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Autore: aniasolary    27/06/2014    14 recensioni
Natalie Truman, diciannove anni, buone intenzioni e scarsa capacità a far andare le cose come vorrebbe, non ha paura della vita. Tra sogni difficili, l’amore per un ragazzo irraggiungibile, impropri pasticci e situazioni imbarazzanti, il desiderio di diventare grande e sentirsi grande si fa sentire, rendendo il suo nido famigliare sempre più opprimente.
Il mondo è ai suoi piedi.
Al tempo stesso, quel mondo può caderle addosso.
L’unico modo per affrontarlo è cominciare a camminare con le proprie gambe, sperando di non inciampare nelle sue stesse scarpe.
«Un po’ per volta, il dolore se ne andrà. Non dimenticherai niente, ma starai bene. È un po’ come ricominciare a scrivere una melodia, ma senza cancellare le note precedenti. Con l’esempio del vecchio, puoi metter su davvero qualcosa di nuovo e migliore.»
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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4.
Tra la spalla e l'orecchio faccio in modo che il telefono non scivoli a terra contro la forza di gravità e, nello stesso istante, passo il panno sul bancone per pulirlo.
«Racconta, tesoro, com’è l’appartamento?»
«Carino, mamma.» Sospiro. «Un po’ spoglio, ma non mi lamento. Sto abbastanza bene, devo dire.»
«E i tuoi vicini? »
Mi sfugge una risata. «Molto corduali e astemui
Mia madre deve aver sputato da qualche parte la sua sorsata di tè verde. «Che cosa?»
«Molto cordiali, davvero. »
E molto amanti della vodka, ma meglio che me lo tenga per me.
«Meglio che ti ricordi che tra esattamente due giorni scade la tua carta di credito.»
«Non potrei mai dimenticarlo, mamma.» Sbuffo. «Le cose meno piacevoli sono quelle che non dimentico mai.»
Dall’altra parte del telefono solo silenzio, il silenzio e il suo respiro, la stranezza di non ricevere un pronto rimprovero, una risata di scherno, una prova di disgusto per la ragazza diversa che vorrebbe che fossi.
«Puoi tornare a casa quando vuoi, Natalie.»
«No grazie, sto bene qui. »
«L’iscrizione all’università è pronta, manca solo la tua firma. »
«Per fare l’avvocato come papà? Questo pensiero mi fa sclerare male, non ci penso proprio. Ora devo chiudere, mamma, ho un datore di lavoro molto severo. Ciao.»
«Natalie, aspe…»
Chiudo la telefonata e metto il cellulare in tasca, alzo il viso e di fronte a me, con un vassoio in mano, Suzanna mi fissa con una sguardo attento da genitore.
«Sei una figlia difficile da domare, eh, Natalie?» chiede.
«Di certo non sono un cavallo.» Sbuffo. «Ma se lo fossi… sì, sarei uno che scalcia.»
Suzanna ride, fa il giro del bancone e mi raggiunge; continuo a passare il panno sul bancone quando il cappello mi cade di proposito a terra e mi ritrovo con i capelli tutti scompigliati, le mani fredde e screpolate di Suzanna che mi sfiorano le guance.
«Ho un altro figlio oltre al piccolo Ben. Si chiama Leonard ed è solo di un anno più piccolo di te. So come siete fatti voi ragazzi, sono stata giovane anch’io. Volete scappare e scappare e crescere dal giorno alla notte, essere padroni della vostra vita all’improvviso, con il mondo in pugno. E voi già ce l’avete, il mondo in pugno. Ma fin quando c’è la mamma a ricordarvi di svegliarvi a un orario decente e a sgridarvi per le vostre varie cavolate giovanili, vi sembra di stringere aria.» Mi sorride con un’aria saggia e si china a raccogliere il mio cappellino. Me lo porge ed io non riesco che a guardarla con un moto di aspettativa a farmi contorcere lo stomaco. «Non è così?»
Scuoto la testa. «Non conosci la mia famiglia.»
«No, non la conosco, è vero. Chissà quanto ha sbagliato, chissà quante volte avrai pensato brutte cose… ma tua madre ti ha chiamata, vuol dire che qualcosa di te le interessa, no? Ed io direi non solo qualcosa. Stava anche per dirti altro…»
Forse.
Storco la bocca come se avessi appena assaggiato un frutto marcio.
Guardo dritto di fronte a me.
E poi sento il cuore piombarmi in gola come se nel petto avessi una fionda. Mi sento cadere sulle ginocchia, le labbra secche come carta vetrata; respiro come un cane con la lingua da fuori.
«Natalie,» mi chiama lui, splendido nella sua camicia bianca e jeans, alto, irraggiungibile, è lui ad avvicinarsi a me.
«Arthur,» riesco a dire, e il suo nome suona sospirato, come se non aspettassi altro che lui fosse qui per chiamarlo. E mi sento così stupida e quasi anche spaventata, quando mi accorgo che non è felice di vedermi.
Un’espressione arrabbiata gli oscura la solarità del volto e gli occhi sono ridotti a due fessure.
«Sì, Arthur. Sono il terzo numero per ordine alfabetico sulla tua rubrica. Sono tra Asilo Multicolor e Azalea Strause.» Ridacchio nervosa, mentre Arthur alza di un altro tono la voce. «Perché non mi hai chiamato?»
«Vuole ordinare?» si intromette Suzanna.
«Suzanna, tranquilla, è un amico… » asserisco io, e ho la voce che trema. Come faccio a dire a Suzanna di stare tranquilla quando il mio stomaco gira nella mia agitazione quasi fossi una trottola?
«Già, un amico. Natalie Hanna Truman, ti conosco da diciassette anni, e quando ti sei trasferita per la prima volta nella tua vita, e hai trovato il tuo primo lavoro nella tua vita, ed io ero in ospedale pensando che ti avrei trovata girando l’angolo… »
«Art… » Non credevo che sarebbe stato possibile. Ferirmi il cuore con le mie stesse mani, ferendo qualcuno che non sono io, inconsapevolmente.
«Buongiorno. Ha già richiesto un tavolo? » chiede la signora Faryland, entrando a grandi passi dalla cucina. Arthur la guarda interdetto per un attimo, si rabbuia, interrotto nel suo discorso di delusione nei miei confronti, ma pare che capisca subito che ora è meglio trattenere il suo fiume in piena.
«Sì, proprio ora la signorina Natalie mi stava accompagnando. »
La signora Faryland sgrana gli occhi. «Chi? »
Arthur mi indica, visibilmente sorpreso dalla domanda; almeno questo l’ha distratto da quello che mi stava dicendo.
«Oh, la ragazza di Liverpool! » esclama la signora Faryland. «Che cosa aspetti? Muoviti,» mi ordina.
Faccio il giro del bancone e mi dirigo verso il primo tavolo libero che vedo, Arthur mi cammina a fianco. «Tua madre non ti ha detto che ero qui a Londra?»
Tossicchio.
«Io… abbiamo parlato poco, al telefono, ho dovuto… »
Sono un’idiota.
Non è un dovere, ma tant’è.
«Portami quello che vuoi, Natalie,» dice, prendendo posto. «Va bene qualunque cosa. »
«Il tè freddo è finito, perciò… »
«Portalo caldo, quello che ti pare.»
Scrivo sul taccuino che porto sempre con me e trattengo le lacrime.
«Torno subito.»
Mi occupo personalmente del tè, cercando di non piangere, perché non ho bisogno di una laurea in Giurisprudenza se sono già specializzata a rovinare tutto. Non ho chiamato Arthur, è vero, non gli ho detto nulla di quello che avrei fatto. Pensavo che fosse una mossa stupida, da bambina; e vorrei che lui mi vedesse come una ragazza che di anni ne ha diciannove, quasi venti, impaziente di vivere, e che ha appena cominciato a farlo. Ma forse è una definizione troppo in gamba per una combinaguai come me. Ed io sono troppo combinaguai per pretendere che succeda qualcosa con uno come Arthur… Arthur.
Poggio il vassoio con la teiera, la tazza e i biscotti sul suo tavolo, senza guardarlo.
«Mi dispiace, Natalie.» Ho un nodo alla gola. «Mi dispiace, io… la verità è che quando sono andato a casa dei tuoi e non ti ho trovata è stato come se mi cedesse la terra sotto i piedi.»
Alzo lo sguardo ed incontro lui, e i suoi occhi, e una sincerità che mi attraversa il cuore con la freddezza di una lama affilata insieme alla dolcezza della mia sorpresa.
Arthur mi prende la mano libera e la stringe alla sua, ed io vorrei solo abbracciarlo quando la signora Faryland, dal bancone, nonostante la sua miopia avanzata, butta l’occhio su di noi.
Lascio che la mia mano scivoli via dalla sua e deglutisco nel nervosismo.
«Perché non mi hai lasciato nemmeno un messaggio?»
Faccio un sorriso forzato, pensando che la signora Faryland non smetterà di fissarci, prendo la teiera e comincio a versare il tè. Poi abbasso la voce. «Credevo di infastidirti.»
«Infastidirmi? Natalie, che cosa ti salta in mente? » Mi prende per il polso e mi attira a sé e il suo respiro mi lascia una nuvola di calore sul petto per cui potrei anche ribollire in me stessa. Scotto come se avessi la febbre. Arthur sospira rumorosamente.
«Dio, è bollente! » esclama, alzandosi all’improvviso, e il tè che stavo versando senza accorgermene sulla sua camicia cade sul pavimento.
«Oddio…»
«Ragazza di Liverpool! » grida la signora Faryland.
Oh no.
Arthur, con la camicia bianca bagnata e l’espressione sconvolta, parla ancora prima che io possa trovare un modo per giustificarmi.
«Colpa mia,» dice.
Mi volto verso la signora Faryland, che mi guarda interdetta, e poi guarda Arthur che continua a parlare. «Il tè lo pago ugualmente ma posso usare il bagno?»
La signora Faryland annuisce paonazza e fa per rientrare in cucina. «Pulisci, ragazza di Liverpool!»
Ma Arthur mi tira per il polso e mi spinge nel bagno, deciso, per poco vado a sbattere contro il lavandino.
Mi respira sul collo.
Ha il fiato caldo e accelerato ed è la prima volta in cui per motivi diversi da un abbraccio mi è così vicino.
Vorrei solo che mi facesse voltare e mi baciasse fino a farmi soffocare nel mio respiro.
Mi fa girare, mi guarda negli occhi e mi accarezza il viso e non dovrebbe toccarmi perché ovunque mi tocchi sento la pressione che ogni mio desiderio di lui ha su di me.
Qualcuno bussa. «Natalie?» mi chiama Suzanna.
«Suzanna, va tutto alla grande! » le rispondo.
«Ti prego, non dirmi che stai provando tutto il kamasutra! Non è il momento! »
Oddio, che vergogna.
«Credo che tu mi abbia in pugno, Natalie.» Sorride appena. «Il più giovane e promettente manager di Liverpool che va in giro a Londra con la camicia bagnata di tè caldo in pieno agosto.»
«Perché sei qui? »
«Per te. Mi sono inventato un’importante questione d’affari… devo tornare stasera. A che ora finisci il turno?»
«Alle sette,» sussurro.
«Okay, aspetterò.»
***
Poi siamo io ed Arthur, siamo io ed Arthur come non siamo mai stati prima, perché camminiamo fra le strade di Londra in un silenzio imbarazzato spesso interrotto da qualche frase di circostanza, ed io sento la mia insostenibile voglia che la distanza si disperda fino ad essere assente per poterlo abbracciare e dargli il bacio dei miei sogni. Nonostante i guai che riesco a provocare, non sono mai stata così coraggiosa da buttarmi a capofitto sui miei desideri.
Li vedo passarmi davanti, li vedo andare via, li vedo vivere senza che si accorgino di me.
«E così qui è dove hai trovato casa? » chiede Arthur, allontanandosi di qualche metro dal portone per osservare il palazzo. La macchia sulla camicia gli dà un’aria trasandata che non è da lui, sembra più giovane ed incredibilmente bello con quei capelli un po’ scompigliati.
«Sì, non è tanto male, no?»
«Porca di quella puttana di tua zia, » esclama Arthur.
Lo guardo sconvolta.
«Perché sul tuo portone c’è scritta una roba simile? » chiede, a metà tra l’essere basito e divertito.
Mi lascio andare a una risata. «Quando mi sono trasferita non c’era. »
«Chi è che si mette a insultare la zia? »
«Magari si tratta… di una bella zia, » butto lì.
«Una zia sexy, » conferma Arthur. «Se tua madre viene a trovarti e la legge sviene. »
«Vuoi salire? » gli chiedo, troppo veloce per qualunque essere umano. Digrigno i denti nella mia stupida impazienza. «Per vederla. Devo ancora sistemarla, però. »
«Speravo che potessi fare le cose con calma… ehm.» Si sistema il ciuffo biondo che gli ricade sugli occhi. È così strano vederlo così, con il volto sudato dal caldo e i capelli che gli ricadono sulla fronte come un comune ragazzo ventenne. Deglutisco. Non ho idea di come possano farsi le cose di fretta, nemmeno con calma. Ho avuto un ragazzo, nella mia vita, e nonostante i sette mesi di intensa relazione ho avuto sempre l’impressione che qualcosa non andasse bene. Ci siamo lasciati, infatti. Ora fa il suo secondo anno di Spagnolo e fa una vita strabella con ragazze strabelle. Un ragazzo semplice, lui; a parte il macchinone e il padre importante. Ma non ho avuto il tempo di amarlo seriamente: come si fa, con Arthur Benkinson in testa, nei sogni, nei pensieri sul futuro? «Intendevo, speravo che mi accompagnassi alla stazione, » si corregge.
«Certo, » gli rispondo subito, incamminandomi. Arriviamo alla stazione con molto anticipo. È uno dei posti più belli di Londra, per quanto mi riguarda; mi ricorda la mia infanzia e le storie della mia infanzia, un maghetto con gli occhiali tondi e tanta voglia che la vita diventi magia.
«Mi chiedo ancora come hai potuto pensare di darmi fastidio. Ti avrei aiutata a trovare una casa migliore. »
«È un posto da me. Facciata trasgressiva su una vita tranquilla! È un palazzo di vecchio stampo, ci vivono molte persone anziane a parte il russo del primo piano.»
«Be’,» comincia, mettendo le mani nelle tasche dei jeans. «Ti avrei dato una mano a trovare un lavoro. Non mi piace come ti tratta quella strega.»
«La signora Faryland, già.»
«Te ne sei andata anche a Londra, almeno a Liverpool sarebbe stato più semplice. »
«No, Art, non lo sarebbe stato! Non volevo stare vicino a mamma e papà, e questo era l’unico modo. Londra è stupenda, no?»
Arthur sbuffa e sorride, scuotendo la testa. «Non ti interessa proprio stare senza di me, mhm? »
«E tu non ti farai mai una ragione del fatto che Natalie è cresciuta, mhm? »
«È proprio questo il punto, che sei cresciuta. E questo mi lascia… interdetto.»
«Interdetto? »
«Sorpreso? »
«Preso in contropiede? »
«Mi fa sclerare.»
Scoppio a ridere.
«Parli come me! »
«Mi sei mancata da impazzire e non ho fatto che ricordare ogni cosa, anche la più stupida, e solo così mi sono reso conto che…» Si blocca. Fa un respiro profondo. Ed io ho l’impressione che anche il mio cuore respiri, si affanni, come una persona, come il ragazzo che è qui davanti a me.
Il treno in arrivo fischia.
«Che?» lo incito.
«Che…»
Il treno si sta avvicinando ed io mi preparo a salutarlo. Chissà quando tornerà, chissà quando io tornerò da lui dopo tutte queste strane parole, battiti di cuore improvvisi, ansia di aspettativa che mi logora nelle mie fantasie.
Non parla più, Arthur.
E quando alzo il viso e mi rassegno a non sapere che cosa ha pensato, lui avvicina il suo viso al mio in modo così veloce che chiudo gli occhi per paura, con il respiro trattenuto in gola.
Quando mi accorgo che mi ha dato un semplice e leggero bacio sulla guancia, riprendo a respirare.
Non credo che una ragazza più stupida di me sia mai esistita prima.
«Okay. » Apro gli occhi. «Quindi Arthur ci vediam… »
È un sogno. Uno dei miei tanti sogni. Ma è più caldo di quanto lo sia mai stato durante il sonno, ed io tremo come una foglia, una bambina che ha la febbre, qualcuno che teme di morire, con Arthur che posa le sue labbra sulle mie con gli occhi chiusi e le sue ciglia a sfiorarmi e le sue mani sui miei fianchi rapito da una forza che conosco qui per la prima volta.
Mi sta baciando.
Io lo sto baciando.
Ci muoio qui, adesso.
E così il treno è arrivato.
Stordita, non riesco a fare a meno di sospirare, poggio la testa sulle sue spalle e non so bene che cosa sento, a che cosa penso, ma lui mi stringe a sé e allora so che cosa bene.
Pare che tentare di scappare di casa sia stata la prima cosa intelligente che mi sia mai capitata di fare.
Mi sento così leggera che potrei davvero spiccare il volo, letteralmente.
«Questa è la parte in cui… perdi il treno per passare tutta la notte con me?»
Alzo lo sguardo e, inaspettatamente, Arthur mi guarda in un modo che ha l’ultimo effetto che avrei sperato. I suoi occhi parlano. I suoi occhi verdi che non riesco a togliermi dalla testa da anni, insieme a quel sorriso disarmante e le sue perfette spiegazioni di matematica ripetute all’infito per farmi capire, mentre io ero impegnata a capire me, che mi innamoravo di lui e quella sua calma nel fare ogni cosa e del football in cui non è mai stato davvero bravo anche se non ha mai smesso di provarci. Nessuno che valga veramente qualcosa smette mai di provarci. È il motto dei Benkinson. La mia famiglia ne ha mai avuto uno? Dovrebbe, in fondo è una delle più importanti della mia città.
Arthur mi mette le mani sulle spalle per allontanarmi.
«Arthur… »
«Non posso,» dice, la decisione nella voce, il suo sguardo a trafiggermi.
«Che… cosa?»
«Forse tu puoi, ma io no,» ribatte secco. «Non avrei dovuto. Non avrei assolutamente dovuto. Che cosa mi è saltato in testa? Ho di nuovo sedici anni? Diciassette? Ridicolo. »
«Non è ridicolo, Art…»
«Sei sconvolta. È stata solo colpa mia. Non lo volevi nemmeno tu, credimi.»
«Crederti? Chi sei tu per parlare al mio posto? Io lo volevo, lo volevo da così tanto che… Arthur, credi di essere l’unico ad avere paura? »
Sale sul treno. Non è l’ultimo, ma non è nemmeno il primo, ed evita il mio sguardo. È un codardo, come me. Come me cerca di non pensare a quello che fa più male, a quello che non vogliamo dimenticare solo perché vorremmo che non sia mai esistito, mai accaduto.
«Abbi cura di te, Natalie.»
Le porte si chiudono.
Non credevo che avrei mai desiderato tanto dirti lo stesso.
Pare che per Natalie Truman le cose non finiscano mai bene, nemmeno dopo un bel bacio con l’amore della sua vita.
Non è mica una commedia romantica, questa.
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Ciao a tutti, miei bellissimi lettori :D Ecco qui un nuovo capitolo su Natalie, vi aspettavata un risvolto del genere? Come mai Arthur si sarà tirato indietro e il dolore su cui riflette Natalie chi riguarderà? Spero di non avervi deluso, ho in servo delle piccole sorprese <3
Grazie mille alle meravigliose persone che seguono, preferisocno e ricordano e, in particola modo, un grazie speciale alle splendide ragazze che recensiscono <3 Il vostro parere è tanto importante per me :)

Presto la maturità sarà finita e potrò tornare a recensire *-* (è una specie di minaccia, lo so xD)

Un bacio,
vostra Ania :3

 
   
 
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