Lei chiuse gli occhi colorati di azzurro tutto intorno, e appoggiò il mento sulla spalla di lui. Intanto avanzava il buio sbiadito e tremolante. In quel fumo denso e oscuro prendevano corpo tutte le creature nate dentro di lei. Dai ricci scuri nascevano ali e occhi rossi, incastrati in quella rete profumata. Mentre le immagini sul muro già si confondevano con la realtà. Non ebbe il coraggio di aprire gli occhi, e vederle dirigersi verso di lei, che aveva nel fiato quel soffio vitale che le aveva plasmate. Non sentiva più il contatto della spalla contro il suo mento, né sentiva addosso di lei occhi fissarla. Solo ombre provenire dalla sua ombra, recidere con gli artigli l'onda nera attaccata al suo corpo, liberarsi, dimenarsi, scappare, scomparire. Finalmente l'azzurro si aprì, liberando due iridi color legno. Alzò il mento, portandolo all'indietro e inclinando la faccia. Sentì la saliva scenderle lenta per la gola, e parole incastrate fra i denti. Ancora nessuno la stava guardando. I mostri erano scappati aldilà del muretto, verso il mondo. E lei poteva tornare a respirare, fino a quando non li avrebbe rivisti. Allora avrebbe provato di nuovo paura, angoscia, prigionia. Ma non indifferenza, o superficialità. Quei grossi scogli neri si nutrivano della sua anima, in profondità cercavano ogni piccola cosa, ogni residuo di vita. Come spazzini di un universo interiore. Divoravano la sua mente, e la lasciavano in un angolo smorto della stanza, con la bocca viola aperta a metà. Alla fine del pasto, con gli occhi circondati da quell'azzurro vena, camminavano da soli strascinandosi sul pavimento grosse bolle di petrolio e fuliggine, polvere annerita e catrame. Un odore sottile come un foglio.