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Autore: axellina87    19/08/2008    1 recensioni
Gli abitanti di quel posto non sapevano molte cose sui Janko, tranne che erano di origini giapponesi e che il più anziano, il signor Matsumoto, era arrivato in America molti anni fa, con sua moglie e le sue tre figlie. Poco più tardi però, la signora Yoshiko era morta a causa di una malattia, si diceva che avesse troppa nostalgia della sua terra d’origine, ma nessuno versò una lacrima per lei, né se ne interessò. Anzi, la maggior parte della gente in quella città pensava quasi che fosse stato un bene la morte della signora Janko, perché era una donna anormale. Giravano strane voci su quella famiglia, molti pensavano che fossero una misteriosa setta satanica, con poteri terribili, e che fossero in grado di chissà quali cose. Insomma, i Janko non furono mai ben visti fin dal loro arrivo, ma la situazione era veramente peggiorata qualche anno prima, quando decisero di mettersi contro tutti quanti per loro scelta…
Genere: Romantico, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Per Ale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parte prima.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 1

 

 

 

-OREN  JANKO-

 

 

 

« C’è una stella su nel ciel tutta per te…

Di notte guardo il ciel

Sto sveglia e mi domando…

Le stelle stan con me

Finché il buio c’è

Così sola non sarò

Perché qui, nel mio cuor,

non è certo un sogno

ed io lo so…non resterò

sola ancor… »

 

 

Oren interruppe la melodia che stava cantando e fissò il volto angelico del piccolo Alex, che adesso  dormiva tranquillamente fra le sue braccia. Era così piccolo… Voleva proteggerlo, sapeva di essere legata a lui come sentiva dentro di sé che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di renderlo felice.

Erano soli, nell’oscurità e nel silenzio più totale, ma tutto ciò non la preoccupava. Era invece pervasa da un senso piacevole di serenità e pace che raramente aveva provato. Accarezzò ancora una volta la fronte liscia del bambino, coperta da qualche ciuffetto di capelli neri proprio come i suoi, e non poté fare a meno di sorridere. Si chinò e lo baciò con dolcezza, senza svegliarlo.

In quel momento però, sentì come un vuoto allo stomaco. Rialzò il capo lentamente, con la spiacevole sensazione di sentirsi osservata; così, con il cuore che già le batteva più veloce, cercò con la coda dell’occhio l’altra presenza. Una parte di lei in realtà già sapeva di chi si trattava, ma sperava, con tutte le sue forze, che quella volta si stesse sbagliando. Sperava con tutte le sue forze che voltandosi, avrebbe guardato solo il vuoto e invece… Invece lui era lì.

La figura ammantata di nero, che quasi si mimetizzava con l’ambiente circostante, la fissava da un angolo poco lontano. Il volto era coperto dal cappuccio, così che neanche stavolta Oren poté capire chi fosse. Ai suoi occhi impauriti sembrava un gigante e non si muoveva di un millimetro. Se ne stava lì, più immobile di una statua, a guardarla, come sempre. Anche Oren ora lo fissava, cercando di dominarsi, di controllare i nervi, ma già i battiti del suo cuore erano di colpo accelerati. Sapeva di dover pensare in fretta a un modo per scappare, per mettersi al sicuro, per sfuggirgli, ma non riusciva a ragionare: era tutto inutile…   

Rimase invece seduta, con il piccolo ignaro di tutto in grembo, senza avere la forza e il coraggio di fare nulla.

E poi lui si mosse. Cominciò ad avanzare verso di lei, con passo lento e silenzioso, sembrava quasi che scivolasse sul pavimento. Oren strinse istintivamente il piccolo Alex a sé, quasi a sperare che questo bastasse a proteggerlo da quell’essere. Respirava affannosamente facendo muovere il petto su e giù, mentre fredde gocce di sudore le imperlavano la fronte e il viso. Avrebbe tanto voluto potersi muovere, correre via, ma il corpo non rispondeva, aveva le gambe inchiodate a terra. Pensò che almeno avrebbe potuto parlargli, supplicarlo di andarsene, implorarlo di lasciarli in pace, ma nemmeno questo riusciva a fare: si accorse di non riuscire nemmeno a schiudere le labbra, era come se le avesse incollate. Tremava. Il terrore si era impadronito di lei, insieme alla disperazione di perdere Alex e non fare niente per impedirlo. La sagoma scura era ormai vicinissima a lei, tese la braccia in avanti, lasciando fuoriuscire le mani bianche dal mantello. Le vedeva chiaramente nel buio, protese verso il bambino, bramose di toccarlo, di prenderlo. Oren scosse impercettibilmente la testa, con le lacrime agli occhi. Non voleva lasciarglielo fare, ma nello stesso tempo sapeva già che non aveva scelta, non poteva sfuggire al destino, aveva assistito a quella scena centinaia volte e conosceva bene il finale. Tuttavia non riusciva a capacitarsi, e piangeva, piangeva… di dolore, di rassegnazione, di odio. Odio verso quell’essere che gli portava via la cosa più cara che avesse, odio verso se stessa, che non era in grado di impedirlo e stava a guardare impotente.

Il piccolo Alex si era svegliato. L’uomo mascherato ormai era a pochi centimetri, lo sfiorò con le dita e bastò questo per farlo urlare a squarciagola, ma Oren non lo sentiva. Lo vedeva solo dimenarsi, invano. Come poteva un neonato lottare? Come poteva difendersi? Era compito suo salvarlo, ma non ne era capace… Le lacrime le rigavano le guance mentre la figura ammantata di nero le portava via il suo Alex, tranquillamente, senza problemi. L’aveva preso con estrema facilità e ora se ne stava davanti a lei, con il suo bambino fra le braccia, incurante dei suoi strilli, quasi aspettando che lei facesse qualcosa per fermarlo, in segno di sfida. Ma Oren non fece niente. Rimase immobile, incapace di muoversi, con la faccia stravolta dalla sofferenza e dall’angoscia. E anche se non poteva vederlo in volto, sapeva che stava sorridendo prima che si voltasse per andarsene. Sapeva che si stava prendendo gioco di lei, conscio della sua superiorità.

Le lacrime le offuscavano la vista, ma quell’uomo se ne stava andando. Il silenzio era totale, irreale, ma sapeva che il piccolo stava ancora urlando per invocare il suo aiuto. Ad un certo punto, spinta dal folle desiderio di salvarlo, cercò di alzarsi, ma le gambe le tremavano troppo, così cadde sulle ginocchia. Strinse i pugni contro il pavimento, digrignando i denti, mentre la sagoma scura si allontanava sempre di più fino a che non riuscì più a vederlo. Fu allora che spalancò la bocca per gridare, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono.

 

 

*  *  *

 

 

Oren scattò a sedere sul letto, lasciandosi sfuggire un mezzo urlo. Era stravolta, con gli occhi spalancati in un’espressione di paura, madida di sudore, il respiro ansante. In una mano stringeva il lenzuolo arancio con forza, tanto che le nocche le erano diventate bianche e respirava a fatica. Ci mise qualche secondo a rendersi conto che si trovava nella sua cameretta, nel suo letto, al sicuro. Spostò lo sguardo vacuo sulla scrivania sepolta sotto lo stereo e i cd di suo fratello, sul piccolo guardaroba,  la parete costellata di foto e infine sul letto di Ethan, che russava beatamente con le cuffie nelle orecchie, segno che non aveva fatto caso al suo brusco risveglio e aveva di nuovo scaricato le pile del lettore cd .

Tirò un sospiro e si appoggiò allo schienale del letto. Ormai era calma, ma il cuore le batteva un po’ più veloce del normale: da un po’ di tempo era così, in ansia costante, sempre inquieta. Forse era dovuto proprio a quell’incubo, che si ripeteva da diverse settimane. Aveva visto talmente tante volte quella scena nei suoi sogni che la ricordava alla perfezione, in ogni minimo particolare, ma avrebbe voluto dimenticarla. Cominciava a preoccuparsi sul serio… e se non fosse soltanto frutto della sua immaginazione? Forse c’era un significato dietro tutto questo, una specie di avvertimento. Sapeva che a sua nonna era capitato spesso di avere dei sogni premonitori, ma lei era speciale. “No” pensò scuotendo la testa “E’ solo che sono fin troppo apprensiva…Mi sto preoccupando inutilmente.”

Si alzò dal letto. Dalla finestra aperta entravano già i primi raggi di sole, ma doveva essere molto presto, anche a giudicare dal silenzio che regnava in casa. Non aveva più sonno, allora decise di uscire, l’aria fresca le avrebbe fatto bene a levarsi dalla testa quel terribile incubo. Superò suo fratello, che ormai stava quasi per cadere dal letto, e aprì l’armadio per scegliere i vestiti da indossare, anche se il suo guardaroba era piuttosto uniforme. I capi erano prevalentemente neri, il suo colore preferito. Optò per un paio di jeans a vita bassa, stracciati sulle ginocchia e una maglietta cortissima, che lasciava tutto il ventre scoperto. Oren non era molto alta, ma aveva le forme accentuate, e ciò la rendeva una ragazza non poco appariscente e il suo modo di vestire contribuiva a non farla passare inosservata; non che la cosa la toccasse più di tanto: che senso aveva essere accettabile esteticamente se poi per tutto il resto la gente non ti considerava nemmeno una vera persona? Si guardò allo specchio aggiustandosi i capelli ricci che le arrivavano appena sopra le spalle, modellando il ciuffo davanti in modo che le coprisse parte della fronte. Era molto carina, sul volto si notavano le sue origini metà giapponesi negli occhi leggermente allungati e neri come la pece, ma incredibilmente vivi, che riflettevano la sua inquietudine.

In punta di piedi, uscì senza fare rumore.

 

Per strada non c’era quasi nessuno, a quell’ora si poteva godere anche di un leggero venticello che mancava invece durante il resto delle giornate di quella torrida estate. Nonostante facesse così caldo Oren non rinunciava ai suoi fedeli anfibi, vecchi e consumati, ma da cui non riusciva proprio a separarsi. Lanciò loro uno sguardo mentre camminava a passo lento e trattenne un sorriso: era incredibile come desse importanza a queste cose, quanto avessero valore i ricordi nella sua vita. Forse per il semplice fatto che aveva bisogno di sentire che tutto aveva un senso, che c’erano persone e cose che non l’avrebbero mai abbandonata.

Mentre la sua mente vagava, si avvicinava a un bar posto proprio all’angolo della strada. Un ragazzo dai capelli rossicci stava pulendo i tavoli con aria annoiata; come vide Oren, rimase interdetto, tanto che la sigaretta che stava fumando gli cadde per terra. Restò così, a fissarla, indietreggiando quel tanto che le sue gambe tremanti glielo permettevano, fino a che Oren non fu passata. Nello stesso momento, una donna affacciata a una finestra in alto, si affrettò a ritirarsi in casa e chiudere le imposte. Oren non fece una piega e continuò per la sua strada, ma nel suo cuore si era incupita. Era abituata a questo genere di situazioni, si ripetevano ormai da molti anni, eppure non riusciva proprio a evitare di starci così male. Purtroppo non poteva farci niente: le cose andavano così a Raven City se ti chiamavi Janko.

 

Gli abitanti di quel posto non sapevano molte cose sui Janko, tranne che erano di origini giapponesi e che il più anziano, il signor Matsumoto, era arrivato in America molti anni fa, con sua moglie e le sue tre figlie. Poco più tardi però, la signora Yoshiko era morta a causa di una malattia, si diceva che avesse troppa nostalgia della sua terra d’origine, ma nessuno versò una lacrima per lei, né se ne interessò. Anzi, la maggior parte della gente in quella città pensava quasi che fosse stato un bene la morte della signora Janko, perché era una donna anormale. Giravano strane voci su quella famiglia, molti pensavano che fossero una misteriosa setta satanica, con poteri terribili, e che fossero in grado di chissà quali cose. Insomma, i Janko non furono mai ben visti fin dal loro arrivo, ma la situazione era veramente peggiorata qualche anno prima, quando decisero di mettersi contro tutti quanti per loro scelta…

Ma Oren era arrivata a destinazione. La casa di suo nonno sorgeva in un terreno verde che contrastava straordinariamente con la periferia grigia circostante. La casa era molto piccola, simile a una pagoda, ma dotata solo del piano terra e una piccola mansarda; era di un bel celeste distensivo e ben curata, come il giardino circostante, dove la mano del nonno era evidente nelle piantine, nelle aiuole, nei cespugli di rose, e soprattutto nei bonsai perfetti. Il suolo era comunque occupato per la maggior parte da un edificio ben più grande, a due piani, dalla caratteristica forma di una cupola. Era stato dipinto di azzurro anch’esso, con grandi finestre ai lati e un’insegna proprio sulla porta, che segnava a caratteri cubitali il nome Janko. Era la palestra di Arti Marziali gestita da Matsumoto, ma era frequentata quasi esclusivamente dai suoi parenti. Quello era il posto preferito di Oren in assoluto, il luogo dove più si sentiva tranquilla, in pace, il posto dove aveva passato la maggior parte della sua vita, dove aveva passato le sue esperienze più belle, dove aveva imparato a combattere insieme alle persone più importanti, dove aveva appreso le Arti Marziali che erano la sua più grande passione, il luogo dove si sentiva sicura…

Guardando l’insegna sorrise piena di orgoglio. La sua famiglia era unica al mondo e per averla valeva la pena fare tutto, anche mettersi contro una città intera.

 

La poesia iniziale è presa dal film Hook-Capitan Uncino di Spielberg. È la canzoncina che canta la figlia di Peter J

   
 
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