Fandom:Full Metal Alchemist
Rating: 16 anni.
Personaggi/Pairing: Edward Elric, Alphonse Elric
Tipologia: One-Shot, Song Fiction
SECONDA
CLASSIFICATA AL SINGING FLOWERS CONTEST DI WRITERS ARENA.
Lunghezza: 8176 parole, compresi gli estratti della canzone
Avvertimenti: Dark, Angst, Shounen ai, Non per stomaci delicati,
Linguaggio colorito, "What if...?".
Genere: Triste, Malinconico, Drammatico, Introspettivo, Thriller,
Horror, Giallo, Suspence, Sovrannaturale.
Disclaimer: Personaggi, luoghi, nomi e tutto ciò che deriva dalla trama
ufficiale da cui ho elaborato la seguente storia, non mi appartengono ma sono
di proprietà di Hiromu Arakawa che ne detiene/detengono tutti i diritti. Questa
storia non è stata scritta a scopo di lucro e, viceversa, gli elementi di mia
invenzione, non esistenti in Full Metal Alchemist, appartengono solo a me.
Credits: La canzone è “The truth beneath the rose” dei Within
Temptation.
Note dell'Autore: Questa FanFiction è dedicata a Chibi simo, la mia
disegnatrice. Che la tua mano possa continuare a creare meraviglie per tutta la
vita e oltre. Con l’aiuto di una matita come minimo, ovviamente! XD
Introduzione alla Fan's Fiction:
Ma le tenebre che li avvolgevano, era già un nemico da cui doveva
difenderlo.
E non era l’unico. Sperò che tutto si concludesse in fretta, mentre si voltava
a guardare nel fondo della stanza.
Lì da dove quella dannata voce era venuta, una sagoma curva lo guardava, in
attesa.
-Se lo guardi troppo si consumerà, Nii san-
-Non sono cose che ti riguardano..- soffiò, con tutto il rancore di cui era
capace.
- … Dannata armatura-
L’armatura che stava accasciata sull’ultima parete della camera fece cigolare
la banda di ferro che era la sua bocca.
Non poteva essere sicuro del tutto del fatto che stesse ghignando, ma un brivido
freddo gli attraversò le membra, come si preparò all’ennesimo capitolo della
sua follia. Era una storia già bella che usurata, ma continuava comunque a
seguire una trama che non ricordava, che non aveva mai conosciuto. Che
sciocchezza.
Solo ordinaria follia.
Le armature non parlano.
Non tutte le sante notti da un anno a quella parte, perlomeno.
Give
me strength to face the truth,
The doubt within my soul
No longer I can justify
The bloodshed in his name
Is it a sin to seek the truth,
The truth beneath the rose?
Pray with me so I will find
The gate to Heaven’s doorz
Dammi la forza di affrontare la verità,
Il dubbio nella mia anima
Non posso più giustificarlo a lungo,
Il sangue versato in suo nome
È un peccato cercare la verità,
La verità celata dalla rosa?
Prega con me così che io possa trovare
Un passaggio verso le porte del Paradiso
Un anno, tre mesi, diciannove giorni, aveva perso il conto delle ore.
Edward sorrise, rincuorato da quella sua considerazione, stringendo la mano
sulla maniglia della porta chiusa.
Respirò profondamente, portandosi vicino alle labbra un lembo della camicia
leggera slacciata fino alla clavicola, pestando il piede a terra.
“Tanti auguri.. Al”
Addentò la stoffa, decidendosi ad aprire la porta della camera.
Un azione che gli era sembrata molto più difficile di quanto aveva temuto
all’inizio.
Tremò ancora un po’. Non capiva il motivo di tanta agitazione.
Lo capì ancora di meno, quando scorse la figura di suo fratello, seduto sul
letto vicino alla finestra della loro storica stanza, con la testa sbilanciata
in alto.
Attraverso lo spiraglio della porta aperta solo per tre quarti espose un
sorriso, e pestò i passi con più forza, ed attese.
“Tanti auguri, Al”
Al si voltò verso di lui. Gli aveva detto tanto volte di non fare movimenti
bruschi, ma non voleva proprio dargli ascolto.
Osservò con un calore piacevole nel petto, e una nota di biasimo sulle labbra,
come il suo sorriso veniva ricambiato.
Da un bellissimo ragazzo diciottenne. Appena diciottenne.
“Tanti auguri, Al”
Quello non era un giorno come un altro.
Era uno di quei giorni in cui andare a gridare la propria gioia zampettando per
la strada, e fregandosene se i passanti ti danno del folle.
Uno di quei giorni in cui, se anche in un momento qualunque della tua vita
ricordi di aver provato sofferenza, non senti assolutamente niente di cattivo.
Né dentro, né fuori di te stesso. Uno di quei giorni in cui lui diventava
insolitamente più premuroso del solito.
Dimenticò di aver tremato, davanti alla porta chiusa che li divideva.
Si beò del calore dentro di lui, osservò contento.
-Ti stavo aspettando, Nii san!-
-Lo so, scusa. Avevo da fare-
Suo fratello puntava le mani sul letto, quasi appollaiato come un uccellino sul
suo trespolo.
Dilatando i grandi occhi salmastri, facendo tentennare la testa ramata in un
espressione che voleva imitare quella di un gatto che faceva le fusa.
Sapevano esattamente entrambi cosa aveva avuto da fare, ma era abbastanza
divertente mandare la farsa fin quando si poteva. Sembrava una specie di gioco
delle parti.
Perciò evitò anche di chiederglielo, limitandosi a parlare col suo scodinzolio.
-Perché mi guardi in quel modo, Nii chan?-
Al, contraddetto, gonfiò le guance, sicuro che lo stesse prendendo in giro.
-Ma non pensavo di dovertelo dire, Nii san!- bofonchiò, con l’aria in eccesso
che usciva ad ogni sillaba.
Edward cercò di non scoppiare a ridere, come Alphonse fece dilatare le pupille
in quel modo felino che ancora non riusciva bene a comprendere, e rovesciava il
labbro inferiore. Supplicante gli si aggrappò alla manica della giacca,
dondolandosi in maniera volutamente comica coi fianchi sottili.
-Eddai Nii saaaan! Lo sappiamo tutti e due cosa avevi da fareeeee!-
-Si.. ma devi ammettere che dartelo subito non sarebbe stato altrettanto
divertente-
Concluse, scoppiando a ridere dopo lunghi minuti passati a trattenersi,
accasciandosi sul letto, sferzando l’aria con il braccio d’acciaio.
Alphonse aveva imparato fin troppo bene, in quell anno, tre mesi, diciannove
giorni, e non si sa quante ore, ad usare il proprio corpo.
Il suo nuovo corpo, conquistato a prezzo di una sofferenza di cui non aveva che
un vago ricordo sbiadito. Ed era tanto meglio così.
Ora riusciva perfino a riderci sopra, pensa un po’ te, quando fino a un anno,
tre mesi, diciannove giorni, e non si sa quante ore fa, ci si spaccava il cuore
a martellate.
Solo un brutto incubo su cui bere litri d’acqua e fare bei sogni il doppio del
tempo. Così dannatamente semplice che un po’ gli faceva rabbia.
E rideva anche di quella.
A volte Alphonse gli si gettava addosso, scalciando un po’, delicato come se
ancora pensasse di potergli fare male con il suo peso di armatura.
A volte erano stati scambiati per folli. E loro se n’erano fregati così
altamente che erano stati gli altri, per un attimo, a sentirsi fuori posto.
Non aveva idea che la vita potesse essere così bella.
-E allora? Sono curioso Nii san!-
Edward, risorgendo dalla sua caduta sbilenca, sorrideva sornione.
Ci si poteva aspettare anche qualcosa di spettacolare, megalomane, di
totalmente assurdo, dalla testa geniale a bacata di Edward Elric.
Ma tutto ciò che fece fu estrarre un oggetto dalla tasca interna della giacca
nera, e porgerlo a suo fratello con un inchino riverente.
-Buon compleanno, Nii chan-
Alphonse osservò il suo regalo tenendo il capo obliquo per qualche secondo, per
poi realizzare.
Una rosa, ancora imperlata da qualche gocciolina d’acqua, gli stuzzicava il
naso con i suoi petali, tutti bianchi.
-Ti ricorda niente?-
Smise un attimo di sorridere a quella domanda.
-Certo che ricordo-
“La mamma” pensò, e afferrò lo stelo con grazia evitando le spine.
“La mamma adorava le rose bianche” come dimenticarlo.
Le coglieva lei stessa dal roseto di un vicino gentile, quando la primavera lo
permetteva.
Ci riempiva un bel vaso, se la situazione era stata favorevole, e le metteva in
salotto, a brillare nella luce candida la mattina, ad illuminare il buio tardo
la sera, quando si sedevano intorno al tavolo per la cena. Non brillavano, poi,
ma questo era un dettaglio incoerente che la mente di un bambino non poteva non
evitarsi di vagheggiare.
Ma commuoversi gli sembrava un po’ fuori luogo.
Poco virile, troppo nostalgico. E non poteva neanche ridere.
Un po’ la speranza di poter ridere su tutto l’aveva avuta. Ma rimasero zitti,
sentendo come il petto si contraeva.
Mamma. Perdonaci. Se puoi.
-Il signor Lendahl era un po’ rimbambito..- si grattava la testa, imbarazzato
non sapeva neanche per che motivo.
-… non so neanche se si accorto che l’ho presa. Quando si sveglierà penserà ad
un attacco allo stato, all’apocalisse, o all’invasione degli alieni-
-Si, me lo ricordo! Le sue rose erano sempre al centro dei più pericolosi
complotti per la caduta del governo di Central City-
-Già..- rise -.. domani vedrò di rassicurarlo-
-Per la mamma era diverso-
-Già! Ma non credo che ci tratterà come trattava lei..- iniziò, deglutendo.
-.. lei era speciale-
Abbassarono il capo, simultaneamente, evitando di guardarsi negli occhi. Ma non
era per vergogna.
Forse ancora qualche rimasuglio di quello stupido eroismo non chiesto che li
spingeva a non mostrare mai la loro umanità all’altro.
Per non ferirlo. Quando si erano dannati mille e mille volte per riuscire a
recuperare quei vili corpi d’umani normali.
Che stupida incoerenza.
Edward fu il primo a rialzare lo sguardo, puntandolo ai palmi delle mani di Al,
aggrappati l’un l’altro nel suo grembo contratto, reggendo il fiore in bilico.
Teneva il viso basso, sulla schiena arcuata in avanti, in una posizione davvero
poco comoda per la sua spina dorsale ancora fragile.
Eppure gliel’aveva spiegato fino allo sfinimento che le sue ossa non erano
ancora in grado di reggere grandi pesi. A volte neanche quello della gravità.
Fece strisciare una mano, sornione, afferrandogli le spalle, facendolo cadere
supino con la testa sulle sue cosce.
-Tu non mi ascolti mai, vero Nii chan?-
Alphonse reteò gli occhi, dapprima senza capire.
-Ogni tua parola, Nii san-
-Bravo-
-Nii san?-
-Hn?-
-Mi sono graffiato con le spine-
-E lo dici con quel sorriso idiota, dannato fratello pestifero?-
Evitò di dirgli che era proprio per il fatto che amava essere pestifero, che
aveva usato quel tono.
E pensare che era lui, una volta, che si atteggiava a fratello maggiore. Ma non
era solo per la differenza di mole.
Nessuna apparenza poteva cambiare le cose, fin quando suo fratello lo avrebbe
tenuto sotto la sua ala, calda, fin quando gli avrebbe scaldato le ossa quando
il freddo incombeva su di loro. Fin quando lui sarebbe rimasto il suo bambino
da proteggere dai mali della vita, nulla sarebbe cambiato.
Ed era tanto meglio così.
-Tanti auguri, Nii chan-
Lo ripeté ancora, per il gusto di sentire quelle parole uscire dalla sua bocca,
e terminare sulle guance paffute sotto di loro.
Ripetè, afferrandogli il dito un po’ sanguinante, e raccogliendo le stille
rossastre con la lingua.
-Tanti auguri-
Perdonaci, mamma.
Se sei da qualche parte.
I
believed it would justify the means
It had a hold over me
Blinded to see the cruelty of the beast
It is the darker side of me
The veil of my dreams
Deceived all I have seen
Forgive me for what I have been
Forgive me my sins
Credevo potesse giustificare i fini
Aveva un ascendente su di me
Accecato nel vedere la crudeltà della Bestia
E' la parte più oscura di me
Il velo dei miei sogni
Ha deformato tutto quello che ho visto
Perdonami per tutto quello che sono stato
Perdona i miei peccati
-Svegliati.. oh svegliati, grande e potente fratello!-
-Ma non hai proprio nient’altro da fare, né?-
Scalciò le coperte di quel poco che bastava per non smuoverle troppo, quando
sarebbe sceso dal letto.
L’ultima cosa che avrebbe voluto fare era svegliare Al. Dormiva così
profondamente, con le guance rosate e paffute affondate nel cuscino soffice.
Erano scolorite un po’ da quando le prime tenebre della notte erano cominciate
a calare, e lui gli aveva chiesto se potevano dormire insieme.
Come un amante pudico, o come se fosse stata la prima volta. Che sciocco,
sciocco fratello che aveva.
Lo osservava, riverente.
Il sonno di un angelo non s’interrompe mai, no?
Ma le tenebre che li avvolgevano, era già un nemico da cui doveva difenderlo.
E non era l’unico. Sperò che tutto si concludesse in fretta, mentre si voltava
a guardare nel fondo della stanza.
Lì da dove quella dannata voce era venuta, una sagoma curva lo guardava, in
attesa.
-Se lo guardi troppo si consumerà, Nii san-
-Non sono cose che ti riguardano..- soffiò, con tutto il rancore di cui era
capace.
-… Dannata armatura-
L’armatura che stava accasciata sull’ultima parete della camera fece cigolare
la banda di ferro che era la sua bocca.
Non poteva essere sicuro del tutto del fatto che stesse ghignando, ma un
brivido freddo gli attraversò le membra, come si preparò all’ennesimo capitolo
della sua follia. Era una storia già bella che usurata, ma continuava comunque
a seguire una trama che non ricordava, che non aveva mai conosciuto. Che
sciocchezza.
Solo ordinaria follia.
Le armature non parlano.
Non tutte le sante notti da un anno a quella parte, perlomeno.
-Quindi sei contento di come vanno le cose, eh, Nii san?-
Non si sprecò neanche a spiegargli il fatto che solo il suo adorato fratellino
poteva permettersi di chiamarlo in quel modo.
Evidentemente le armature davano la più chiara manifestazione di parole che
entravano da un orecchio e uscivano dall’altro.
Sempre ammesso che ce le avesse, delle orecchie.
-Lo sai perfettamente anche tu.. com’è che vanno le cose-
-Meravigliosamente-
-Se non fossi totalmente fuori come un balcone..-
-Giusta osservazione-
Se quella era una parte del suo subconscio, beh, poteva dire di aver avuto modo
di sondarsi davvero bene, in quell’anno di conoscenza reciproca.
E, conoscendo quella sua sferragliante parte di se stesso, poteva dirsi con
altrettanta sicurezza di essere una persona davvero ripugnante.
Anche se, e non c’era bisogno di ripeterselo, quell’armatura non lo stava
prendendo in giro, né nient’altro.
Semplicemente perché non c’era proprio nessuna armatura.
Al dormiva accanto a lui.
Nel suo corpo di carne. Tenera carne.
-Cosa vuoi?-
-Quello che voglio sempre… e qualcosa in più-
Cigolò, serafica, facendo propagare la voce nella camera, come se venisse da
una grande bocca del soffitto.
-Impicciarti dei fatti miei.. dei nostri fatti, non ti basta più?-
-No-
-A me sembrava fin troppo-
Afferrò il pendaglio di fili rinforzati che spiccavano dall’elmo, simile ad una
specie di finta capigliatura. Era un gesto che Al usava fare spesso, quando il
suo corpo di tenera carne era ancora sperduto nei meandri di un'altra
dimensione. Lo sapeva bene. La crudeltà del suo subconscio lo sapeva bene.
Osservò come Edward voltava il viso, evitando di guardare, come davanti ad un
cadavere in putrefazione. Quasi schifato.
Voltò le spalle alla parte masochista del suo essere.
Quei ricordi non li voleva, perché doveva sbatterseli in faccia in quel modo?
-Te l’avevo detto.. no?-
-Detto cosa?-
-Che le cose non sarebbero andate così bene per sempre-
Ma lui non c’aveva creduto, non aveva voluto crederci.
Quanto le parole di una creatura fatta di follia potevano essere credibili?
Non scherziamo, non prendiamoci in giro. Non è assolutamente scientifico.
-Tu non esisti-
-Mi stai parlando-
-È perché sono pazzo-
Di tante cose che andavano bene, quella era l’unica che continuava a non
volersi raddrizzare. Lui. La sua mente. La sua esistenza.
Per quanto cercasse di convincersene, con tutto se stesso, che ogni incubo era
finito, mangiato a morsi dal loro sogno diventato realtà.
“Io sono pazzo”. Accettarlo, in qualche modo, era molto più facile. Molto più
degno del raziocinio di un rispettato alchimista di stato.
-Ma io esisto per il solo fatto che tu mi stai parlando. Sia che tu sia pazzo,
sia che tu non lo sia-
Un espressione di divertito disprezzo si dipinse sul suo viso.
Che sciocchezze che andava dicendosi.
-Inutili sofismi-
-Ad ogni modo, oggi sono qui anche per un'altra ragione-
Cominciò a ridere, come un elefante davanti alla minaccia di una piccola
formica che stava per calpestare. La conosceva questa ragione.
Era un conto alla rovescia, che aveva contato un battito all’alba di ogni nuovo
giorno, che lui aveva atteso senza preoccuparsene poi tanto.
Non c’era bisogno di temere una creatura, non se fatta di follia. La sua
follia.
Non avrebbe potuto fargli del male, non avrebbe potuto farne ad Al.
Ed era questo che più lo rincuorava. Questo quello che più lo faceva stare
bene.
Perciò attese, questa esplosione imminente. Con quanto di più saccente potesse
essere la sua espressione.
-Il tempo è finito…- rise a sua volta, l’armatura -.. e quella rosa ne è la
prova-
-Il regalo per Al?-
L’afferrò dal vaso in cui l’avevano riposta, per far sì che non si seccasse.
-Esatto, Nii san. Sono qui oggi per adempiere alla mia promessa. Quella stessa
promessa che tu ricorderai bene, immagino-
-La ricordo- concesse, scettico -.. ma tu non esisti-
-Non è importante- abbassando l’elmo stridente, rivelando le sfere rosse di
vita falsa, sembrò fissarlo.
-Io solo posso essere il corpo di Alphonse Elric- declamò, in un divertito tono
trionfante.
Edward tremò, come se l’aria stesse cercando di avvertirlo di un imminente
pericolo.
-Perciò, stanotte, mi riprenderò quello che ho perso-
Lo stelo della rosa che teneva in mano slitto tra i suoi palmi, divenuti
improvvisamente pregni di sudore freddo.
Cercò di convincersi con tutte le sue forze del fatto che niente di tutto
quello che sentiva era reale.
Neanche il sangue che incominciava a scorrere tra le sue mani.
Sulle lenzuola, strisciando in caduta libera verso il pavimento così vicino.
Niente. Assolutamente niente.
-L’accordo è semplice-
L’armatura si era alzata in piedi.
-Quando l’ultimo petalo di quella rosa toccherà il pavimento, prenderò tuo
fratello-
Incominciò a dileguarsi, prendendo fiato nell’antro ferroso della sua corazza,
per l’ultimo avvertimento.
Allungo il tozzo dito di metallo verso il materasso, diventato ormai un lago di
sangue. Ma c’era qualcosa di ancora peggiore.
La sagoma dormiente di Al… Edward non aveva coraggio di toccarla. Neanche con
lo sguardo dilatato, fissato sui lembi delle lenzuola scarlatte.
L’armatura sorrideva.
-Fa in modo di essere al suo posto, entro gli albori dell’alba-
E scomparve.
E il primo petalo cadde.
Pray
for me cause I have lost
My faith in holy wars
Is paradise denied to me
Cause I can’t take no more
Has darkness taken over me,
Consumed my mortal soul
All my virtues sacrificed,
Can Heaven be so cruel?
Prega per me perché ho perso
La mia fede nelle Guerre Sante
Mi è il paradiso negato
Perché non posso sopportare oltre?
Ha preso l'oscurità il controllo su di me,
Consumato la mia anima mortale?
Tutte le mie virtù sacrificate,
Può il Paradiso essere così crudele?
-Corri, corri Nii san-
-Fermati! FERMATI!-
La testa gli era scattata in avanti senza che lui l’avesse voluto. Le sue urla
gli grattavano a sangue il palato.
Era saltato giù dalle scale almeno tre o quattro gradini per volta, facendo
scricchiolare le ossa delle caviglie in forti tonfi nervosi.
Il pavimento gli tremava sotto i piedi. Sentiva la voce dell’armatura in fuga,
come se ce l’avesse avuta tra le braccia in quell’esatto momento.
Lo stava prendendo in giro.
Avrebbe potuto fermarsi, e suo fratello sarebbe stato anche meglio di prima.
Dio, non poteva credere a simili sciocchezze.
Eppure quella dannata ferraglia aveva raggiunto l’entrata della cucina. Vi si
era appesa, aspettando che anche le sue gambe corte ci arrivassero.
Era appena a metà del breve corridoio, che percorreva allungando le braccia il
più possibile per afferrarlo, quando quella si dileguò, esattamente come aveva
fatto prima. Lo stelo della rosa non cedeva, non si spezzava. Nonostante lo
stesse stringendo.
Fino a conficcarsene le spine, a sangue.
-Voglio farti vedere qualcosa-
Non rispose, a quella voce che veniva dal nulla fatto di aria compressa che
aveva intorno.
Raggiunse la cucina una frazione di secondi dopo, sperando che di non trovarci
assolutamente niente di strano.
Magari qualche chiave inglese lasciata per sbaglio da Winry, lanciata a 100 km orari contro la sua testa per chissà quale motivo.
Non c’era proprio niente che non avesse già visto. Non seppe se ringraziare, o
darsi del paranoico.
Proprio niente di cui preoccuparsi.
Si buttò a terra, gettando via dai pori della pelle tutta quella insensata
tensione che aveva nei muscoli.
Proprio niente di anomalo, tranne che nella sua testa.
-Non ti conviene abbassare la guardia-
Le pareti rimbombarono e vibrarono intorno a lui, poi ondeggiarono, poi
incominciarono a ruotare in movimenti inconsulti.
Lo spazio mutò sotto i suoi occhi, frenetico, modellandosi come sotto le mani
di qualcuno d’invisibile o che non riusciva a vedere.
Chiuse gli occhi, aspettandosi di risvegliarsi nella realtà una volta che li
avesse riaperti.
Eppure giurò che la donna che vide davanti a sé, affaccendata su una grossa
pentola di stufato di patate, fosse proprio sua madre.
Indietreggiò.
Impossibile.
-Sto sognando-
-Può darsi.. ma non è forse un bellissimo sogno?-
Non sapeva come si facesse a sopportare un tono tanto saccente. Ma dentro di sé
annui, con un stilla impercettibile di felicità nel lattice che gli corrodeva i
muscoli.
Non ricordava che sua madre fosse tanto bella. Non ricordava che il suo viso
fosse tanto indisponente, quando il suo brodo rischiava diventare troppo
liquido.
Realizzò, improvvisamente, che quella che illuminava il suo viso angelico era
la luce del giorno.
Assurdo.
Quella era follia.
Non poteva essere che follia.
-Io sono pazzo-
La donna sembrò voltarsi verso di lui, sentendo quelle parole, come riemergendo
dal suo cantuccio di preoccupazione materna.
Strabuzzò gli occhi, davanti a quello strano ragazzo in pigiama azzurro, con la
bocca spalancata e gli occhi troppo grandi per essere veri.
Forse, notando la strana somiglianza con il suo figlio più grande, anche lei
aveva cominciato a ponderare di essere diventata pazza.
-Edward!-
Sobbalzò al suo nome, poi voltò la testa verso la porta spalancata al suo
fianco.
Forse non avrebbe dovuto neanche stupirsene più di tanto.
-Mamma- gemette un bambino dagli occhi dorati davvero molto grandi e i
particolari capelli che ne riprendevano il colore.
Gonfiò il petto, fiero, apparso nella stanza come nella marcia di un comandante
in trionfo, arrotondando le guance piene d’aria. Ma il suo aspetto tradiva il
suo atteggiamento in modo davvero subdolo. Edward pensò di non aver mai visto
qualcuno più sudicio e sporco in tutta la sua vita. Le rosee guance annerite
spruzzavano polvere, le pieghe della lunga maglietta bianca si scioglievano in
melma sul pavimento.
Avanzò nella stanza, cercando di nascondere la figura di un altro bambino
aggrappato alla sua schiena, che riuscì a vedere solo di sfuggita.
Corti capelli un po’ più scuri di quelli del suo protettore, palpebre
strettamente chiuse sugli occhi.
-Al.. è colpa mia- borbottò. Dimise quel suo sguardo imbronciato, scansandosi
dal suo compagno.
Il bambino mostrò il suo dito indice, come se farlo dovesse costargli la vita.
Era violaceo, piegato in una posizione che era tutto tranne che normale.
-Edward! Ti avevo detto di stare attento a tuo fratello!-
La donna cercava chiaramente di essere minacciosa.
Ma, palesemente, non era nella sua natura.
-Tre dita rotte, quattro fratture, numero indefinito di botte in testa e ad
altre parti del corpo..-
Edward si volse lì, da dove la voce veniva, trovandoci esattamente quello che
avrebbe dovuto aspettarsi.
Forse una malsana logica c’era, in qualche modo. La grazia di qualcuno gli
aveva donato una guida per l’inferno. O qualcuno che potesse buttarcelo dentro
con una spinta decisa ed economizzasse le perdite di tempo. In ogni caso, se
così era, lui non conosceva davvero l’inferno bene come aveva sempre pensato.
-Ottimo bilancio, fratello maggiore-
-Di che diavolo parli?-
L’armatura fece ciondolare la sua ferrosa gamba, rinforzata di cuoio, giù da
una mensola che avrebbe dovuto a malapena reggere il suo peso.
Indicò la scena che ancora di svolgeva al centro del palcoscenico, di cui loro
erano ai margini.
Sua madre aveva tenuto sulla faccia quello sguardo severo più tempo che aveva
potuto. Ovvero qualche frazione di secondo.
Ora sorrideva, arrotolando una benda bianca attorno al dito, dal poco
rassicurante colore violaceo, del figlio più piccolo.
Tutt’ad un tratto, come la donna ebbe terminato, con un piccolo fiocco ed un
espressione conciliante, la sapiente medicazione, Edward comprese.
Ed ogni giustificazione gli sembrò una presa in giro. Un inganno.
-Eravamo solo dei bambini-
-Inequivocabilmente giusto..- concesse, rivolgendogli le due rosse fiamme.
-… ma non ti conviene sottovalutarla-
-Che cosa?-
-L’invidia di un fratello minore-
Non riuscì a non trattarlo come un completo eretico della sua religione
personale.
Non la vide immediatamente come mortale offesa al suo onnipotente Dio.
Strabuzzò gli occhi, colpito a tradimento.
-Al non è capace di provare invidia-
-Ne sei così sicuro?- tentennò.
-Assolutamente…-
Ma se stava cercando di convincere qualcuno, quel qualcuno era lui stesso.
Senza neanche esserci riuscito. Cercò di non guardare quella ferraglia negli
occhi, ch’egli occhi neanche ce li aveva. Era come essere colpiti da una
freccia sulla schiena, e rendersene conto solo quando il tuo corpo ha versato
già metà di tutto il suo sangue.
E senza neanche avvertirti.
-Ci sono parecchie cose che ti sono sfuggite, mio Nii san, parecchie cose-
-Cose del tipo?-
-Tu fratello ti è venuto dietro, tutta la vita. Un perfetto cagnolino, fedele
al suo padrone-
-CI VOGLIAMO BENE!- urlò, dapprima con indignazione, bruscamente, spaventando
perfino sé stesso.
-Ma non mi aspetto che tu capisca-
-No, certo- concesse l’armatura.
-Forse vediamo solo le cose in modo diverso- Ma suonava molto più come una
presa in giro bella e buona.
-Sei tu che non dovresti vedere proprio niente- Si stupì di sé stesso, che per
un attimo era arrivato a trattare quell’essere come se esistesse per davvero.
Idiota.
-Non bisogna mai chiudere gli occhi su ciò che abbiamo intorno.. o accanto..-
-Tsè.. i brillanti sermoni del mio amico immaginario- altro stupore.
Venne dal suo stesso sarcasmo. Non l’avrebbe neanche sperato, quando dentro di
sé qualcosa si muoveva grattandogli lo stomaco.
Ma l’altro sorrideva, in quella sua bizzarra maniera. Per quanto potesse
riuscire a fare. E lui a vedere.
-Proprio quello che dicevo-
Osservarono le ultime battute di quella rosea scenetta famigliare che Edward
non avrebbe mai dovuto rivedere.
Nonostante quanto calore e quale fragrante odore riuscisse a sentire in quel
momento. E quanto volesse non sottrarsene.
-Non vedi proprio niente?-
-Cosa dovrei vedere?-
Poteva giurare che sembrasse divertito dalla sua cecità.
E il che era un po’ assurdo, nelle parole di una creatura del tutto
immaginaria.
Indicò il piccolo Alphonse, che ora guardava suo fratello maggiore, il quale si
profondeva in una serie di plateali scuse che andavano dal cercare di portarlo
in spalla, con scarsi risultati, ad inchinarsi a baciargli i piedi, per
l’appunto.
-Non ti guarda mai negli occhi-
L’Al bambino, all’improvviso, gli sorrideva, senza vederlo, rivolto alla
credenza su cui tentava disperatamente di salire per sfuggire alla impetuose
scuse del piccolo Ed.
Un po’ anche per dimostrargli di essere più alto, più forte. Migliore. E
neanche serviva.
-E che… che.. dovrebbe significare?-
-La tua schiena-
Per un attimo pensò di rinunciare a chiedere spiegazioni degne di questo nome.
Ma fu interrotto, nei suoi pensieri.
La sua schiena.
Non aveva mai sentito tanto dolore in vita sua. Neanche quel giorno.
Cercava di capire cosa stava succedendo, strattonando le mani all’indietro.
Fuoco.
La sua schiena stava bruciando.
-Che cosa…?-
Se fino a quel momento aveva potuto pensare che quella dannata armatura di
stesse divertendo, davanti alla sua risata sferragliante si poteva pensare
invece che stesse assistendo ad uno spettacolo di cabaret particolarmente
buffo.
-Hai mai provato a chiedere al tuo fratellino quale parte del tuo corpo ricorda
meglio?-
Non capiva il senso di una simile domanda.
Non quando poteva sentire la sua carne sfrigolare nelle fiamme, la spina
dorsale esporsi ad un atmosfera che era solo fantasia.
Tutto era fantasia. Anche se l’odore pastoso di ossa brucianti gli urlava a
gran voce il contrario.
-No.. non.. non faccio simili domande da… maniaco…-
Non smetteva di ridere. Gorgogliante.
-Oh.. no.. niente del genere-
Sbattè il pesante braccio contro i tendini rossi, fumanti, la cartilagine in
scioglimento, beandosi dell’urlo di disumano dolore che ne ebbe in compenso.
La schiena perdeva forma, il suo corpo collassava in avanti, come un ramo
spezzato.
-È proprio questa… la parte che ricorda meglio…-
Rise, scomparve.
E fu come se niente fosse successo.
E il secondo petalo cadde.
I
believed it would justify the means
It had a hold over me
Blinded to see the cruelty of the beast
It is the darker side of me
The veil of my dreams
Deceived all I have seen
Forgive me for what I have been
Forgive me my sins
Credevo potesse giustificare i fini
Aveva un ascendente su di me
Accecato nel vedere la crudeltà della Bestia
E' la parte più oscura di me
Il velo dei miei sogni
Ha deformato tutto quello che ho visto
Perdonami per tutto quello che sono stato
Perdonami i miei peccati
-Corri, grande fratello, ci sono ancora tante cose che hai bisogno di vedere-
Non aveva la forza per rispondergli. Né le parole, né il fiato. Neanche s’era
accorto che, in effetti, quel suo derisorio consiglio non serviva più a niente.
La credenza era diventata uno scaffale, la pentola dei tomi d’alchimia
accatastati l’un sull’altro, lui e suo fratello giacevano davanti a due grossi
ammassi d’argilla, sul pavimento di legno lucido della biblioteca. Le spine
della rosa che aveva messo in una delle tasche del pigiama gli pungevano la
pelle, attraverso la stoffa leggera.
Già meno folta di quello che era.
Se aveva dovuto correre, sinceramente non ne aveva idea. Ma le sue mani
scorrevano ancora sulla schiena, integra. Ed era come se lo trovasse strano.
Neanche sentiva di poter credere in sé stesso, come se tutto fosse nella norma.
Non lo era, davvero non lo era.
-Ti vedo stanco, grande fratello-
Avrebbe trattenuto un imprecazione tra i denti prima di sputargliela addosso,
se solo non avesse saputo che era perfettamente inutile.
-La.. la.. la mia schiena.. bruciava..-
-Io non esisto. L’hai detto tu no? –
Lo prendeva in giro, dannazione. Era come realizzarlo per la prima volta.
-Mi prendi per il culo?-
Si era limitato a scuotere il pendaglio dell’elmo, esprimendo il suo
divertimento ancor meglio di quanto avrebbe potuto fare una qualunque faccia
umana.
-Ti conviene guardare. Questa è una delle più divertenti- ne parlava come di
una barzelletta buffa.
Digrignò i denti, senza controbattere. Anche se, poi, se ne ricordava bene.
Il piccolo Edward stava tracciando un cerchio alchemico con un gessetto, con un
espressione così assorta che chiedendoglielo, probabilmente, non si sarebbe
neanche ricordato come si chiamava. Alphonse lo fissava, tenendo un dito sul
labbro inferiore, in un gesto terribilmente infantile.
Tenerezza forse. Profonda tenerezza e un po’ di rimpianto.
Ma non c’era proprio niente di divertente.
-Cosa c’è di divertente?-
Chiese, ma gli fu intimato senza troppa enfasi di tacere, poi di osservare con
più attenzione.
Anche se non ne vedeva l’utilità. Sapeva bene cosa stava succedendo.
Si sfidavano a chi trasmutava il pupazzo più bello.
Non era una cosa poi tanto strana, o di cui dovesse ricordarsi come un qualche
monito.
Un bel ricordo. Tutto qua.
Lo apostrofò con un gemito indignato, anche se obbedendo al tacito ordine che
gli era stato impartito.
Il pupazzo di Al era già pronto, e se lo stringeva tra le braccia in modo
scomposto, senza preoccuparsi troppo se si trovava per terra o sul suo grembo,
dove l’aveva posato prima di cadere in quel suo stato di trance. Era una
semplice sagoma umana, priva di altri particolari. La testa gli ciondolava
sinistramente.
E, anche di questo non si preoccupava poi molto. Le movenze del fratello lo avevano
rapito in una dimensione del tutto diversa.
Come in una specie di assurda matrioska d’illusioni che s’erano fagocitate l’un
l’altra.
Prima di dare il via all’incanto Ed aveva rivolto il pollice all’indietro. Al
tenne allora la bocca chiusa, una linea di aspettative troppo grandi sul mento
contratto, annuendo in modo ufficioso. Dopo aver incamerato tutta l’aria
possibile poggiò le mani sul cerchio, con la tacita speranza che non
rimanessero soltanto scarabocchi.
-Eppure te ne ricordi bene…-
Trasalì. S’accorse solo allora di aver trattenuto il respiro, come avesse
atteso qualcosa d’inaspettato.
Ma tutto intorno a lui incominciò ad evaporare. E tutto gli sfuggi da davanti
agli occhi.
Sia che quella scena fosse terminata esattamente come se l’aspettava, sia che
non fosse stato così, non lo venne a sapere.
-Ti ho rovinato la sorpresa?- barcollando su un pavimento ancora sconosciuto,
si voltò al suo fianco.
La sua sgraziata figura di metallo spiccava nel buio della notte più buia del
carbone.
Forse per quel loro pruriginoso legame, che lui non desiderava affatto.
-Niente affatto-
-Non avrei mai voluto-
Ghigno per ghigno. Faccia di bronzo per faccia di ferro.
-Dove mi hai portato di bello?-
L’armatura rise, senza scomporsi. Fece ruotare la testa di metallo sul corpo di
metallo, vedendo chissà cosa, nel buio che impediva di vedere qualunque cosa.
Non riusciva a non distaccarsi dall’idea di trovarsi in una remota parte di
quell’inferno personale, che era riuscito a covare dentro sé stesso per tutto
quel tempo.
All’insaputa di Al, di chiunque altro. Rabbrividì, terrorizzato.
Fra i suoi tanti tentativi inutili di fuggire, si strinse le spalle con tutta
la forza delle sue braccia.
Dov’è che stava pensando di andare, allora?
-Hai bisogno che te lo dica?-
A quelle parole, il buio si diradò come nebbia.
Lo stesso piccolo Alphonse che aveva già visto, stava appallottolato sul suo
letto.
Nella stanza che avevano da bambini, e che non doveva essere altro che cenere
inconsistente nell’immensità del cielo.
Come tutta la loro casa, del resto. Ma non stette a rimuginare su questo, non
più. Non c’era nessun senso da cercare.
Deglutiva, nervosamente. Eppure era così identica che avrebbe desiderato con
tutto il cuore precipitarsi a capo chino sul materasso sgangherato che una
volta era suo, o forse non del tutto, ed esibirsi in una delle due follie
infantili. Anche se, poi, si era costretto a dimenticarle così velocemente che
non potevano essergli più molto chiare. I buchi nelle coperte sfilacciate
gliene davano un idea.
Così come il faccino angelico di quell’Alphonse di nove, o forse otto anni
appena.
Non gli aveva mai fatto tanta paura in tutta la sua vita.
-Alphonse Elric…- incominciò la sua guida per l’oltretomba, con tono da chi
stava per declamare una lunga biografia.
-… il più memorabile topo da laboratorio che la storia dell’alchimia ricordi.
Quale onore! Vissuto all’ombra di suo fratello…-
-Non.. non ne parlare come se… non ci fosse più…-
-… amante appassionato! Ed eppure.. mai ripagato con la stessa moneta…-
Aveva continuato, ignorando il suo pigolio inconsistente. Lieto che finalmente
avesse capito chi comandava.
E chi doveva avere paura, e chi incuterla. Perché non era lì per valutare i
suoi peccati, ed assegnargli una pena commisurata.
Né per perdonarli, figuriamoci. Come uno spaventapasseri appostato all’angolo
di una porta socchiusa, doveva spaventarlo. Da dietro un angolo che non si era
mai soffermato a guardare con la giusta prospettiva. Così buio che l’occhio vi
affondava senza capire un bel niente. E non aveva importanza chi era lui.
Non quanta ne aveva chi era stato Edward Elric. E quello che ancora aveva da
vedere.
Non c’era nessuna mano a stringergli la nuca, a sollevarlo per la collottola
come un gatto capriccioso. Ma in ogni caso, vide.
L’Alphonse, nel suo letto bruciato, piangeva, con il visino affondato nel
tronfio cuscino bianco, con le mani davanti alla fronte tremante.
Nessuno a consolarlo.
-A.. Al..-
-Tu non ci sei?-
-Io c’ero sempre –
O almeno così credevo.. pensò.
-No.. infatti ci sono loro, per lui-
Senza chiedere spiegazioni in cui comunque non sperava, si rivolse là dove i
lamenti provenivano. Alphonse aveva compagnia, in effetti.
Non quel tipo di compagnia che lui aveva sempre voluto per lui. Ma qualcosa gli
diceva, assennatamente, che intervenire sarebbe stato ancora una volta inutile.
Strinse i pugni sui fianchi. Maledettamente impotente.
Decine e decine di pupazzi di argilla, sagome umane senza fronzoli come dita o
orecchie, si arrampicavano con le braccia tozze su per le coperte.
Mugugnando infastiditi dall’ardua impresa, strisciavano scompostamente sul
corpo del bambino, come cercando di comunicargli qualcosa che solo lui poteva
capire.
Sulla superficie instabile della sua schiena, si adoperavano di portare i loro
lagnosi messaggi direttamente nel cervello.
Le teste in bilico sui colli corti li intralciavano, facendoli cadere come
sacchi di patate.
-Che… cosa sono?-
-Sai che notte è questa?-
L’armatura barcollò, sporgendosi verso di lui.
-Che.. che importanza ha?-
-Ha molta importanza-
Se c’era un confine tra follia e normalità, realtà e illusione, in quel momento
fu assolutamente certo di averlo perso di vista.
Alphonse Elric non era qualcuno che si poteva sperare di conoscere così
facilmente. La sua stessa presunzione era stata la sua condanna.
Ammetterlo sarebbe stata la sua sconfitta.
O almeno sperava che potesse esserlo.
-Che sta succedendo?- chiese, la voce ferma.
-Questo era l’inizio della fine. Anche se lui…- indicò il piccolo Al, che
stringeva convulsamente gli angoli del cuscino -… non poteva saperlo-
-Di che diavolo di fine parli?- più che altro era difficile ricordarsi cos’è
che era mai cominciato.
Ticchettando abile il tozzo dito sul petto, rispose saccente.
-Vostra madre intravedeva la morte.. questa stessa notte della sua vita-
Deglutendo nervoso, ancora, si strinse le spalle sussultanti, senza riuscire a
farle star ferme.
-Tu saresti stato l’uomo di casa, questo lo sapevano tutti ma.. lui? Cos’è che
avrebbe mai potuto fare lui?-
Nessuna obiezione lo fermò, continuò con più forza.
-… Cosa poteva fare lui, se non lasciare tutto nelle tue mani? Le sue erano
ancora troppo piccole, infondo-
Era quello che aveva fatto. I risultati non erano stati dei migliori, non c’era
bisogno di terminare il discorso, per capirlo.
-I tuoi occhi vedevano lontano, vedevano il futuro..- cigolava, su un ritmo che
lui non udiva -… invece i suoi, vedevano loro-
Non guardava più. Si era costretto a piegare tanto le spalle, che eppur ancora
tremavano, che l’unica cosa che poteva vedere era il baratro del pavimento.
In cui non riusciva in alcun modo a precipitare. Per quanta forza mettesse nel
desiderarlo.
Tutt’ad un tratto gli sollevò il viso. I suoi occhi incontrarono due lumi
rossi, di fuoco gelido.
-Peccato che questi occhi non fossero in grado di vedere un bel niente-
Rabbrividì quel poco che bastava per non sentire più nessuna parte del suo
corpo. Del tutto abbandonato.
Non vide l’ultima sua mano sventolare al nulla di un mondo in cui nessuno gli
avrebbe teso la mano. Neanche lui. Che dormiva dall’altra parte della stanza.
Ciò che udì intorno a sé fu soltanto lo strazio di suo fratello, inghiottito
dai corpi d’argilla che lo soffocavano, come l’assolo di un soprano sul
silenzio ornato di viscidi gemiti. Ciò che stava succedendo a lui non aveva
neanche un millesimo dell’importanza della salvezza di quel bambino urlante,
che era stato nascosto nei suoi ricordi.
Non poteva aiutarlo. I suoi occhi non vedevano niente.
Non l’avevano mai fatto.
E il terzo petalo, cadde.
I’m
hoping, I’m praying
I won’t get lost between two worlds
For all I have seen
The truth lies in between
Give me the strength
To face the wrong that I have done
Now that I know the darkest side of me
Sto sperando, sto pregando
Non mi perderò tra due mondi
Perché tutto quello che ho capito
E' che la verità giace nel mezzo
Dammi la forza
Di affrontare il male che ho causato
Ora che conosco la parte più oscura di me
Non riusciva più a stargli dietro.
Correva, a perdifiato per corridoi che conosceva come le sue tasche, senza
sapere dove i suoi piedi l’avrebbero portato.
Non poteva neanche fermarsi a chiedere perdono. Non poteva guardarsi alle
spalle, fin quando non avrebbe fuso quella ferraglia del cazzo nell’acido.
Liquefarla con le sue stesse mani. Con la sua stessa alchimia. Quella che li
aveva resi pieni, e vuoti allo stesso tempo.
Non era utile convincersi che non esisteva. Non più.
Doveva solo correre. Anche se poi non ci sarebbe più stata una ragione per
farlo.
Era ancora notte, se ne rendeva conto anche senza aver guardato il cielo. E
s’era anche accorto che la parete non era mai stata così lunga.
Il suo percorso così infinitamente lungo da non poterne vedere più neanche la
fine. Anche se, tutt’ad un tratto, aveva deciso dove andare.
Pur malsana che fosse, la logica di quell’incubo notturno andava seguita.
E avrebbe potuto condurlo in un unico luogo.
La sua risata sferragliante gli martellava le orecchie. Come se avesse compreso
le sue intenzioni. E che in qualche modo le approvasse.
In fondo, la notte avrebbe dovuto comunque aver fine. E l’incubo non poteva essere
in alcun modo interrotto.
Non in quel momento.
Non quella notte.
-Sapevo che saresti arrivato-
Non si affannò per trovare la provenienza di quella voce. Ovunque si trovasse,
non l’avrebbe comunque guardato.
Non se -per quanto assurdo e poco scientifico potesse essere- fosse stata
l’ultima cosa che avrebbe mai potuto vedere.
Eppure, era lì che si trovavano. Doveva pur avere il suo valore. Doveva pur
significare qualcosa.
Là. Dove tutto era cominciato, e finito.. allo stesso tempo.
-Era facile da indovinare, in fondo-
C’era ancora odore di sangue e combustione nell’aria.
Il cerchio alchemico inciso sul pavimento.
Forse s’era solo ritrovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Ma respirò più a fondo. Quel sogno non sarebbe svanito soltanto svegliandosi.
Era un ciclo che andava completato, con annessi e connessi. Una colpa che
andava espiata con un pegno definito. In questo non poteva esserci nessun
inganno, né alcuna illusione. E per uscirne, doveva arrivare lì sin
dall’inizio.
E che così sia.
-Meglio così, il sole sta per tramontare…-
Martellava una superficie metallica con il tallone, segnando quel ritmo
inascoltato che non perdeva mai d’orecchio.
-Questa questione va risolta, entro la fine di questa notte. L’avevo già detto,
no?-
-Credo di averlo intuito-
-Meglio così…- rise -… ci sono ancora alcune cose che devo spiegarti… ma non
prenderò troppo tempo-
Annuì, condiscendente, stringendosi nelle spalle che gli rivolgeva. In piedi in
mezzo alla grande cantina, immersa in quell’odore che faceva storcere il naso.
Ed in quel momento, se ne accorse.
Alphonse stava nel centro della cantina, con il suo corpo da quindicenne. Lo si
doveva vedere appena, attraverso gli sbuffi confusi di fumo bianco.
Magro e longilineo, con la forma incompleta della schiena che gli faceva
affrontare il mondo sempre un passo indietro. La testa alta, e fiero lo
fissava.
Era esattamente davanti a lui, fissandolo con lo sguardo candido e vuoto.
Il suo ultimo nemico da affrontare.
-Ti stava aspettando- lo informò dell’evidenza.
Sorniona, l’armatura rideva.
-Tuo fratello è vissuto fin ora guardandoti la schiena, facendoti da spalla, ma
non hai mai pensato che non avrebbe mai voluto, almeno per un po’, prendere una
decisione?- Ora sembrava quasi parlasse con voce rotta, piegata, devota alle
sue stesse parole
-… tu hai sbagliato, tu hai risolto il tuo errore. Ma lui?-
S’era chinato in avanti. Gli perforava la schiena. –Lui non è stato altro che
un tuo errore… e poi il tuo trionfo. Non rifiuta né rifiuterà mai il tuo amore
ma.. il suo?-
Istintivamente aveva guardato il suo braccio d’acciaio. Non aveva mai avuto
importanza. Non c’era molta differenza tra la carne e l’acciaio, se si parlava
di due soli arti.
Alphonse non era mai stato d’accordo. Diceva che, una volta recuperata la forma
fisica, avrebbe sicuramente riportato i suoi arti indietro.
Edward si limitava a ruotare il capo, sorridendo esasperato.
Tacendogli il fatto che gliel’avrebbe impedito ad ogni costo.
-Anche lui vuole guardarti la schiena.. adesso-
La voce di Al.
Alphonse era scomparso dal mezzo della cantina. Al suo posto erano rimasti solo
ondeggianti sbuffi di fumo acido.
Troppi cambiamenti per valutarli tutti in una sola volta. Guardò ovunque,
tranne che a lei, che là dietro rideva delle sue disgrazie.
Era più vicino di quanto si aspettasse.
-Nii ssssaaan..- sibilò, come un serpente, pochi centimetri divideva il mento
di suo fratello dalla sua spalla. Dietro di lui.
Aleggiando sul terreno, gli si era lanciato addosso con l’ineluttabilità dello
scontro negli occhi.
Ma il suo Al non l’aveva neanche toccato.
-A..Al-
Non parlava.
Il respiro era pesante, come se avesse corso per chilometri e chilometri senza
mai fermarsi.
Quegli occhi spalancati, come cercando di scrutare qualcosa di assurdamente
lontano.
Poi l’aveva abbracciato. Continuava a non toccarlo. Le sue braccia lo
cingevano.
Impedendogli di fuggire.
Gli rivolgeva il palmo delle mani davanti al viso, levitando sul suo corpo.
Avevano tutta l’aria di essere pronte ad afferrargli il collo e spezzarlo, o
stringerlo.
Anche se poi, in effetti, lui era lì apposta. Si sentì stupido, folle,
paranoico, per averlo pensato.
Ma non riusciva a far star fermi i muscoli delle braccia, che andavano avanti e
indietro in scatti nervosi sotto la sua pelle d’oca.
Quell’Al era senza voce, senza vita, senza corpo, senza peso. Ma non riusciva a
togliersi dalla mente l’idea che fosse più reale che mai.
-Al..- ripeté. Poi il rosso lo sommerse.
I palmi che guardava come se non ci fosse stato nient’altro, versavano più
sangue di quanto un corpo umano potesse contenere.
Una lunga ferita s’incideva nella carne, dalla punta del pollice fino alla fine
del polso, senza nessuna arma. Senza nessuno ad usarla.
Le linee del taglio non si scurivano, il liquido ne usciva a fiotti
dilatandolo, fluido ed incandescente contro l’ossigeno e l’acidità
insopportabile nell’aria.
Le gocce gli macchiavano il viso, le labbra. Combatteva col desiderio di non
passarci la lingua, e sentire che sapore avesse.
L’odore era buono. Dolce e ferroso, così forte che le narici lo avvertivano
senza impegno.
Il sapore era l’ultimo baluardo alla sua fine.
Era la parte più oscura di sé stesso. E la più luminosa.
Era lui.
Non poteva essere nessun’altro che lui.
La sua strada. La sua uscita da quel mondo, quel confine in cui si stava
perdendo.
-Al…- ripetè.
Poi, improvvisamente, l’aveva toccato.
Il suo petto, collimava con la sua schiena ancora dolorante.
Perfettamente.
Era la fine.
Sia che fosse reale.. sia che non lo fosse.
E il quarto petalo cadde.
Perdonami, fratello mio.
Ovunque tu sia.
How
can blood be your salvation
And justify the pain that we have caused
Throughout the times
Will I learn what’s truly sacred?
Will I redeem my soul, will truth set me free?
Come può il sangue essere la tua salvezza
E giustificare il dolore che noi abbiamo causato
Attraverso i tempi
Imparerò cos'è veramente sacro?
Redimerò la mia anima, la verità mi libererà?
Della notte non c’era più traccia.
Del rosso di cui le sue mani si erano tinte, erano rimaste soltanto grosse
perle di sangue sulle unghie sporche.
Eppure, ora le sue mani erano candide. L’odore era svanito, diluito nell’aria
di un luogo che non ricordava più.
Insieme ad ogni memoria della notte, e delle sue tenebre. E di tutto il suo
terrore.
L’alba gettava la sua luce bianca dalle vetrate spalancate. Non ricordava che
nessuno dei due avesse pensato ad aprirle.
Aveva troppe domande nella testa, e nessuna forza nelle membra del suo corpo
per muovere anche un solo passo.
-Alphonse?-
Non ebbe risposta.
Il suo lungo sonno senza sogni l’aveva sfiancato molto più di quanto
avrebbe mai potuto fare un qualunque giorno da sveglio.
L’assenza di suo fratello, non aiutava a migliorare la sua condizione.
Sospirando, con un inspiegabile tensione nelle gambe, s’alzò, verso il balcone.
La sagoma del sole era evanescente, confusa nella sua stessa luce. Così bianca
che il cielo appariva soltanto un grosso foglio bianco in attesa che qualcuno
ci scrivesse. Un sorriso gli fece allungare le labbra. La figura di Alphonse,
cinta solo del suo pigiama latteo, si confondeva nella luce bianchissima.
Avrebbe potuto sprecare ore su ore a sbatterci l’occhio, se solo non l’avesse
immaginato.
-Al!-
Non c’era verso.
Sorrise, in finta esasperazione, poi gli si avvicinò.
I suoi piedi nudi sentirono la consistenza di alcune gocce, probabilmente
cadute dal bicchiere d’acqua che Al s’era fatto scrupoli dal chiedergli di
andare a prendere.
La sua insensata ricerca d’indipendenza era ammirevole, a suo modo. Anche se,
per Edward, riusciva solo ad essere preoccupante.
Era troppo presto.
Il loro piccolo idillio era troppo importante perché la crudeltà del mondo vi
potesse avere accesso.
Quasi sacro.
-Al!-
Ora stava seriamente incominciando ad essere nervoso.
Alphonse non gli rivolgeva la benché minima attenzione. L’aveva tutta quel
cielo, quel chiarore che rendeva la sua pelle così splendente.
Non aveva davvero l’intenzione di arrabbiarsi, e probabilmente lo sapevano
entrambi. Ma non c’era niente di male, a provare a farglielo credere.
-Alphonse Elric! Che diavolo ci fai ancora con quel malefico fiore in mano?
Eppure ti ricordi quello che è successo ieri!-
Ignorò completamente il fatto che fosse un suo regalo, e che, in quanto tale,
potesse farci tutto quello che voleva.
Ma era troppo presto.
-Nii…Nii san…-
Forse era stato un po’ troppo brusco.
Il rumore di un pianto gli arrivò alle orecchie, distintamente.
-Ehi ehi.. da quand’è che sei così sensibile?- rise.
Ed in quel momento, se ne accorse.
Quella non era acqua.
-Al..-
Alphonse stava nel centro della cantina, con il suo corpo da quindicenne. Lo
si doveva vedere appena, attraverso gli sbuffi confusi di fumo bianco.
Magro e longilineo, con la forma incompleta della schiena che gli faceva
affrontare il mondo sempre un passo indietro. La testa alta, e fiero lo
fissava.
Era esattamente davanti a lui, fissandolo con lo sguardo candido e vuoto.
Il suo ultimo nemico da affrontare.
-Nii san …-
Una lunga ferita s’incideva nella carne, dalla punta del pollice fino alla
fine del polso, senza nessuna arma.
Senza nessuno ad usarla.
Avrebbe voluto prendersi la testa con le mani. Stringere fino a non poter
sentire più niente.
Ma gli occhi che lo fissavano imploranti erano bianchi. Non ne sapeva il
perché, ma se ne sentiva terrorizzato.
Riscuotendosi si accorse che erano poche gocce.
Quella ferita non aveva proprio niente di nuovo.
-Scusa.. lo so che le mie ferite fanno fatica a rimarginarsi.. avrei dovuto
farmi medicare meglio..-
Le spine della rosa.
Alphonse rideva, mortificato della sua mancanza. Come se niente fosse.
-Ho fatto anche cadere tutti i petali! Ne è rimasto solo uno… mi dispiace da
morire…- In effetti, non c’era proprio niente di cui preoccuparsi.
Edward sorrideva a sua volta, con un disagio di cui non comprendeva la ragione
che gravava sulle spalle.
In effetti c’era qualcosa che non sapeva. Ma era come trovarsi davanti a
qualcuno che parla in straniero, e non conoscerne la lingua.
Lasciare stare era la cosa migliore da fare.
La sua ala avrebbe potuto proteggerlo ancora a lungo.
Edward non rispose, ma il suo sguardo di rimprovero e l’occhiata birichina che
ebbe in cambio, dicevano già tutto.
Quella era la loro redenzione.
Quella era ciò che di più sacro avevano.
Alphonse guardava il sangue.
Guardava il vuoto che si sprigionava sotto la balconata.
Se Edward non fosse arrivato in tempo, avrebbe avuto fin troppo di cui
preoccuparsi.
Lui sarebbe stato lì. In fondo al piccolo vuoto. Sarebbe bastato.
Ma lui non avrebbe avuto nessun cuore da dargli in cambio del suo dolore.
In onore dello scambio equivalente.
Libertà.
Protezione.
Ossessione.
Sempre i soliti peccati.
Non avevano imparato proprio niente.
Blinded
to see the cruelty of the beast
It is the darker side of me
The veil of my dreams
Deceived all I have seen
Forgive me for what I have been
Forgive me my sins