sedere, nervosetta?»
Chiusi di nuovo gli occhi e feci un profondo sospiro, cercando di mantenere i nervi saldi almeno per quella volta. Contai di nuovo fino a quindici, tecnica efficace per controllare gli spiriti che mi aveva insegnato la mia coinquilina Sara e, quando pensai di essere sufficientemente calma, alzai lo sguardo sul mio improbabile coinquilino.
«Lasciami in pace, Gioele» dissi.
L'esempio più lampante della totale assenza di pudore si presentò davanti ai miei occhi, in tutto il suo patetico splendore dato dai capelli neri che gocciolavano sul pavimento e gli occhi altrettanto scuri stretti in uno sguardo ironico.
Il suo sorrisetto odioso aveva il potere di farmi innervosire come poche altre cose sapevano fare, come per esempio il suo torace glabro al vento e i jeans sbottonati.
Quando usciva di casa, era sempre vestito di tutto punto: maglioncino di marca super-costosa, pantaloni stretti da una cintura e capelli ordinati e composti. Ma probabilmente pensava che né io né Sara meritassimo di vederlo in tutta la sua eleganza, quindi dentro le nostre quattro mura si lasciava andare come le donne che dopo il matrimonio prendono trenta chili.
«Brutta giornata?» domandò ancora, passandosi una mano tra i capelli.
«Era radiosa, finché non sei arrivato tu» borbottai, alzandomi da terra. Intanto Lenticchia Due era andato a fargli le feste: non ero ancora riuscita a capire perché il mio cane amasse tanto quell'esempio lampante di inciviltà.
Lanciai un'ultima occhiata sprezzante a Gioele e poi mi diressi in camera mia, sbattendo la porta.

 

Mi svegliai di soprassalto, mettendoci un po' a capire dove, ma soprattutto quando, mi trovassi. Per tutto il pomeriggio le parole di mia madre mi erano rimbombate in testa, martellandomi il cervello e sfinendomi come la peggiore delle torture.
“Il matrimonio di tuo cugino”. Era da tanto che non sentivo quelle parole e probabilmente non ero preparata. Forse non lo sarei stata mai.
Durante i mesi che avevo passato lontana da casa avevo completamente escluso dalla mia mente quei pensieri. Quando avevo saputo del matrimonio, avevo reagito come se la cosa non mi riguardasse.
Adesso invece mi ritrovavo a pensarci, anche quando dormivo, e a chiedermi le cose più strane. Mi domandavo se avessero costretto Janis a tagliare i capelli. Li portava lunghi da quando aveva diciott'anni, non li aveva mai tagliati. Ormai non riuscivo neanche più a ricordarlo senza la chioma color miele stretta stretta in un elastico nero.
Mi chiedevo se fosse cambiato. Era il destino di tutti, alla fine. Come Marco, che parlava tanto del fatto di non voler finire come i suoi genitori, che diceva che l'essenza delle cose si trovava tra le pagine di autori ormai belli che andati, che avrebbe passato la vita a studiare le loro parole. E adesso lavorava alle poste, come suo padre.
Magari anche Janis adesso era diventato un padre di famiglia, con la camicia dentro i pantaloni e neanche un filo di barba. Sarebbe stato curioso vederlo in quel modo. Da instancabile sognatore a ombra arresa e, infine, uomo responsabile che porta il pane in tavola.
Sarebbe stato divertente. E mi avrebbe fatto un male cane.
Alla fine, tutti erano andati avanti tranne me.
Mi alzai dal quaderno sopra il quale avevo sonnecchiato nelle ultime ore e uscii dalla mia camera, abbassandomi ad accarezzare Lenticchia Due che mi aspettava fuori dalla porta.
Lanciai un'occhiataccia a Gioele, cosa che ormai era una prassi, che era al telefono a pochi passi da me. Lui mi ignorò, preso com'era da quella che doveva essere una conversazione esilarante, considerata la sua grassa risata, e io passai avanti.
Poi però sentii quello che stava dicendo.
«Hai detto Lenticchia?» chiese con un sopracciglio alzato.
Il mio improbabile coinquilino fece un espressione stralunata e parlò lentamente, scandendo bene le parole.
«Forse non ho capito» disse «Vorresti che ti passassi al telefono il cane di Mara?»
Sussultai e andai verso di lui, credendo con orrore di aver capito ciò che stava succedendo. Tesi la mia mano con un gesto autoritario, ordinandogli con gli occhi di passarmi immediatamente il telefono.
«Non riesco a capirti» disse lui, ignorandomi spudoratamente e continuando a parlare con il suo interlocutore «Mara è la mia coinquilina, Lenticchia è il suo cane. E' impossibile che Mara sia Lenticchia, perché questo dovrebbe voler dire che Mara è una cagna.»
Spalancai gli occhi con indignazione, sentendo il sangue che cominciava ad affluirmi sul volto. Strinsi i pugni talmente forte lasciare i segni delle unghie sui miei palmi e strappai velocemente il telefono dalle mani di Gioele, che era divertito come un bambino di fronte ad un clown.
«Questa me la paghi» sibilai, avvicinandomi la cornetta all'orecchio.
«Non fare promesse che non puoi mantenere, Lenticchia» disse lui, con un sorrisetto sarcastico e con una maggiore enfasi sul soprannome che aveva appena scoperto. «E poi, perché hai deciso di disegnarti un anello di benzene sulla faccia?»
Lo guardai un attimo senza capire, poi mi passai una mano sulla guancia e guardandola scoprii che era sporca di inchiostro.
Lo incenerii con lo sguardo e mi posai la cornetta all'orecchio, fissandolo mentre se ne andava nella sua camera divertito.
«Freddie?» domandai, cercando ancora di cancellare con la mano libera l'inchiostro che mi ero spalmata sulla faccia.
«Sì, sono io» disse la sua voce metallica «Senti, mi dispiace per il tuo coinquilino, è l'abitudine...»
«Non ti preoccupare» lo rassicurai, anche se già mi ribolliva il sangue al pensiero di Gioele che mi chiamava Lenticchia.
«Come stai?» mi chiese.
«Bene. Come sempre. E tu?»
«Non c'è male...» disse, esitante. Stette in silenzio per un po', poi ricominciò a parlare. «Senti, vado dritto al punto» disse, deciso ma timoroso «Tua madre vuole che torni a casa per Pasqua. Cerca di accontentarla.»
Sospirai. «E ha mandato te a cercare di convincermi?» domandai, scettica.
Freddie esitò ancora. «No» disse, poi «Aveva mandato Janis.»
Ci fu una lunga pausa.
Durante le nostre conversazioni al telefono, lunghe o corte che fossero, nessuno dei due nominava mai mio cugino. Non avevamo mai detto una parola riguardo tutto ciò che era successo, non parlavamo più neanche di Febri. Mia madre, chiaramente, non aveva la più pallida idea di ciò che ci era capitato, quindi capivo perché aveva mandato proprio lui a cercare di convincermi. E capivo anche perché lo nominava assiduamente in ogni telefonata, in cui io dovevo far finta di sapere tutte le novità che mi raccontava.
La realtà era che io non volevo sapere niente che lo riguardasse. Freddie lo sapeva bene.
«Mi dispiace» mormorò.
«I treni saranno tutti pieni» dissi decisa, ignorando le sue scuse «Pur volendo, non ce la farei.»
«Senti, fai in modo di trovare un posto» borbottò lui «Altrimenti manderà qualcuno a prenderti. E non vorrei che questo qualcuno fosse Janis.»
Strinsi gli occhi e feci un profondo respiro. Potevo farcela. «E va bene» dissi «Troverò un modo per tornare a casa, ma cercate di non mettere in mezzo lui.»

 

 

Ero sdraiata sul letto, a pancia in giù, e fissavo la foto sul mio comodino. Ci ritraeva tutti insieme, felici, al compleanno di Febri. E poi cos'era successo? Lui se ne era andato. Marco si era trovato un lavoro sicuro e una ragazza. Gaia aveva un figlio e ormai era sposata. Freddie era sempre lo stesso, non sarebbe cambiato mai. E Janis mi aveva abbandonata, delegava agli amici i compiti che erano stati affidati a lui pur di non sentire la mia voce, mi aveva voltato le spalle su quel pianerottolo e non si era voltato indietro. Esattamente come avevo fatto io.
Un sonoro bussare alla porta mi riscosse dai miei pensieri.
«Sara, entra» dissi.
«Sono io.»
Mi alzai di scatto e mi misi a sedere, sconvolta. La porta della mia camera si aprì e Gioele piombò dentro, stranamente vestito e con i capelli in ordine.
«Da quando bussi alla porta?» chiesi, con un sopracciglio alzato.
Dal principio della nostra convivenza, il mio odiosissimo coinquilino non si era mai premurato di annunciarsi prima di entrare in una stanza, cosa che aveva fatto sì che il mio astio verso di lui crescesse giorno dopo giorno.
«Ti ho sentita al telefono, prima» disse, guardandomi negli occhi.
«Hai origliato» lo accusai.
«Ovvio» ammise. Non si era mai fatto scrupoli ad invadere brutalmente la mia privacy, quindi lo disse come se fosse la cosa più normale del mondo. «E insomma, ti ho sentito mentre dicevi che i treni sono tutti pieni» continuò «Come ben sai, anche io vivo dalle tue parti. E ho una macchina.»
Lo fissai attentamente, capendo dove volesse andare a parare ma senza riuscire a spiegarmi il perché.
«Mi stai offrendo un passaggio?» domandai, scettica.
«Beh, sì.»

 

 

Autostrada, meno cinque ore all'arrivo

 

Il vento fresco della notte ci solleticava la pelle. Eravamo seduti sul marciapiede, fermi all'autogrill, con una lattina di bibita gassata stretta in mano e lo sguardo perso sulla strada. Lenticchia Due scodinzolava, felice di potersi sgranchire le zampe, Gioele era allegro come un bambino, non so per quale motivo, e tentava sempre di fare conversazione.
«Sai, penso che dovresti smetterla di inventare scuse ridicole per non tornare a casa» disse.
«Ma che cosa ne vuoi sapere, tu?» sbottai, acida.
Gioele sbuffò e mi lanciò un'occhiataccia. Io lo guardai con le sopracciglia aggrottate. Si era arrabbiato? Lui non si arrabbiava mai, con me. Mi prendeva solamente in giro, facendo crescere minuto dopo minuto il mio astio nei suoi confronti, divertito come un ragazzino al circo, noncurante del fatto che fosse la persona più molesta e invadente del mondo.
«Senti, perché non ci dai un taglio?» disse, acido «Dobbiamo passare insieme altre cinque ore. Cerchiamo di renderle il più piacevoli possibile, anche se a te piace sguazzare nel melodramma e nella tristezza...»
Spalancai gli occhi e la bocca. «Ma che diavolo dici?» mi adirai.
Lui si alzò dal marciapiede e buttò la lattina nella spazzatura, poi si piazzò davanti a me. «E' vero!» esclamò, allargando le braccia «Te ne stai sempre lì a girare per casa come un'ombra, ogni volta che ricevi una telefonata stai in silenzio per ore, non ti si può dire mezza parola che scatti e cominci ad innervosirti come una matta...»
«Non hai pensato che, magari, il tuo continuo girare per casa mezzo nudo e tuo impertinente modo di entrare nelle camere altrui senza bussare possano, in qualche modo, arrecarmi un certo fastidio?»
Lui ghignò. «Sì, lo faccio apposta» disse «Così almeno la smetti di essere mezza morta.»
Lo incenerii con lo sguardo, stringendo la lattina tra le mani. «Una mossa davvero intelligente, per guadagnarti l'odio delle persone.»
Gioele ridacchiò, chiudendo per un attimo gli occhi scuri. «Facciamo un patto» disse, con un sorriso «Io la smetto di infastidirti e tu la smetti di rispondere male.»
«Se ci riesci, per me non c'è problema.»
«Iniziamo da adesso, ti va, nervosetta?»
Mi porse la mano. Io, riluttante e scettica, la strinsi.

 

 

 

Autostrada, meno quattro ore all'arrivo

 

 

Mentre cercavo di distinguere i contorni sfuocati del paesaggio che sfrecciava veloce fuori dal finestrino, l'immagine di mio cugino con un disgustoso anello al dito mi si parava davanti senza lasciarmi scampo.
La situazione aveva un nonsoché di ironico. Lui che aveva sempre predicato libertà, che aveva sempre giurato che non avrebbe fatto la fine di altre centinaia di uomini, adesso si era incastrato in un matrimonio riparatore.
Alla fine, era diventato proprio come tutti gli altri. Forse è inevitabile e magari anche io avrei fatto la fine sua, di Marco e di Gaia, prima o poi. Forse anche Freddie. E forse l'unico che veramente era riuscito a scappare era Febri. Andato via in un soffio, lasciandosi alle spalle solo le minuscole e innumerevoli schegge che aveva piantato nei nostri stomaci. Lui che diceva che ci sarebbe sempre stato.
No, aveva fallito anche lui. Avevamo fallito tutti.
«Non mi piace tornare a casa perché ci sono delle persone che non voglio vedere» dissi a Gioele in un sussurro veloce, sperando di soddisfare così la sua curiosità.
Lui fece un sorriso quasi impercettibile e non si voltò. «Anche io» ammise «Ma ci sono anche delle persone che mi mancano, per questo torno sempre. Lo faccio per loro.»
Lo guardai con la coda dell'occhio. Aveva le labbra strette e i capelli scompigliati, i muscoli del collo tesi e le mani quasi bianche mentre stringevano con forza il volante. Tamburellava con l'indice e il medio a ritmo di musica ininterrottamente, e smetteva di canticchiare solo quando doveva dire qualcosa.
«Beh, io non sono come te» borbottai, seguendo con lo sguardo le sue dita che si muovevano.
«No, infatti» rispose «Però ogni volta che vado via di casa penso che ho fatto bene a tornare. Forse dovresti cambiare il modo di vedere le cose, e domandarti se sono più importanti le persone che odi o quelle che ami. Io faccio così. Il tuo amico che ti chiama ogni tre giorni, con cui stai al telefono ore senza parlare praticamente di nulla... penso che valga la pena tornare almeno per lui.»
«Freddie se la cava alla grande anche senza di me.»
Non era vero. Ultimamente la sua voce era molto più incrinata e triste. Forse da quando Janis aveva cominciato la sua nuova e patetica esistenza, lui si era ritrovato da solo. Senza nessuno con cui uscire la sera, con cui parlare durante le pause dal lavoro.
Forse ormai non andava neanche più alla nostra collinetta per bere una birra. Forse non ci andava più nessuno.
«Qualsiasi cosa ti sia successa» continuò «Devi affrontarla, prima di lasciartela alle spalle. Se continui a scappare in questo modo... arriverà il momento in cui non potrai mai più prendere di petto la cosa. Sarà troppo tardi.»
Rimasi impassibile, anche se dentro di me mi domandavo da dove Gioele stesse tirando fuori tutta quella saggezza. Avevo sempre pensato che fosse l'apoteosi dell'idiota donnaiolo, che non fosse capace di formulare una frase di senso compiuto senza infilarci dentro qualche ridicolo riferimento sessuale, e adesso se ne stava lì a fissare la strada e a pretendere di farmi da maestro di vita.
«Non sai niente di me» dissi «Quindi smettila di provare a darmi consigli.»
Lui sventolò una mano con noncuranza. «Ti dico quello che è successo a me, allora. Un giorno sono andato a casa del mio migliore amico senza preavviso e l'ho trovato a letto con la mia ragazza. Sembravano due contorsionisti. Gliele ho date, ma lui era più forte di me e mi ha mandato all'ospedale. Quando mi sono rimesso in forma, gliele ho date di nuovo. Da quel momento, ho smesso di starci male.»
Lo fissai attentamente, chiedendomi per quale assurdo motivo si stesse confidando con me.
«Stai dicendo che dovrei iniziare pure io a picchiare la gente?»
«No» ridacchiò «Sto dicendo che non dovresti sacrificare le persone che ami per quelle che non vuoi vedere.»
«Non c'è nessun altro modo» dissi, cupa.
Era strano stare lì a fare discorsi seri con un ragazzo che ritenevo un perfetto idiota. Ma forse durante tutti litigi che avevamo avuto nel corso della nostra convivenza, lui mi aveva capito meglio di quanto io avessi fatto in tanti anni. E questo mi fece sentire, per l'ennesima volta, una debole senza speranza.

 

Autostrada, meno tre ore all'arrivo

 

Ci eravamo fermati un'altra volta. Gioele voleva prendere l'ennesimo caffè e io volevo ritardare il più possibile il mio arrivo a casa. Ancora non sapevo come mi sarei comportata quando avessi visto mio cugino. Avrei dovuto far finta di niente, parlargli come se non fosse successo nulla. Sapevo che lui ce l'avrebbe fatta. Ormai non pensava più a me, aveva altre priorità. Io, invece? Non avevo altri pensieri per la testa. Non ce li avevo mai avuti. Ero rimasta ferma esattamente al punto in cui mi aveva lasciata mesi prima.
Non ero andata avanti.
Gioele camminava avanti e indietro, di fronte a me, pensieroso e mi chiesi per la prima volte che cosa diavolo passasse per quella mente bacata.
Non capivo perché si comportava sempre come un cafone stupido quando, evidentemente, non lo era. Ipotizzai che fosse un modo come un altro per proteggersi. Mi dissi che sicuramente la mia tecnica di protezione era migliore. Sorrisi pensando che non sarebbe certo bastato quello, per farmelo stare simpatico.
«Dammi una sigaretta» mi disse poi, avvicinandosi.
Io lo guardai sorpresa. «Tu non fumi» gli feci notare «A casa non mi fai fumare in cucina e prima hai rotto tanto perché ti si impregnavano i sedili.»
Lui sorrise enigmaticamente e mi porse la mano. Io, scuotendo la testa, gli passai una sigaretta e l'accendino.
Accese la sigaretta tirando una lunga boccata di fumo. Poi, mi voltò le spalle e si mise l'altra mano in tasca, con il capo alzato.
Stava guardando il cielo. All'orizzonte, si riuscivano a vedere i primi raggi del sole che sorgeva, coperto da un filo di nuvole. Sarebbe stata una settimana serena. Io avrei preferito ci fosse la pioggia.
«Non è stato un brutto viaggio, tutto sommato» disse Gioele, la voce un po' dispersa dal vento leggero.
«Siamo ancora a metà» constatai in un sussurro.
«Potremmo fare insieme anche il viaggio di ritorno» continuò «Martedì.»
«Cioè dovrei passare altre sette ore da sola con te?» domandai, con un sopracciglio alzato «Grazie dell'offerta, ma mi basta averti tra i piedi a casa.»
Lui scrollò le spalle. «Come ti pare, nervosetta.»

 

 

Paesello, arrivo

Qualcuno mi stava tirando i capelli.
Aprii gli occhi e mugugnai qualcosa, infastidita. Il sole era già alto nel cielo e ci misi un po' ad abituarmi a tutta quella luce.
«Svegliati, nervosetta» la voce di Gioele era bassa e inspiegabilmente dolce. Storsi il naso.
«Era il caso di svegliarmi tirandomi i capelli?» domandai contrariata, mettendomi seduta in una posizione normale.
«Forse no» rispose lui con un sorriso «Ma sicuramente era più divertente.»
Feci una smorfia e scossi la testa, profondamente seccata. «Dove siamo?» chiesi.
«Arrivati» disse lui, occhiali da sole sul naso e sorriso raggiante.
Io chiusi gli occhi, sentendo un improvviso senso di nausea pervadermi. Era troppo presto. Quel viaggio era durato troppo poco. Guardai fuori dal finestrino, ansiosa, sentendo la testa che mi si comprimeva dolorosamente e una morsa che mi stringeva le viscere. Riconobbi le casette colorate e la piazza, i bar e le edicole. Ero veramente arrivata a casa.
«Pensi che potremmo fermarci da qualche parte? Solo dieci minuti. Per favore» chiesi stupidamente, in preda al panico.
«No» rispose Gioele, categorico «Dimmi dove devo girare, piuttosto. Non so dov'è casa tua.»
«Fermiamoci, prima. Ti offro la colazione» lo supplicai.
Lui si scostò gli occhiali dagli occhi e se li mise sulla testa, tirandosi i capelli neri all'indietro. Mi guardò con un'espressione compassionevole che mi fece aumentare la nausea.
Era questo ciò che suscitavo nelle persone: compassione, pena. Tutto ciò mi disgustava.
Gioele scosse la testa e strinse le labbra. «Devi smetterla di fare così» disse serio «Adesso mi dici dove abiti, scendi dalla macchina e passi questa settimana con la testa alta.»
«Perché ti importa di queste cose?» domandai, gli occhi che mi si stavano per riempire di lacrime «Non siamo mai stati amici, io e te. E adesso ti comporti così.»
Lui scrollò le spalle. «Perché anche io facevo come te, prima. Non avrei mai smesso se qualcuno non mi avesse costretto.»
Deglutii e ingoiai lacrime amare, con la fronte aggrottata. Gli spiegai cupamente dove si trovasse casa mia e tentai di prepararmi al supplizio che mi attendeva, senza riuscirci.
Nella mia mente era passato poco più di un secondo, quando Gioele svoltò l'angolo. Io mi voltai e guardai dritto davanti a me. Quello che vidi mi spezzò il cuore e mi compresse lo stomaco in una morsa talmente forte che per poco non vomitai lì, in macchina.
Sul marciapiede, c'era Janis. Come avevo ipotizzato, adesso portava i capelli corti. Aveva gli occhiali da sole, una bella camicia infilata nei pantaloni che erano di un colore assolutamente neutro.
In braccio teneva un bambino.
Istintivamente presi il polso di Gioele.
«Gira!» esclamai «Metti la retromarcia e torna indietro!»
Lui strattonò il mio braccio, incredulo e spaventato. «Non posso ormai!» urlò arrabbiato «E toglimi le mani di dosso, altrimenti andiamo a sbattere, stupida!»
Lo lasciai e mi morsi il labbro, sentendo il sapore metallico del sangue in bocca. Janis ci vide e si fermò, lo sguardo fisso su di noi. Sul suo volto non c'era neanche l'ombra di un sorriso. Forse non sapeva che sarei arrivata proprio quella mattina.
Io chiusi gli occhi e contai fino a quindici, respirando profondamente. Quando li riaprii, Gioele si era già fermato.
«Chi è quello?» domandò, inserendo il freno a mano e spegnendo la macchina.
Janis era fermo davanti all'auto, con il bambino in braccio, e ci guardava. Lenticchia Due aveva cominciato ad abbaiare e a scodinzolare.
«Mio cugino» mormorai, cupa.
«E' a causa sua se stavamo quasi finendo contro il muretto?» domandò Gioele, ancora arrabbiato, dandomi un colpetto sul braccio.
«Sì.»
«Bene» disse lui, aprendo lo sportello «Scendi.»
Scesi dalla macchina lentamente, fermandomi davanti a Janis senza sapere cosa dire. Forse avrei dovuto fargli le congratulazioni per il matrimonio o dirgli che suo figlio era bellissimo. Aveva gli occhi di Gaia, ma i colori erano quelli di mio cugino.
Non dissi niente. Cercai di sorridere, ma non ce la feci.
«Ciao» disse poi Gioele, rivolto a lui. Non mi ero neanche accorta che era venuto vicino a me. «Io sono Gioele, il coinquilino di Mara.»
Mio cugino si portò gli occhiali da sole sopra la testa e lo fissò serio per un attimo. Sembrava un uomo adulto. La spensieratezza e sorrisi brillanti degli anni passati erano completamente svaniti dal suo volto.
«Janis» disse, stringendogli la mano. Poi posò lo sguardo su di me. Io lo salutai a voce bassa e gli voltai le spalle, andando ad aprire lo sportello a Lenticchia Due, che scese e cominciò a fargli le feste. Strano che si ricordasse ancora di lui.
«Avete fatto un buon viaggio?» chiese.
«Tutto bene, grazie» risposi, andando verso il portabagagli. Feci per prendere le valige, ma Gioele mi precedette lanciandomi occhiate strane.
«Faccio io» disse, aprendo il cofano della macchina.
«Non c'è bisogno» mormorai, tenendo lo sguardo basso.
Lui mi ignorò e prese la mia valigia e la borsa.
Lanciai uno sguardo alla mia casa e dall'assenza della macchina dedussi che non doveva esserci nessuno. Forse eravamo in ritardo e i miei erano già al ristorante.
Gioele andò con i miei bagagli davanti al cancello, in attesa. «Vuoi aprirmi o rimaniamo qui tutta la mattina?» sbottò.
«Li porto io dentro» dissi «Tu vai a casa, ti staranno aspettando.»
Gioele scosse la testa, un po' arrabbiato, ma in quel momento conoscerne il motivo era l'ultimo dei miei pensieri.
La mia attenzione era concentrata sul non guardare assolutamente mio cugino e suo figlio, che erano ancora fermi lì dove li avevo lasciati. Proprio mentre mi domandavo quando Janis avesse intenzione di andarsene, parlò. «Beh, io devo andare. È stato un piacere conoscerti, Gioele» disse, stringendogli nuovamente la mano da uomo perbene «Ci vediamo, Lenticchia.»
«Ciao» dissi.
Ci voltò le spalle ed entrò in casa sua.
Il mio molesto coinquilino si voltò a guardarmi, impaziente e scocciato. «Allora?» sbottò «Mi inviti a prendere un caffè, o no? Ti ricordo che ti ho scarrozzato in macchina per sette ore.»
Sospirai, distogliendo lo sguardo da mio cugino. Era diventato un uomo qualunque. Sposato con una donna che non amava, lavoratore presso suo padre e col simbolo della costrizione stretto all'anulare.
Era l'emblema di tutto ciò che avevamo sempre odiato. Febri l'avrebbe preso in giro.

 

Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta,
ma la gente che ci andava a bere fuori e dentro e tutta morta:
qualcuno è andato per età, qualcuno perché già dottore e insegue una maturità,
si è sposato, fa carriera, ed è una morte un po' peggiore...
Canzone delle osterie di fuori porta – Francesco Guccini

 

 

 

***

Sapevo che sarebbe successo questo ancora prima che finissi di scrivere "La triste storia di un vicolo cieco"... l'unica cosa che non sapevo, era se l'avrei mai battuto al computer. Alla fine, però, durante una nottata insonne più deprimente del solito, ho deciso di farlo. Probabilmente vi deluderò tutte, e mi dispiace per questo.
Metterò il secondo e ultimo capitolo in questi giorni, forse anche stasera!
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Un abbraccio 

   
 
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