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Autore: Hermione Weasley    24/06/2014    7 recensioni
Mi hanno sparato, pensò incredula, portandosi una mano alla spalla. Il dolore la investì nel momento esatto in cui si accorgeva di avere una freccia conficcata nella carne. Dischiuse le labbra in un'espressione di muto orrore, facendo saettare lo sguardo verso l'alto, ai tetti che incombevano sulla strada.
Un lampo improvviso disegnò nel cielo nero la sagoma di un uomo.
[Clint x Natasha] [Slow Building] [Completa]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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7

 

A thousand silhouettes dancing on my chest
No matter where I sleep, you are haunting me

(Of Monsters and Men - Silhouettes)

 

 

“E' proprio sicura di non potermi spingere fino a casa?” Sfoderò l'ennesimo sorriso a trentadue denti in direzione di Emily, l'infermiera che Clint aveva metaforicamente torturato in quegli ultimi cinque giorni. La donna si era premurata di spingere la sua sedia a rotelle fino allo spiazzo antistante l'ospedale affiliato allo SHIELD e lì sembrava avere ogni intenzione di abbandonarlo: il piede sinistro ingessato, il pericolo trauma cranico scampato, non c'era alcun motivo per cui trattenerlo oltre.

“No, mi dispiace, signor Barton,” ormai conosceva i suoi educatissimi rifiuti a memoria, “la reception le ha chiamato un taxi. Sarà qui a momenti,” gli assicurò ricambiando il sorriso. “Stare a casa le farà bene.”

A Clint venne da ridere: se la donna avesse saputo quanto visceralmente detestasse starsene solo nel suo appartamento, probabilmente avrebbe riflettuto due volte prima di parlare. Data la lieve entità dell'incidente che l'aveva visto coinvolto durante la sua ultima missione (in solitaria, di nuovo) a Caracas, gli era stata assegnata una stanza insieme ad altri tre pazienti, anch'essi dipendenti dello SHIELD: Gary – tecnico informatico – si era gonfiato come una mongolfiera per via di una reazione allergica a dalle arachidi ben nascoste in un cono gelato confezionato, Jimmy – il responsabile degli archivi – era in cura per delle infiltrazioni al ginocchio, mentre Vincent – un veterano della sezione corrispondenza – si stava riprendendo da un'operazione di sostituzione dell'anca. Una compagnia niente male.

Non appena avevano scoperto chi fosse e cosa facesse, l'avevano accolto con entusiasmo, subissandolo di domande riguardo il lavoro sul campo e il brivido dell'attività spionistica (cosa c'era di più elettrizzante che precipitare da tre piani d'altezza e schiantarsi sul cofano di una vecchia berlina? In realtà era un miracolo bello e buono che non ci fosse rimasto secco). Clint, che aveva inizialmente soddisfatto la loro curiosità, aveva finito per ricorrere alla scusa della super-riservatezza di certe informazioni per potersi godere un po' di sacrosanta pace. Preferiva stare ad ascoltare gli sproloqui di Vince su quella volta in cui Howard Stark gli aveva straordinariamente stretto la mano (aneddoto che cambiava forma ad ogni reiterazione), che dover raccontare la sua vita a tre perfetti sconosciuti.

La convivenza forzata gli era risultata odiosa... fino a quel momento. Il sole a picco sul parcheggio dell'ospedale, le macchine e le ambulanze che andavano e venivano caricando o scaricando pazienti sembravano insistere per riportarlo nel tran tran della vita quotidiana. Al suo appartamento disordinato e deserto, al periodo di fermo che gli sarebbe toccato nell'attesa che la frattura al piede si rimarginasse. Non era affatto sicuro di poter sopportare l'esclusiva compagnia di se stesso per, quanto? Un mese?

“Arrivederci, signor Barton,” non fece in tempo ad interrogare l'infermiera che quella se n'era già andata, non prima di avergli offerto un paio di stampelle e un casto bacio sulla guancia. Se quest'ultimo lo sorprese, non fu comunque sufficiente a migliorare il suo umore già compromesso.

Sbuffò sonoramente. Si sentiva un completo idiota, lì seduto davanti all'ingresso, solo come un deficiente. Occhio d'aquila colpisce ancora, pensò lugubremente, rammentando fin troppo bene l'appellativo che Gary aveva tanto insistito per appioppargli (Clint era stato lì lì per scagliargli una nocciolina dritta in gola e godersi lo spettacolo di lievitazione).

Avrebbe chiamato Phil se l'agente supervisore non fosse stato impegnato in certe indagini interne allo SHIELD: la nomina del nuovo vice-direttore era imminente, i vertici in subbuglio, l'organizzazione attualmente più simile ad un covo di politicanti inviperiti che di silenti protettori del mondo. La cosa non lo interessava minimamente, quel che gli importava era sapere che Coulson era disperso nella burocrazia internazionale, da qualche parte nel mondo.

Appoggiò le stampelle trasversalmente sui braccioli della sedia, spingendosi per qualche metro lungo il marciapiede. La malsana idea di raggiungere il suo appartamento in quelle condizioni stava prendendo forma... quanto sarebbe potuto essere difficile, comunque? Sicuramente i passanti avrebbero avuto pietà di un povero invalido e lui ne avrebbe approfittato per recuperare gli allenamenti alle braccia a cui aveva inevitabilmente dovuto rinunciare.

“Clint!”

La voce lo costrinse a voltarsi alla sua destra: Natasha si sbracciava in prossimità di quella che aveva tutta l'aria di essere una delle auto che lo SHIELD metteva a disposizione dei suoi addetti ai lavori: sobria e nera.

“Natasha?” Non si preoccupò di nascondere la propria sorpresa, mentre la ragazza lo raggiungeva, prendendo immediatamente le redini della situazione. Metabolizzando poco a poco quell'insperata apparizione, il sollievo cominciò a farsi strada nel suo stomaco.

“Pensavo di trovarti in condizioni peggiori,” commentò lei, senza esitare a spingerlo verso la macchina.

“Che ci fai qui? Non dovevi essere in Grecia?”

“Macedonia,” lo corresse, abbandonandolo sul bordo della strada per aprire la portiera del sedile posteriore. “Ho finito prima del previsto.”

Clint si limitò a studiare le sue mosse, quasi non lo riguardassero, affatto convinto dall'intera situazione. Era passata più di una settimana dall'ultima volta che si erano rivolti la parola, e ancora di più dalla loro ultima missione. Nonostante gli ottimi risultati che avevano conseguito in precedenza, non sembrava che Fury fosse intenzionato a ripetere l'esperienza.

“E' stato Phil a chiamarti?”

Il capo di Natasha fece capolino oltre l'orlo del finestrino, un'espressione indecifrabile sul volto (più passava il tempo e più si affinavano le sue capacità di dissimulazione).

“Già,” confermò infine, procedendo con l'aiutarlo ad alzarsi dalla sedia a rotelle e sistemarsi all'interno dell'auto. “Non ce l'ha fatta a venire.”

“Oh, lo so. E' da qualche parte a sentire dei buffoni in giacca e cravatta discutere di alleanze ed interessi da rispettare e bla bla bla,” si appoggiò a lei, scivolando sul sedile posteriore con qualche difficoltà. Stupido piede del cazzo.

“Se il direttore prende la decisione sbagliata, rischiamo di pagarne tutti le conseguenze,” gli rammentò lei.

“Come se non lo stessimo già facendo,” asserì sarcasticamente prima che la portiera non si chiudesse dietro di lui. Osservò mentre Natasha riportava la sedia all'ingresso dell'ospedale e poi tornava rapidamente sui suoi passi, prendendo il posto di guida. Clint si rese conto solo in quell'istante che non era contemplata la presenza di un autista di professione.

“Ce l'hai la patente?”

“Cosa sei, mio padre? Allacciati la cintura,” un appunto ironico e un ordine.

“No, sono il tuo passeggero storpio.”

“Piantala, sono perfettamente in grado di guidare un'automobile,” tagliò corto, “non sarà peggio che sfondarne una cadendo da dieci metri d'altezza.”

“Miss Tatto a rapporto.”

“Ascolta, Big Foot, da che parte devo andare?” Gli ci volle un secondo di più per realizzare che Natasha non sapeva dove abitasse. Certo, le aveva menzionato Brooklyn, ma non molto altro.

“Potevi dirlo subito che è tutta una messinscena per scoprire dove vivo.”

“Avrei potuto chiamare Coulson.”

“Phil non te l'avrebbe detto.”

“Mi hai preso per una sprovveduta?”

“Quello è l'ultimo aggettivo che ti affibbierei.”

“Bene. Per dove?”

“Parti, ti indicherò via via la strada.”

La ragazza mise in moto, scoccandogli un'occhiata carica di scetticismo attraverso lo specchietto retrovisore.

“Certo che già che c'eri potevi farti prestare una limousine.”

Il contraccolpo della partenza (volutamente brusca, sospettò) lo mandò a sbattere contro il sedile del passeggero.

 

*

 

“Cos'hai contro gli ascensori?” Natasha non aveva smesso di brontolare da quando aveva scoperto che l'edificio in cui Clint abitava non ne era provvisto. “E ovviamente stai all'ultimo piano,” sottolineò sarcasticamente, aiutandolo a raggiungere il divano.

“Ci abbiamo messo solo dieci minuti per salire!”

Solo.”

“Mi tiene in forma.”

“Sì, scommetto che sono le scale che fanno la differenza.”

La ragazza si stava guardando curiosamente attorno, prendendo sistematicamente in esame ogni singolo angolo del salotto-cucina-soggiorno.

“Benvenuta nella mia umile dimora,” decantò pomposamente. “Le uscite sono quella principale, la scala antincendio, lo scivolo dell'immondizia e... il tetto, se sei in vena,” le fece un rapido elenco, alzando le mani a mo' di resa all'occhiata irritata che ricevette in risposta. “Ti ho risparmiato la fatica,” si strinse nelle spalle. Aveva imparato a riconoscere l'espressione concentrata che sfoggiava quando entrava per la prima volta in un luogo nuovo: individuare le possibili vie di fuga era la regola numero uno del manuale della perfetta spia.

“Hai per caso un volantino con le norme di sicurezza da distribuire ai tuoi ospiti?”

“Tipo in aereo?”

“Tipo in aereo.”

“No, di solito i miei ospiti se ne escono dalla porta, sbattendola.”

“Terrorizzati dal caos?”

“Spero di sì. Lascio in giro calzini sporchi apposta.”

Natasha, le braccia intrecciate al petto, lo stava osservando con aria valutativa.

“Dovresti smetterla, lo sai?”

“Puoi essere più precisa?” Faceva talmente tante cose per irritare la gente che era difficile ricordarsi cosa seccasse chi, nello specifico.

“Di sminuirti.” Il modo in cui aveva pronunciato quell'ultima parola, fissandolo dritto negli occhi, gli procurò un brivido lungo la schiena. Sentiva il disperato bisogno di allentare la tensione e diradare il disagio con una battuta stupida, ma si impegnò per trattenersi il più possibile. Non rovinare anche questo, Clint. Non rovinare anche questo.

“Quello è il tuo primo arco?” La domanda di Natasha era arrivata a distoglierlo dalle sue momentanee difficoltà. “O l'hai rubato da un museo archeologico?” Gli stava indicando il sottile arco di legno appeso sopra il divano.

“E' il mio primo arco conservato in vista dell'apertura di un museo,” la corresse.

“Conti di diventare famoso?”

“Qualcosa del genere.”

“Il lavoro delle spie è un lavoro senza gloria.”

“Ci sono un sacco di spie famose,” ci tenne a ribattere.

“Allora non sono buone spie.”

Clint non era del tutto sicuro che Natasha si sbagliasse.

 

*

 

La suoneria del suo cellulare rimbombò nella sala conferenze praticamente deserta. Bevve un lungo sorso d'acqua prima di decidersi a rispondere.

“Coulson,” la voce del direttore Fury non tardò a raggiungerlo dall'altro capo del telefono.

“Direttore.”

“Come va con i nostri adorati cugini oltreoceano?”

“Non bene,” fu costretto a confessare, facendo vagare lo sguardo sulle sedie vuote che lo circondavano praticamente a perdita d'occhio. “Hanno disertato l'incontro.”

“Figli di puttana.”

“Più o meno quello che stavo pensando.”

“Hanno spiegato perché?”

“Non ce n'è stato bisogno. Boris Shostakov è la nostra concorrenza.” Una delle tante.

“Il magnate russo dell'energia?”

“Proprio lui, signore.”

“Credi che abbiano intenzione di scendere a compromessi?”

“E' possibile. Lo SHIELD non ha fatto niente per facilitargli la vita.”

“Fino ad ora.”

“Fino ad ora,” confermò.

“A che punto siamo con Barton e Romanoff?”

“Ci sto lavorando, signore.”

“Abbiamo meno tempo del previsto. Avvertimi quando Barton potrà ritornare operativo.”

“Sarà fatto.”

“Chiamami se ci sono cambiamenti.”

“Sissignore.”

 

*

 

Natashka? Natashka svegliati.”

Riaprì gli occhi, sentendosi scrollare leggermente. Nadja, piccolissima nella sua enorme camicia da notte sdrucita, era in piedi accanto al suo letto. Gli occhi accesi di paura.

Cos'è successo?” Un bisbiglio nel silenzio. “Se ti trovano qui ti puniscono.”

Nessuna delle ospiti della Red Room aveva il permesso di uscire dalla propria stanza dopo le dieci di sera, a meno che non fosse uno dei loro supervisori a prelevarle.

Inessa mi ha rubato di nuovo Raisa.”

Strinse le labbra, lo stomaco serrato da un nodo doloroso. Raisa, la bambola di pezza che Nadja teneva nascosta sotto il cuscino, era l'ultimo cimelio della sua vecchia vita. La bambina aveva insistito – Natalia conosceva la storia a memoria – che era stata sua madre a regalargliela per il suo quarto compleanno, prima che la sua famiglia fosse stata costretta ad abbandonarla ad un orfanotrofio, colpevoli le ristrettezze economiche. Nadja era convinta che, finché Raisa fosse rimasta con lei, ci sarebbe stata una piccola possibilità che sua madre facesse ritorno, che l'avrebbe riconosciuta nonostante gli anni trascorsi proprio per via di quel gioco liso e consunto. Natalia sapeva fin troppo bene che quelle non erano altro che le inutili e pericolose illusioni di una bambina di sei anni, ma non era riuscita a smentirla. A dire la verità, la invidiava. Non era sicura che quella bambola le fosse realmente appartenuta, un tempo, ma era comunque qualcosa a cui aggrapparsi. Qualcosa che non aveva a che fare con la Red Room. Qualcosa di reale.

Va bene,” decise, mordendosi a sangue le labbra. “Torna in camera tua, vado a prenderla io.”

Sei sicura?”

Vai.”

Grazie Natashka.” Si sporse per darle un bacio sulla guancia, affrettandosi ad uscire e sparire nella totale oscurità dell'area dormitorio.

Natalia contò alla rovescia da dieci a zero prima di decidersi a scendere dal letto. Voleva bene a Nadja, e non aveva esitato ad offrirle il suo aiuto, ma adesso aveva paura.

Scivolò fuori dalla sua stanza, un'ombra tra le ombre, sfiorando la parete con una mano per individuare la porta della camera di Inessa. Non le piaceva, Inessa: era la più alta e la più forte, quella che otteneva sempre i risultati migliori nei test, di qualsiasi genere. Era la preferita del loro supervisore, Alexander, e approfittava della sua posizione per infierire sulle bambine più piccole. Nonostante il terrore che le metteva addosso, Natalia era l'unica in grado di tenerle testa.

Aprì la porta della sua stanza, facendo il minor rumore possibile... non c'era nessuno. Inessa doveva essere occupata con Alexander, da qualche parte. Non perse tempo, mettendosi a cercare la bambola praticamente alla cieca. La trovò nascosta sotto al letto. Si affrettò ad uscire e a raggiungere la stanza di Nadja.

Ecco qui,” le riconsegnò la bambola, “adesso dormi.”

Ti ha fatto male?”

No. Dormi.”

Grazie, Natashka.”

Prego.”

Uscì dalla sua stanza che era già mattina, o almeno credeva. Non ricordava di aver dormito. Figure di bambine di cui aveva dimenticato il volto apparivano e sparivano insieme alle luci intermittenti del soffitto. Man mano che procedeva l'aria si faceva sempre più rarefatta.

Inessa sostava alla fine del corridoio, sorrideva sinistramente mentre Alexander, alle sue spalle, le teneva una mano sul collo. Natalia si sentiva soffocare, avrebbe voluto tornare indietro, fermarsi... ma una forza invisibile sembrava sospingerla verso Inessa, verso lo sbocco che l'avrebbe immessa nel refettorio. Si preparò all'impatto coi due che le sbarravano la strada e che non sembravano volersi spostare... ma non arrivò mai. Passò loro attraverso, quasi fossero stati dei fantasmi.

L'odore rancido di cibo scaduto le ferì le narici.

Un corpo dondolava sopra i tavoli della mensa.

Natalia cadde a terra, le mani alla gola, annaspando alla disperata ricerca di aria, il terrore a scuoterla dalla testa ai piedi.

Nadja era impiccata al soffitto, la bambola infilzata nel palmo della sua mano con un grosso chiodo arrugginito.

Gridò con tutto il fiato che aveva in corpo.

 

“Natasha! Natasha svegliati! TASHA!”

Gli occhi sbarrati, non riusciva a vedere nient'altro che nero. I polmoni le bruciavano e mani estranee la stavano scuotendo. (Nadja!)

“Respira!”

Stava soffocando. (No, lasciami. Lasciami!) Si divincolò furiosamente, gattonando sul pavimento alla cieca. Al contatto tra il suolo e i palmi delle mani, un'improvvisa consapevolezza trafisse la spessa coltre di nebbia dell'incubo: non era il pavimento della Red Room. (Non sono alla Red Room. Non sono alla Red Room). Fu costretta a ripeterselo ad oltranza, finché le parole non le scesero nello stomaco, gelide e rassicuranti insieme.

Restò immobile, accucciata a terra, le braccia a coprirle la testa (la prima cosa che aveva imparato). Il petto le si alzava e abbassava in rapida sequenza, facendo arretrare la paura ad ogni esalazione.

“T-Tasha?”

Le ci volle un lunghissimo attimo per collocare quella voce, darle un volto.

Clint.

“Che cazzo è appena successo?”

Riaprì gli occhi proprio mentre l'uomo si sporgeva verso di lei: seduto a terra, il piede ingessato e ingombrante davanti a lui. Non riuscì a reprimere l'impulso che la spinse a ritrarsi in fretta e furia.

“Non mi toccare,” biascicò, una supplica più che un ordine.

Clint abbassò le mani e annuì. “Va bene.”

Rimasero entrambi immobili, il respiro accelerato, le mani fredde e lo stomaco in subbuglio. Natasha indietreggiò appena, trovando la parete con la schiena. Vi aderì, la solidità del muro a rassicurarla, poco a poco. Le risultò impossibile sostenere lo sguardo dell'uomo: qualcosa le diceva che quell'intera situazione non gli era poi così estranea. Non voleva saperne niente, non in quel momento. Si prese il viso tra le mani, socchiudendo gli occhi ancora pieni di panico e sonno.

“Cos'è successo?” Il bisbiglio di Clint fu appena udibile.

“Succede ogni volta... o-ogni volta che dormo in un posto che n-non conosco.”

“Avrei dovuto svegliarti,” riconobbe immediatamente il dispiacere (forse il senso di colpa) nella sua voce. “Ti sei addormentata a metà del quinto film... di Nicolas Cage.”

La considerazione del tutto superficiale la consolò più di tutto il resto: gli anni della Red Room si erano conclusi. Non doveva più vivere in un bunker umido e spoglio, in stanze che assomigliavano più a celle che a camere da letto. Nessuno le avrebbe fatto visita non richiesta durante la notte, nessuno aveva il potere di toccarla e obbligarla all'obbedienza al tempo stesso. Nessuno poteva strapparle i suoi ricordi o le persone a cui voleva bene... o... o almeno credeva. Rialzò gli occhi su Clint, fissandolo con un'intensità tale che, per un misero istante, fu quasi convinta di potergli vedere attraverso. Leggere i suoi pensieri.

Dovevano essere state le sue urla a svegliarlo, l'algida e sarcastica Natasha si sveglia nel bel mezzo della notte, gridando come una bambina.

Guardò prontamente altrove: in fin dei conti non ci teneva minimamente a sapere che cosa gli passasse per la testa.

“Chi è Nadja?”

“Una mia...” amica? Conoscente? Compagna? “Una persona che conoscevo.”

“Che le è successo?”

“E' morta,” l'hanno uccisa, è diverso. “Per una bambola,” aggiunse a voce bassissima.

“Mi... m-mi dispiace,” Clint aveva trattenuto il fiato fino a quel momento.

“Era morta nel momento esatto in cui l'hanno portata alla Red Room,” si ritrovò a dire, rispondendo ad un'urgenza che non sapeva di avere. “Le più deboli e le più stupide... q-quelle morivano subito.”

“Quanti anni avevi?”

“Non lo so,” ammise, “sette o forse otto.”

“Cazzo.”

Nadja era praticamente sua coetanea, eppure aveva avvertito fin da subito, nettissimo, il bisogno di proteggerla. Da tutto e tutti. Sapeva benissimo che non ce l'avrebbe fatta: forse era per questo che l'aveva presa in simpatia, il motivo per cui si era accanita contro ogni buon senso, con le unghie e coi denti pur di aiutarla ad andare avanti. Capì in seguito che era una sfida persa in partenza. Le cose erano cambiate radicalmente dopo quella macabra scoperta in refettorio: nel suo ricordo non aveva urlato, non un filo di voce. Aveva ricacciato indietro la nausea, aveva fatto appello anche al più piccolo briciolo di autocontrollo che non sapeva neanche di possedere, per sforzarsi di ostentare assoluta indifferenza. Insieme ad un piatto di uova fredde e un mezzo toast bruciacchiato, Natasha aveva ingoiato il dolore per la perdita della sua unica amica e si era ripromessa di non ricaderci mai più. Voler bene alle persone non portava a niente di buono: erano punti deboli, fianchi scoperti in cui il nemico avrebbe facilmente potuto affondare la sua lama. Tutte le volte che si era affezionata a qualcuno, quel qualcuno ne aveva pagato le conseguenze a caro prezzo. Era pericolosa, Natasha, la morte la seguiva ovunque andasse, manifestandosi in sembianze diverse, forse, ma pur sempre presente.

La morte era la sua ombra: c'era stato un tempo in cui aveva creduto di essere un tutt'uno con quella. Fantasmi che andavano ad aggiungersi ai cadaveri che aveva già sulla coscienza: un conto che ammontava a più del triplo dei suoi anni. Le persone entravano e uscivano dalla sua vita senza lasciarvi traccia, ma non loro. Tutti i suoi morti, non dubitava che sarebbero rimasti per sempre con lei.

“E' meglio che me ne vada,” mormorò, la voce appena distinguibile nel silenzio. Come diavolo le era saltato in mente di cedere alla tentazione? Perché si era lasciata convincere da Coulson? No, anzi, l'agente supervisore non aveva neanche dovuto insistere eccessivamente. Non ci aveva riflettuto più di tanto: Clint aveva bisogno di qualcuno, Clint era da solo, Clint non aveva altro che lei. Credeva forse di fargli un favore ad immischiarsi nella sua vita? Non era forse già abbastanza complicata? Che avrebbe potuto guadagnarci, comunque? Sapeva di essere come un buco nero: avrebbe risucchiato tutti coloro che si fossero azzardati ad orbitarle troppo vicino. Li avrebbe fagocitati e ne avrebbe pianto la dipartita. Un nuovo fantasma per la sua collezione.

“No, resta, aspetta che sia mattina.”

“No.” Si affrettò ad aiutarlo a rimettersi dritto e poi sul divano. Toccarlo fu come mettere le mani sul ferro incandescente.

“Mi dispiace, Tasha.”

“Non è colpa tua.”

“Avrei dovuto svegliarti, ma dormivi così profon -”

“Smettila, Barton,” le parole le uscirono con più astio del previsto. “Il peso del mondo non è sulle tue spalle. Questo è il mio problema, non il tuo.” Non lo stava più guardando.

“Tu sei un mio problema.”

Lo ignorò (o forse se l'era inventato? Aveva parlato davvero?) assicurandosi che avesse tutto l'occorrente a portata di mano: le stampelle, il cellulare, il telecomando. Non si dette neppure il tempo di indossare il giubbotto di pelle recuperato sullo schienale della vecchia poltrona su cui si era assopita, prima di inforcare la porta e andarsene. Fece le scale di corsa, scendendo i gradini due, tre alla volta.

La luce gelida della notte la inghiottì.

 

*

 

“Posso chiederle perché, agente Romanoff?”

Dacché era entrata nel suo ufficio, Maria Hill non aveva ancora rialzato gli occhi dal plico di carte che stava sfogliando. Natasha si irrigidì: Fury non le avrebbe mai chiesto una spiegazione del perché sentisse il bisogno di chiedere che le fosse assegnato un nuovo partner.

“L'agente Barton è più che capace,” premise (ci teneva a sottolineare quel particolare punto), “ma non credo che la nostra collaborazione sia la scelta più giusta.”

“Agente Romanoff,” la donna si era finalmente decisa a degnarla di uno sguardo, “è compromessa?” Perché avrebbe dovuto prendere il capriccio di una neo-operativa in considerazione se non riusciva neanche a darle un valido motivo per farlo?

“Non so neanche che cosa significhi,” rispose seccamente, nascondendo abilmente il disagio.

“Non siamo un'agenzia d'incontri. Se non può indicare un problema specifico che ha riscontrato lavorando con l'agente Barton, non ci sono le basi per una richiesta del genere.”

Una sfilza di motivazioni, una meno plausibile dell'altra, si susseguirono nella sua testa. Se fosse stata sincera si sarebbe attirata le ire della Hill, e a mentire non ci pensava neanche.

“Quando tornerà il direttore Fury?” Chiese, arrendendosi ormai all'evidenza dei fatti.

“Quando sarà tempo di tornare.”

Fu costretta a fare appello a tutto il suo autocontrollo per non mandarla al diavolo.

“Se non c'è altro,” alluse, più che pronta ad andarsene.

“C'è dell'altro.” L'agente Hill l'aveva osservata attentamente prima di tirar fuori un esile fascicolo dal primo cassetto della sua scrivania. “Informazioni sulla vostra prossima missione.”

“L'agente Barton ha ancora tre settimane di riposo forzato.”

“Ottimo. Avrete tutto il tempo per studiare il caso nei minimi dettagli.”

“Di che si tratta?”

“Conosce Boris Shostakov?”

“Della Shostakov Energy?”

Maria Hill annuì, invitandola ad aprire il fascicolo. Il nome non le diceva più di quanto avrebbe detto ad un civile mediamente informato degli avvenimenti internazionali. Sapeva che Shostakov era entrato in conflitto con il governo russo, che si era inimicato i media di mezzo mondo per il pessimo trattamento dei suoi operai e per la sua cronica tendenza ad approfittarsi di situazioni di pace decisamente precarie per ottenere maggiori vantaggi.

Quando una fotografia scivolò dal plico, planando dolcemente a terra, il gelo le scese nello stomaco.

“Lo conosce?”

La domanda della sua superiore cadde nel silenzio.

 

****************
 

Aaaand con questo capitolo lasciamo il mini-arco della manovra (inconsapevole) di Clint verso Natasha (o di Natasha verso Clint?), ma ovviamente il suo passato - sotto forma di incubi - è tornato a mettersi in mezzo *sigh* Nella prossima parte, invece, ci butteremo su un po' di (mal)sana azione :)
Grazie infinite ad Eli per il lavoro di betaggio e i deliri (entrambi aggratisse) a e a tutti quelli che stanno leggendo, commentando, apprezzando, ecc. ecc. mi fate una donna felice ù_ù
Alla prossima!
S.

 

  
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