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Autore: Fuyu    24/06/2014    1 recensioni
Come avrete potuto notare, ho cancellato la storia precedente, mi sono accorta che andava troppo veloce e non c'erano neanche delle descrizioni decenti. Ho cambiato varie cose, rispetto alla prima stesura, quindi potete leggerlo tranquillamente, anche se avete già letto l'altra.
La storia è simile a quella di prima. Un mondo fantasy, dove il sincronizzatore dovrà portare pace o forse morte.
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Primo capitolo

Incontro oltre il muro


34° S., anno 1500. Ultimo giorno del II ciclo, regno di Algora, da qualche parte ad Est dalla capitale. Attraverso una stradina di sabbia, una ragazza incappucciata stava camminando, seguendo una sfera luminosa arancione. Il buio imperversava e il vento freddo, della notte, le gelava le mani. La sfera volava a mezzo metro da terra e la sua luce era abbastanza per far vedere dove metteva i piedi alla ragazza.
Ormai camminava da quasi un giorno e la stanchezza, la fame e il sonno si facevano sentire, oltre che il freddo. Sapeva di non poter tornare in dietro, era consapevole che se fosse tornata sui suoi passi l'avrebbero uccisa, quindi, l'unica cosa che poteva fare era seguire quell'inconsueta guida e sperare. Finalmente, dopo altri minuti, un muro si stagliava davanti a lei. La struttura era alta, venti metri e, la ragazza, dal punto in cui si trovava, non riusciva a vederne la cima. Era di solida roccia e, probabilmente, molto spesso, l'unica soluzione era scalarlo, ma neanche lei sapeva cosa ci fosse al di la.
Algora era un regno chiuso, nel vero significato del termine. A Nord, vi era solo un isola, denominata "Terre Perse", a Est una catena montuosa, a Sud un bosco infestato da creature -che spaventavano fin dall'alba dei tempi- e a Ovest questo muro. La ragazza non sapeva cosa ci fosse al di la di tutte queste cose, aveva sempre vissuto in pace e nella beata ignoranza, nella sua casa alla capitale come figlia di un ex cavaliere reale il quale era anche appartenente alla piccola nobiltà. Vivendo sempre sotto le cure paterne e del suo rango, non si era mai preoccupata di cavarsela da sola o di dover pensare agli altri esseri oltre a lei su quel pianeta. Però, nonostante la vita da signorina che aveva condotto, il padre non aveva viziato, ne lei, ne i suoi due fratelli, insegnandogli l'onore e la bontà. Non a caso il fratello maggiore era, a sua volta, diventato cavaliere seguendo le orme del padre, mentre lei era ancora all'accademia.
Ad ogni modo, doveva trovare un modo per andarsene dal regno di Algora. Si girò un attimo, tentando d'intravedere Desdoler, la capitale e sua città natale, ma tutto quello che intravedeva erano le luci di Dadesi, una cittadina a Nord-Ovest di Desdoler. Sconsolata e infreddolita si rigirò verso la possente parete di roccia. Fissava la sferetta luminosa come a chiederle di darle una mano, ma quella andò avanti senza prestarle attenzione. La luce arancione la guidò fino a degli spuntoni di roccia che potevano fungere da scala. Essendo stata all'accademia per due anni, qualcosa di sopravvivenza ne sapeva, forse non era una scalatrice esperta, ma neanche una principiante. Dopo un bel po di scalata, la ragazza era stremata, non era abituata a scalare rocce come quelle e si sedette un attimo. Era, più o meno, a metà del muro* e il vento si era fatto più forte, preannunciando pioggia. Si voltò di nuovo verso Algora e stavolta riuscì a vedere qualche luce più distante di Dadesi, probabilmente Desdoler. Non doveva avere rimpianti, lo sapeva, però il suo pensiero andò alla sua famiglia e sopratutto al suo maestro, morto quella stessa mattina accanto a lei. Sempre seduta, portò la mano destra alla tasca dei pantaloni, ne tirò fuori un ciondolo tondo con inciso un corno e delle foglie d'acero. Delle gocce lo bagnarono e la ragazza guardò in alto venendo colpita a sua volta. La pioggia cominciò a scendere, prima leggera, poi fittissima. Si rialzò in piedi e si accorse che la sferetta era scomparsa, si voltò più volte da varie parti, ma niente. Provò anche a gridare e chiamarla, ma grazie allo scrosciare della pioggia e la fittezza con la quale cadeva, faceva fatica a sentire e vedere perfino se stessa. Finì di salire gli speroni di roccia, non avendo altra scelta, e trovò la lucina che l'aspettava, in cima, davanti ad una specie di rientranza nel muro, esattamente a metà. Lei guardò scettica la sua guida per poi avvicinarsi, mentre la pioggia aumentava. Si rannicchiò nella rientranza per ripararsi, ma l'effetto fu quello di cadere all'indietro, appena appoggiata alla parete di roccia.
Una strada si aprì di fronte a lei, no n'appena il polverone- dovuto alla caduta- le consentì di guardare. Sembrava un cunicolo, non scavato naturalmente, probabilmente qualcuno aveva pensato bene di aprire un breccia, ma poi era stata dimenticata. La sfera si addentrò nel cunicolo e lei si alzò velocemente, per non perderla di nuovo.

La strada era abbastanza dritta e, se tanto, dava tanto, il muro doveva essere molto spesso. Lei aveva contato, almeno, 5 metri e, della fine neanche l'ombra. La luce arancione illuminava i confini del cunicolo, il quale non era più ampio di 2 metri, probabilmente chi l'aveva costruito non aveva pensato ai mezzi di trasporto, però- ripensandoci- nessun mezzo avrebbe potuto salire fino all'inizio della via. Ad ogni modo, dopo altri 4 metri, si iniziò a vedere l'uscita da quel luogo buio. Fuori pioveva ancora, ma la nostra amica pareva più sollevata, almeno aveva superato i confini di Algora. Non sapeva dove si trovava, però sembrava un bel posticino.
Algora era un bel regno, pieno di boschetti e fiumi, tuttavia vi erano più paludi che foreste e neanche una vasta zona aperta che potesse, neanche lontanamente, essere definita prateria. Il regno, dal quale lei veniva, era industriale sempre pronto ad espandersi tecnologicamente. Invece, sotto di lei, poteva vedere una distesa di erba fresca bagnata dalla pioggia e illuminata dalla luce blu di uno dei tre satelliti¹. Non era ancora scesa, ma già si avvertiva un aria diversa, quasi più pulita, rispetto ad Algora. La sferetta, al contrario di lei, stava già percorrendo quelli che parevano, dei veri e propri gradini. La discesa fu più facile della salita e in meno di mezz'ora si ritrovò a calpestare l'erbetta su descritta. Il verde riempiva l'aria e l'odore di umido le donava un'aria frizzantina. Continuò a camminare seguendo la sua guida, che a dire il vero non sapeva nemmeno da dove era sbucata.
Nella cella, dove era stata messa dopo la morte del suo maestro, si era ritrovata quella luce tonda che la incitava a seguirla e, sempre la palla, le aveva aperto la cella aiutandola ad evitare le guardie ed ora si era ritrovata li. Dalle mappe delle varie biblioteche di Algora, era venuta a conoscenza di un regno confinante di nome Calm. I due regni, come le era stato insegnato, erano in guerra da bel 25 anni, anche se 20 anni fa era stato eretto il muro e quindi nessuna disputa era più stata iniziata. Però -per quanto ne sapeva- poteva essere pieno di mostri o assassini, ma per il momento pareva più sicuro del regno di Algora. Continuando a seguire la sfera si ritrovò davanti ad un lago, dove una figura stava passando. Pareva un ragazzo, più o meno della sua età, il quale se ne stava tranquillamente a camminare con uno zaino in spalla. La sferetta, alla vista del nuovo arrivato, aumentò la velocità arrivandogli praticamente davanti e facendolo quasi cadere per la sorpresa.
«Oibho, e tu che ci fai qui?» chiese, quasi divertito. La luce si fece più intensa appena il ragazzo la prese in mano e poi un fascio di luce andò verso la ragazza. «Ah, ora capisco!» disse sorridendo facendo scomparire la sfera. Il ragazzo si avvicinò alla nostra e la guardò dall'alto in basso per poi porgerle la mano. «Mi chiamo Arti, piacere!» esclamò come un bambino. Lei, per cortesia, strinse la mano, ma si guardò bene da dirgli il nome. Arti rimase in perplessa attesa, ma il nome non arrivò e quindi decise di continuare a parlare. «Da dove vieni?» chiese, però ancora nessuna risposta. «Quanti anni hai?» ancora nulla «Come mai qui?» continuò. A dire il vero alla ragazza pareva di avere di fronte un deficiente, mentre gli faceva tutte quelle domande aveva un espressione da vero ebete in viso. «Ma sai parlare?» chiese infine sconfitto dalla cocciuttagine dell'altra. Lei divenne rossa e gli tirò un pugno in piena testa.
«Certo che so parlare, non sono una bambina!»
«Ah, meno male! Credevo non capissi il mio linguaggio» fece Arti massaggiandosi la testa «Perché non vuoi dirmi il nome?» domandò, mentre la pioggia continuava a cadere. A differenza di lei, Arti non aveva cappucci, solo un ridicolo mantello verde, tra l'altro nemmeno era invernale, e quindi era zuppo d'acqua.
«Tu piuttosto, perché ti stai facendo la doccia?» chiese scettica.
«L'acqua non mi da noia, dopotutto è naturale che piova!»
«Si, ma ti prenderai un malanno!» fece presente. L'unica risposta che ricevette fu un sorriso da beota che le fece venire voglia di tirargli un altro pugno.
«Sei manesca, te l'hanno mai detto?» e via, un altro pugno. «Ma che ho fatto?» si chiese, tenendosi la testa con entrambe le mani. La ragazza era di carattere molto spiccio e non le piaceva essere presa in giro. Per di più, il ragazzo davanti a lei, la irritava in maniera venale. La pioggia continuava a cadere, anche se sembrava che si dovesse fermare, visto che l'intensità si stava affievolendo. Lei guardò in alto, trovando una specie di aperture stra le nuvole, sintomo che il tempo andava migliorando. Era ancora buio e lei non aveva ancora dormito, nonostante le quasi 24 ore di camminata. Probabilmente erano le 11 di sera, se non più tardi.
«Ora non ho tempo di stare dietro ad un idiota come te! Devo trovare un posto dove riposare e pensare!» esclamò tornando a guardare Arti di sottecchi. Il ragazzo, che si era alzato -dalla posizione china che aveva assunto, per tenersi la testa ed evitare altri pugni- la fissò con stupore.
«Non hai una casa?» chiese tranquillamente. Lo sguardo che gli rivolse, lei, gli fece passare un brivido lungo la schiena. I suoi pugni non erano tanto forti da massacrarlo, ma preferiva evitare.
«Non ci posso tornare! E, in ogni caso, non sono affari tuoi» proclamò superandolo, cominciando a camminare. Ora che quell'idiota, come lo definiva lei, gli aveva tolto la sua guida, aveva solo il suo senso dell'orientamento su cui contare. Però, dalla sua aveva il fatto che quel nuovo posto pareva confortevole.
«Guarda, che la prima città abitabile è Fenip e si trova ad almeno 16 miglia² da qui!» spiegò, vedendola fermarsi. Lei si girò verso il suo interlocutore, quasi sconsolata e poi, trovando una roccia ci si sedette. Arti le si avvicinò con circospezione e, infine, le fece una proposta. «Puoi stare da me! Ho un accampamento qui vicino, solo dieci minuti»
La ragazza posizionò lo sguardo su di lui con scetticismo scosse la testa, piuttosto che passare, anche metà notte, con uno come lui, si sarebbe presa un malanno. «Come vuoi, però sta attenta! Anche se la pioggia è passata, non è detto che non ritorni» proclamò Arti andando via.
Lei lo vide allontanarsi, poi si voltò alle sue spalle e vide solo una distesa d'erba. Dare retta a lui era da sconsiderati, infondo, poteva anche esserci una cittadina più vicina, ma non vedeva nemmeno un lume o qualcosa che potesse suggerirlo. Certo quel posto non era Algora, quindi - forse, neanche avevano l'elettricità- però era stanca e affamata. Il suo capo ritornò a guardare dove Arti era sparito, le si crucciò il volto e alla fine si alzò controvoglia. Corse per l'erba bagnata, schizzando goccioline qua e la, sia dai piedi che dal mantello. Dopo qualche minuto lo vide seduto su una radice d'albero, che preannunciava un boschetto.
«Cambiato idea?» chiese ridendo. Lei gli si avvicinò, stavolta, camminando e appena arrivata lo guardò male.
«Infondo è colpa tua, se non ho più quella specie di palla che mi indicava la strada!» fece presente lei.


I due arrivarono alla tenda di Arti, lei era stravolta, non ne poteva più di camminare e lo stomaco pareva un pozzo senza fondo. La tenda non era grande, ma aspettarsi che lo fosse era da pazzi. Davanti alla tenda, di un grigio smorto, vi si trovava un focolare spento e zuppo d'acqua. Un laghetto si stagliava, lungo lo spazio dedicato al camping di Arti.
«Tu viaggi molto?» chiese lei, levandosi -finalmente- il cappuccio dalla testa, rivelando capelli azzurri lunghi fino alla vita, raccolti in una coda bassa con due momiage³ dai quali pendevano gioielli d'oro. Arti la fissò con stupore, mentre si levava lo zaino.
«Ma non ti pesano?» chiese indicando i gioielli. Lei guardò i su citati e gli sorrise serafica mente. «Era solo una domanda!» protestò massaggiandosi, per la -non si ricordava più- volta.
«Il metallo che produciamo ad Algora è leggerissimo e non sono l'unica a portarlo come ornamento per i capelli!» spiegò.
«Vieni da Algora?» domandò «Come hai fatto ad arrivare qui? Non dirmi che hai scalato il muro?» continuò a fare domande, indicando la direzione del muro, all'ultima di esse. Lei seguì il braccio di lui e poi annuì con la testa.
«A dire il vero, la sferetta, che tu hai "spento", mi ha portato ad un cunicolo a metà del monte!» spiegò, rimarcando la parola spento. «A proposito, come diavolo hai fatto a farla sparire, e che diavolo era?»
«Anch'io mi sono stupito, non pensavo che ci fosse ancora! Sopratutto, dopo tutti questi anni» rise Arti tirando fuori dallo zaino un tubicino in onice, intarsiato d'argento. «Credevo fosse finito anni fa»
«Aspetta, aspetta solo un attimo! Cosa stai farfugliando, hai creato tu quell'affare?»
«Si, però è successo almeno 6000 anni fa!» esclamò creando una palla di fuoco dal cilindro, la quale si andò a posare vicino ai ceppi bagnati del focolare. Un bel colore rosso riempì il campo visivo di Arti, colorando gli occhi arancioni e i capelli marroni di un bel rosso vivo. Mentre il calore impregnava le membra della ragazza che aveva spalancato gli occhi. Non ci aveva fatto caso prima, gli occhi di lui erano arancioni. Lei cominciò a pensare: -Occhi arancioni, 6000 anni fa, diceva cose assurde-
«Se.....sei...sei! Tu sei il SINCRONIZZATORE!» esclamò quasi atterrita, cadendo a terra con il terreno fangoso che le sporcò i pantaloni, gli stivali e la parte inferiore della maglia e del mantello. Arti divenne serio e le si avvicinò con calma, lei cominciò ad arretrare. Da quando era bambina le era stato detto che il sincronizzatore era colui che portava morte, un mostro dal quale stare alla larga e da uccidere subito. Istintivamente portò la mano destra al fianco sinistro, ma non aveva nulla e allora si ricordò di aver lasciato la spada ad Algora, nelle prigioni. Si sentiva già morta quando Arti avvicinò le mani, a palmi aperti, verso il suo viso. Chiuse gli occhi e, dopo minuti -che le parevano ore- sentì le sue guance tirarsi. Riaprì gli occhi vedendo Arti sorridere a trentadue denti e le sue mani che le tiravano le guance.
«Proprio così, mi chiamo Cronos I. Artenzi! Sincronizzatore» esclamò felice lasciandola andare e tirando fuori dallo zaino una specie di pietra lunga 30 cm e alto 25 cm, spessa 5 cm.

Il fatto di avere davanti il sincronizzatore l'aveva spiazzata, ma non quanto non essere stata uccisa. Aveva sempre saputo che era un sanguinario, che ogni 1500 anni scendeva sulla terra per portarla alla rovina. Il ragazzo che aveva di fronte, però, non figurava di tali prerogative e poi sembrava troppo bambino. Ma gli occhi arancioni erano distintivi, solo il sincronizzatore, poteva averli.
«Quindi questo mondo, morirà?» chiese quasi impaurita, ma anche sconvolta. Arti la guardò con stupore. Dopodiché, senza neanche risponderle si avviò alla tenda, mettendo prima il mantello ad asciugare davanti al fuoco. Lei ci rimase di sasso, l'aveva completamente ignorata. «Se pensa di potermi trattare così si sbaglia!» esclamò a se stessa alzandosi e andandogli dietro. Prima che potesse entrare nella tenda, però, Arti ne uscì con degli abiti. La ragazza abbassò il capo, muovendo alcune goccioline ribelli del mantello.
«Cambiati o prenderai un malanno!» le fece il verso.
Entrò nella tenda titubante, trovandola abbastanza comoda. Non sapeva se poteva fidarsi, ma fin'ora, tutto quello che le avevano insegnato ed inculcato nella testa, si era rivelato sbagliato. Mentre si cambiava, il ciondolo del maestro le cadde dalla tasca dei pantaloni -in tutto quel trambusto si era dimenticata dove lo aveva messo-. Lo raccolse da terra e se lo strinse al petto, ricordando le tipiche parole del maestro "Non tutto quello che senti è vero". L'uomo che l'aveva iniziata alla spada era il padre, gentile e pacato. Il contrario esatto di colui che la stava allenando per farla diventare cavaliere.
Il suo maestro era un uomo pieno d'orgoglio e passione, ormai aveva 50 anni, ma non si dava certo perso. I suoi ideali erano decisi e onorabili, a differenza di altri le aveva sempre insegnato a cercare la verità con la propria testa, senza credere a tutto quello che sentiva. Doveva vedere con i suoi occhi e poi decidere. Ad un tratto Arti la distolse dai suoi pensieri. «Ci sei?» chiese. Lei, ancora in mutande gli urlò, rossa in viso, di non entrare. Arti tornò al focolare, davanti alla sfera rossa, uscita dal cilindro, lei si accostò all'entrata della tenda. Non era ancora del tutto sicura che quel ragazzo fosse il sincronizzatore, ne era sicura che potesse far del male, tutto quello che sapeva riguardo a quell'essere era scritto sui libri di storia o le era stato detto. Però adesso che lo vedeva sorridere e giocare con la sferetta -fatta ricomparire, da chissà dove- le sembrava semplicemente un ragazzo un po' fuori dal comune. Richiuse la tenda e si cambiò in fretta, intanto un buon profumino si alzò nell'aria.
«Non sapevo, sapessi cucinare!» esclamò lei uscendo con una maglia e dei pantaloni da lavoro. I suoi vestiti li teneva in mano, dopodiché li sciacquò dal fango, nel lago e poi li adagiò sul filo, dal quale pendeva anche il mantello di Arti, per farli asciugare.
«Ho sempre vissuto da solo, non avendo una madre mi sono dovuto abituare!» proclamò passandole un piatto e un mestolo di terracotta. «Non so quanto possa essere commestibile! Tieni conto che le mie papille gustative cambiano ogni 1500 anni, quindi probabilmen...»
«AHHH, CHE SCHIFO! Ma quanto sale ci hai messo?» domandò bevendo l'acqua accanto a se.
«Ti avevo avvisato! So cucinare, ma 1500 anni fa ero un Ursar, e loro mangiano solo roba a base di alghe e frutti di mare» precisò.
«Lascia, cucino io, tu vatti a cambiare. Oppure il sincronizzatore non ha problemi con il raffreddore?» chiese ironica. Mentre Arti si cambiava, con dei vestiti che teneva sempre di scorta -come quelli dati alla ragazza- lei fece bollire dell'acqua e si mise dentro delle verdure datele da Arti in persona. Non era certo una cuoca, però -almeno uno stufato- lo sapeva cucinare.
«Mmh, buono, sei brava!» fece i complimenti lui gustandosi il cibo. «Erano settimane, che cercavo di capire dove sbagliassi!»
«Se non capisci nemmeno dove sbagli non imparerai mai»
«Giusta osservazione» sorrise lui.
«Me lo ha insegnato il mio maestro!» gli rispose, poi divenne malinconica e osservò il piatto. «Anche lo stufato, è stato mio fratello maggiore a insegnarmelo!» si stupì lei stessa delle sue parole. Non erano cose che aveva imparato da sola, erano tutte cose imparate da altri «In realtà non so fare nulla!» sibilò «Non sono riuscita nemmeno a......» si fermò quasi sull'orlo del pianto.
«Che importa!» esclamò Arti, risvegliandola. «Quello che conta e che tu adesso lo sappia fare, e poi nessuno nasce imparato!» sorrise, sbuffando ilare e poi gli arrivò un pugno.
«Mangia, signor sincronizzatore!» Guardandolo mangiare, prese una decisione. Se non poteva più tornare ad Algora avrebbe trovato un modo per cambiare e crescere, capire e decidere di testa sua. Alla fine guardando la zuppa che le aveva insegnato suo fratello, tese la mano verso Arti. Lui allargò gli occhi e la fissò stupito. «Mi chiamo Avlynn!» esclamò. Lui sorrise e le strinse la mano a sua volta.


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Come avrete potuto notare, ho cancellato la storia precedente, mi sono accorta che andava troppo veloce e non c'erano neanche delle descrizioni decenti. Ho cambiato varie cose, rispetto alla prima stesura, quindi potete leggerlo tranquillamente, anche se avete già letto l'altra. Ho cambiato anche il titolo principale, decidendo di dividere la storia in più di due fasi e anche i titoli dei vari capitoli saranno più lunghi. Cercherò di fare più descrizioni, come in questo primo capitolo, e avendo già rifatto anche il secondo capitolo, credo di riuscire a presentarvelo la prossima settimana. Poi dal 10 di luglio in poi non avrò nemmeno gli esami e sarò completamente libera.
Ho definitivamente deciso di togliere il rating rosso, dopotutto è una storia fantasy non macabra e quindi tutte le scene, di sesso, martoriamenti e torture, saranno solo velate, quindi sarà arancione per ogni evenienza. Mentre le scene di combattimento, farò del mio meglio per descriverle a modo.
Spero che vada meglio, fatemi sapere.


Da qui in po le note:
*lo so che scalare 10 m non una bazzecola, sopratutto dopo 24 ore di cammino e in piena pioggia torrenziale, ma tant'è che io e la fisica non andiamo d accordo.

¹ Sarebbe l'equivalente della nostra luna. Nella storia, come detto più avanti sono tre: Vaati, quello descritto con la luce blu, Nul con la luce rossa, secondo in distanza e Cais con la luce viola, il più lontano.

² 16 miglia sarebbero: 25,749504 Km, ho fatto i calcoli a computer. Più o meno la distanza tra Viareggio (LU) e Lucca.

³ Sono delle ciocche di capelli che pendono davanti alle orecchie, di solito sono più lunghe dei capelli dietro ed è una capigliatura tipicamente maschile.
   
 
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