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Autore: Shu    22/08/2008    7 recensioni
L'arrivo dell'Arca, una conversazione con il Conte in un luogo sospeso tra realtà e impossibile.
Speculazioni su Tyki Mikk.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tyki Mikk
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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[Questa oneshot è stata scritta per partecipare al secondo contest indetto sul livejournal di Harriet; tutte le informazioni si trovano qui, è una sfida veramente interessante e non è ancora conclusa, andate a darci un'occhiata, avete tempo per iscrivervi e partecipare anche voi!
I prompt che ho scelto e utilizzato dalle liste disponibili (di citazioni da canzoni e frasi/situazioni) sono:

1. "A place between sleep and wake
End of innocence, unending masquerade
That's where I'll wait for you."
"Sleepwalker",
Nightwish

2- "Dammi ancora un po' di tempo! Un giorno, due giorni. Non di più. Te lo prometto!"

E' il mio primissimo tentativo di fanfic in questo fandom; chiedo quindi scusa se avessi commesso qualche errore o se troverete qualche imprecisione. La storia è ambientata appena prima del cap. 91. vol. 10. Grazie per la lettura!]
 

 

 

 

 

Non è in nessun posto, eppure, inequivocabilmente, da qualche parte è. Disteso in una sensazione calda e morbida e opprimente, come una poltrona di velluto, il mondo davanti ai suoi occhi si compone e si scompone solo del fumo della sua sigaretta, del sapore del tabacco e del suo odore. Non sta dormendo, altrimenti, ne è piuttosto sicuro, non potrebbe tenere la sigaretta tra le dita, e poi lui di sogni non ne fa mai –non sogni suoi, almeno. Ma neppure si sente sveglio, non del tutto. Non si tratta solo di quell’atmosfera rarefatta e inverosimile, che non va oltre le volute che lui stesso soffia via; oh, beh, potrebbe semplicemente essere un’illusione, uno scherzetto del Conte, non è quello il problema. Il fatto è che il Conte non lo lascerebbe mai fumare in sua presenza. E poi sente un ciuffo disordinato di capelli davanti al viso, e addosso l’impressione di vestiti stazzonati e comodi, forse un vago sentore di alcool. No, decisamente non potrebbe essersi presentato a Lui in quelle vesti.

Non è in nessun luogo, non è sveglio né dorme, ma non ha paura. Di cosa dovrebbe avere paura? Ha una poltrona e una buona sigaretta, non si deve occupare di niente, ed è bianco. Allunga le gambe, aspira un’altra boccata di fumo. E’ in pace.

Dato che non c’è nulla da vedere, socchiude gli occhi. Non è poi così male, tutta questa storia: ora può immaginarsi di essere in qualunque posto. L’odore di tabacco e di alcool imprigionato nei suoi vestiti gli suggerisce la bettola del porto dove torna sempre volentieri, dove non mancano mai le carte e qualche buon bicchiere. La luce giallastra delle lampade a gas, le risate, tutto un po’ sfocato dietro le lenti sporche degli occhiali, e quella cameriera con quella bella scollatura che lo tratta sempre così male. Sorride ricordandosi della volta che l’aveva afferrata per una manica e lei gli aveva rovesciato un intero boccale di birra in testa. Si erano sganasciati fino all’alba, i suoi amici! Ah, che serate. Già, gli mancano un po’ i suoi amici. Harry a dir la verità gli mancherà parecchio, aveva sempre un sacco di idee grandiose, Harry. Peccato che avesse visto qualcosa che non doveva vedere. Deve ammetterlo, gli è dispiaciuto abbastanza ucciderlo. Ma a ben pensarci, sa che la cosa tra breve tempo non avrà poi grande importanza.

Sorride anche al ricordo di quella mattina che dal piano di sopra della locanda era sceso come un altro. Come sempre, non c’era voluto molto, era bastato un soprabito nero, un cilindro, una mano passata tra i capelli e gli occhiali riposti nella tasca. E indossare un altro sorriso. Ma allora la cameriera era arrossita fino al generoso scollo e si era profusa in riverenze e complimenti, e tutta sospiri e occhi brillanti era rimasta a guardarlo fino a che non aveva svoltato in fondo alla strada.

Senza minimamente riconoscerlo.

Ah, adora quei momenti, lo divertono un sacco. E’ quello il bello del suo gioco al nero e al bianco. Senza il bianco non avrebbe senso il nero, e senza poter cambiare ogni tanto le magliette sdrucite in camicie di seta dopo un po’ anche la vita spensierata lo annoierebbe. Il suo lato pulito odora di tabacco scadente e macchie di fango sui pantaloni; quello sporco è vestito di completi eleganti e porta guanti che profumano di colonia. Gli piace quel contrasto, gli piacciono le contraddizioni, gli piace rigirarsi tra le dita l’idea che ogni volta che gli va può cambiare il suo volto, saltare dall’altra parte del fosso, e ogni giorno passeggiare con l’eleganza dell’equilibrista su un filo teso tra la notte ed il sole, tra innocenza e perversione, tra il suo divertimento e l’imprecisata minaccia del Conte.

Già, il Conte. In fondo, sa che il suo gioco non può durare a lungo, e che prima o poi il Lord lo aspetterà al varco, verrà a presentargli il conto. Lo sa, lo sa. Ma è un pensiero così… fastidioso. Per ora preferisce vivere le sue due vite, e non stare a rifletterci troppo. Quando sarà, sarà. E sa già come deve essere, conosce già tutti i compiti ai quali deve adempiere. Va bene, va bene, lo farà, è chiaro. Ma non è adesso il tempo. Adesso, la sua festa in maschera gli sembra possa durare all’infinito, come quella sigaretta che ha fra le dita e che non si consuma mai.

E’ una buona sigaretta. Ha un buon sapore. Lui non sopporta che le cose che gli piacciono finiscano, no.

“Aaah, ma che cosa devo fare con te, ragazzaccio? Non ti ho sempre detto che fumare fa male alla salute, eh?©

Non ha certo bisogno di aprire gli occhi per sapere chi gli sta davanti. Ma non gli sembra neanche il caso di rimanersene così, mezzo addormentato e sprofondato in poltrona. Socchiude un occhio: tra gli arabeschi di fumo ora si aprono brandelli di uno sfondo a scacchi, e nella penombra, metà nello scuro e metà illuminato da una lama di luce, si profila il largo ghigno del Conte.

“Sono contento che ti piaccia, ma su, ora spegnila, da bravo, dai.”

Spegnere la sigaretta, va bene. Però, dov… Non fa in tempo a formulare il pensiero che accanto a lui è comparso un posacenere appoggiato su un mobiletto. Si allunga a lasciare il mozzicone, non fa in tempo a risistemarsi nella poltrona che mobiletto e posacenere si sono già dileguati nel nulla.

“Dove siamo?” sospira, scostandosi le ciocche dalla fronte.

“Ma come, dove?? Dai! Dove altro potremmo essere, se non… nell’Arca??©

Oh… già. Certo. L’Arca. Domanda stupida. In effetti, uno spazio assurdo come quello non poteva che essere l’Arca.

Non ha mai voluto neanche domandarsi come diavolo abbia fatto il Lord a mettere in piedi una cosa come quella, e da solo, e in così poco tempo, poi. Sa solo che l’Arca è il crogiolo dove tutte le possibilità si mescolano, dove la verità si scioglie e si allunga nell’illusione, dove nulla è reale e al tempo stesso non esiste l’irrealtà. Gli scacchi sulla parete di quella camera ora ruotano, danzano, si scambiano i colori, dal nero al bianco; formano disegni incomprensibili che sembrano a volte bocche aperte in risate maligne, che gli ricordano tutti il ghigno del Conte.

“L’Arca… dunque il momento… è arrivato.” Vorrebbe che la sua voce suonasse un po’ meno… stanca. Oh, andiamo… in fondo, che sarà mai, lo aspetta lo stesso qualcosa di divertente…

“Esatto!© Il momento è arrivato, sì!”

La voce del Conte è sempre un trillo entusiasta. Il Conte sorride sempre.

“E tu lo sai cosa voglio da te, non è vero?”

Sorride sempre.

E lui non può fare altro che dire di sì. Non che abbia mai desiderato altrimenti, è ovvio, no… ma anche se fosse stato… nell’impossibile ipotesi che quell’idea gli fosse balenata, per un istante, tra i pensieri… nell’occasione di un mondo al contrario che guizza nell’oceano di probabilità dell’Arca…

…lui sarebbe stato sempre incatenato alla risata, all’ancestrale grido di vendetta del sangue dei Noah, inchiodato alla croce dal sorriso del Conte.

Sullo sfondo, la parete a scacchi continua a roteare, folle. Il Lord del Millennio apre una porta che prima non c’era. Poi si volta, gli lancia addosso una camicia.

Bianca, elegante, profuma di colonia.

“Bisogna accoglierli per bene gli ospiti, non è vero?”

Silenzio. Gli scacchi si scambiano freneticamente il nero e il bianco, impazziti.

“E poi… bisogna anche decidere da che parte stare.”

Il Conte sorride sempre.

E anche quando la porta si chiude quel ghigno gli resta stampato nella testa.

E’ rimasta nell’aria anche la nebbia di quella sigaretta, l’odore penetrante del suo fumo. Peccato, era una buona sigaretta.

Ma adesso basta.

Si alza con un po’ di sforzo dalla poltrona, si sfila la maglia. Già, peccato, anche quella poltrona era comoda, e la vecchia maglietta una delle sue preferite. Ma è vero, pensa mentre si abbottona la camicia, il momento è arrivato, e gli ospiti vanno accolti come si deve.

In fondo, lo ha sempre saputo. In fondo, lo ha sempre… desiderato? Non sa più se sia davvero la parola giusta. Desiderato, sì, ma come uno scopo indefinito e lontano, il sottofondo di qualcosa che doveva necessariamente, semplicemente succedere, in futuro, come una parte del suo proprio essere. Un Noah non potrebbe che desiderare la distruzione dell’Innocence, e l’arrivo dell’Arca. E’ fatto per quello, è fatto di quello. E lui sì, certo, lo vuole. Certo, certo…

Il problema è che non sapeva che avrebbe desiderato anche qualcos’altro.

Decidere da che parte stare, ha detto il Lord… Scuote la testa. No, che esagerazione, non si tratta di quello. Lui non può stare che da una parte sola.

Non può decidere di essere bianco. Il suo essere, come la sua farfalla d’inferno, come il colore della sua pelle, è soltanto nero.

Il bianco è un passatempo che il Conte gli ha concesso di continuare, con il suo solito sorriso, finchè non fosse arrivato il momento. E lui lo sa, lo ha sempre saputo. E va bene così. Ma cosa credeva? Che quando Lui fosse venuto a chiedergli di fare la sua parte gli avrebbe lasciato il tempo di prepararsi ad abbandonare il suo gioco? Che lo avrebbe lasciato andare a farsi ancora una bevuta in città, lavorare un altro paio di giorni alla miniera, vedere se la spuntava con la cameriera della bettola?

Pensava forse di poter mercanteggiare con il Conte? Con il Giudizio di Dio?

“Dammi ancora un po’ di tempo! Un giorno, due giorni. Non di più. Te lo prometto!”

No. Mai.

Le fiamme di un camino danzano all’improvviso dietro le sue spalle, e lui vi getta di scatto la maglietta logora. Non ha mai avuto rimpianti, non ne avrà nemmeno ora.

Nella parete, la porta si apre adesso anche per lui. Dall’altra parte intravede un labirinto di intere città, altri sfondi di scacchi, strane ombre tra cui riecheggiano voci di ragazzini. Gli ospiti sono già arrivati.

E bisogna accoglierli come si deve.

D’ora in poi, sarà soltanto nero, va bene.

Ma in omaggio al suo bianco si slaccia i primi bottoni della camicia, lascia ricadere i capelli sul volto. E, perché no, s’infila anche i suoi occhiali sporchi.

Baro fino in fondo alla sua anima nera, candido come un ragazzino che ha solo voglia di giocare, continuerà a ingannare tutti. Calerà sempre sul tavolo le sue carte bianche marchiate di farfalle della notte, porterà avanti ridendo la partita a scacchi con se stesso e col destino.

Un passo sul nero, uno sul bianco, come una danza.

Vuole vedere fin dove può arrivare.

 

 

   
 
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