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Autore: Alaska__    30/06/2014    3 recensioni
In revisione{ Spin-off di Semplici pedine nei loro Giochi e Hurricane of fire • Nick, Darren e Edgar King • DISTRETTO 2 }
Null’altro che vuoto.
Credeva che partecipare agli Hunger Games lo avrebbe fatto sentire vivo, più forte. Erano cinque anni che si allenava per andare lì e vendicare suo fratello. Cinque lunghi anni durante i quali Edgar aveva sofferto, aveva faticato, si era arrabbiato e aveva sognato la meta. All’improvviso, però, sentiva le sue certezze venire meno, il tutto accompagnato da quel senso di vuoto e di oppressione al petto.
«Mi sento come te cinque anni fa», confessò, alzandosi in piedi e sistemandosi la maglietta bianca – maglietta che un tempo era appartenuta a Darren. Aveva ancora il suo profumo addosso. Ogni tanto, Edgar sorprendeva Marissa ad annusarla, con le lacrime agli occhi. «Vincerò anche per te,
Darr», promise, prima di voltare le spalle – forse per l’ultima volta – a suo fratello.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate, Vincitori Edizioni Passate
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Sparks • Picking up the pieces. '
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« Tout le monde sait comme on fait les bébés,
mais personne sait comme on fait des papas.»
-Stromae ; “Papaoutai”
 
Edgar sedeva sulle tribune, con le ginocchia al petto e l’aria imbronciata di chi non ha ottenuto ciò che voleva.
Al centro della sala, due persone stavano combattendo con le spade e il clangore dei colpi risuonava per la grande aula vuota. Edgar osservava i due, ascoltando ciò che diceva il più grande. Quello era suo padre, Nick King, vincitore dei quarantesimi Hunger Games. L’altro combattente, più giovane, si chiamava Darren ed era il fratello maggiore di Edgar. A vederli, non sarebbero mai sembrati fratelli: Darren, infatti, era biondo, aveva due profondi occhi azzurri e un sorriso radioso, che conquistava tutti. Il suo fratellino, invece, aveva capelli e occhi scuri e un viso sempre imbronciato.
«Bilancia bene il peso, Darren», lo ammonì Nick, fermandosi un attimo. «Sembra che tu penda troppo dal lato destro».
Il ragazzo annuì, correggendo la posa, ma quando ricominciò il combattimento, Nick dovette fermarsi una seconda volta.
«Darren, il peso! È la quinta volta che ti sbagli!», gridò, decisamente arrabbiato. D’istinto, Edgar si fece piccolo piccolo, stringendo ancora di più le ginocchia al petto. Quando si arrabbiava, Nick faceva decisamente paura. Normalmente lui non era affettuoso e gentile. Era severo e pretendeva il massimo dai suoi figli. Voleva che loro lo eguagliassero, offrendosi volontari agli Hunger Games e vincendoli.
Ma per com’era la situazione, era ovvio che Darren si sarebbe offerto, mentre Edgar poteva anche risparmiarselo. Nick poneva sempre il figlio più grande in primo piano, vantandosi con tutti di come fosse forte, bello e cercava sempre di porre l’accento sul fatto che gli assomigliasse. Edgar, invece, era una specie di bambino nato per caso, secondogenito ignorato.
«Vatti a cambiare. Per oggi abbiamo finito», annunciò l’uomo, prendendo le spade e andando a metterle via. «Edgar!», strillò poi, rivolto al figlio più piccolo. «Aspetta tuo fratello e andate a casa insieme».
Il tredicenne annuì, lanciando un’occhiata al fratello maggiore, che si dirigeva verso gli spogliatoi con una faccia scura, arrabbiata. Quando uscì, però, era un pochino più sorridente. Di solito, Darren era sempre così, con il suo fratellino. Avevano un bel rapporto, nonostante tutto.
«Ehi, Ed», lo salutò, arruffandogli i capelli. «Ti sei divertito?»
Il ragazzino tentò di dire sì, ma la sua faccia tradiva le sue vere emozioni. Darren fece una risatina, mentre scendevano dalle tribune per dirigersi verso l’uscita.
«Volevi allenarti anche tu?», chiese il maggiore, scrutando il fratellino con i suoi occhi azzurri tanto simili a quelli del padre. L’unica differenza era la luce che vi era in essa. Quelli di Nick erano occhi di un uomo duro e severo, che non si fa piegare da nulla. Quelli di Darren, invece, avevano una luce da ragazzino che insegue i suoi sogni. Edgar sapeva che suo fratello non stava simpatico a molti e che quegli occhi incutevano spesso anche timore, ma nessuno lo conosceva come lui. Nessuno conosceva il vero Darren, il figlio di un vincitore degli Hunger Games che lo costringeva ad allenarsi ore e ore solo per vincere i Giochi. Nessuno aveva mai visto Darren medicarsi le ferite, nessuno lo aveva mai visto piangere dalla rabbia, di nascosto.
«No», rispose Edgar, con una scrollata di capo. Mentiva. Lui avrebbe voluto allenarsi con suo padre e suo fratello, per far vedere a Nick che anche lui valeva qualcosa, che anche lui era suo figlio. Ma l’uomo sembrava sordo e cieco dinnanzi ai messaggi che il più piccolo dei suoi figli gli mandava da anni e continuava a trattarlo nello stesso identico modo.
«Ed?», lo chiamò Darren, fermandosi appena fuori dall’Accademia. Gli alzò il mento con una mano, per guardarlo negli occhi. «Non sai dire bugie», commentò, guardandolo intensamente negli occhi. Il tredicenne abbassò lo sguardo, togliendo la mano del fratello da sotto il suo mento e fissandosi le scarpe da ginnastica nuove di zecca – ovviamente recapitate dall’ormai ex-stilista di suo padre a Capitol City.
«Non sto dicendo una bugia. Non volevo allenarmi, mi fa male il piede per via delle scarpe nuove», ribatté, indicando le sue scarpe. Darren rise, in maniera inaspettata, passando una mano tra i capelli corvini del fratellino. Era un gesto che faceva spesso e, nonostante Edgar detestasse le persone che gli toccava i capelli, non si arrabbiava mai. Darren poteva perché lui era suo fratello ed erano uniti dallo stesso sangue.
«Andiamo al fiume, vuoi?», propose il biondo, cingendo le spalle di Edgar con un braccio. «Tanto sono le sei, non credo che mangeremo prima delle otto. Abbiamo finito prima, oggi», spiegò, abbassando quasi impercettibilmente il tono di voce nel pronunciare l’ultima frase. Edgar se ne accorse e non poté non provare pena per suo fratello. Nick era sembrato davvero nervoso, quel giorno.
«D’accordo», rispose il più piccolo, sorridendo al fratello. Si divertiva ad andare al fiume con lui, anche se il più delle volte Darren era impegnato con gli allenamenti oppure con i suoi amici. I momenti in cui stavano fuori di casa insieme erano i migliori, perché potevano parlare liberamente.
«Com’è andata a scuola, oggi?», chiese Darren, dopo alcuni istanti di silenzio. Edgar si grattò la guancia.
«Bene. Normale, come sempre. All’Accademia ci hanno fatto provare tiro con l’arco», rispose. «E ho fatto schifo. Non lo so usare, quell’aggeggio».
«Neanche io», ammise Darren. Edgar aggrottò la fronte. Suo fratello sapeva usare ogni tipo di arma, in mille modi diversi.
«Non dire cavolate, Darr», lo ammonì, dandogli un colpetto sul braccio.
«Non le dico, infatti. C’è gente molto più brava di me con l’arco. Te lo ricordi, Egon Brown? Quel tipo che è andato agli Hunger Games tre anni fa?»
Edgar annuì, cercando di riportare alla mente il volto del tributo maschio della sessantacinquesima edizione degli Hunger Games. Lo ricordava a malapena. All’epoca aveva solo dieci anni e i ragazzi più grandi li osservava a distanza, cercando di imitarli, nonostante non sapesse i loro di nomi. Di Egon ricordava vagamente i suoi capelli castano scuro e i suoi splendenti occhi verdi – famosi tra tutte le giovani del Distretto 2. Occhi non avrebbero più visto il mondo, vista la morte del ragazzo.
«Sì», rispose. «Più o meno. È quello che alla fine non è nemmeno arrivato tra i quattro finalisti, giusto?»
«Esatto. Vedi, quello era molto più bravo di me, a tirare con l’arco. Ci sapeva proprio fare. Io non ho una mira così buona», spiegò il maggiore, sistemandosi i capelli spettinati.
Giunsero al fiume dopo circa dieci minuti, accaldati. Giugno stava iniziando e il tipico calore estivo iniziava a farsi sentire, nonostante il clima montuoso del secondo Distretto lo attenuasse notevolmente.
Non appena Edgar intravide la limpida acqua, non si soffermò a pensare e si tolse subito scarpe e calzini per corrervi dentro, finalmente felice. Suo fratello lo imitò, seguendolo a ruota, ma con meno foga.
Il più piccolo lo guardò di sottecchi. Darren sembrava preoccupato, quel giorno, quasi più del solito. Forse perché Nick era arrabbiato o forse perché il suo allenamento non era andato come previsto. Edgar lo aveva già visto in quelle condizioni. Sapeva che per fargli passare il malumore bisognava lasciarlo solo. Tuttavia, il maggiore dei fratelli King era decisamente bravo a nascondere i suoi veri sentimenti, quasi non volesse far preoccupare le persone. Anche Edgar sapeva di essere bravo a fare ciò: con un padre come il loro, dovevano sempre mostrarsi forti e in forma, anche se le loro membra stanche li incitavano al riposo e il loro animo voleva solo farli piangere. Non era un uomo che amava la stanchezza e le lacrime, Nick King, affatto. Edgar ricordava di non averlo mai visto piangere, così come non aveva mai visto piangere sua madre, Marissa. Era evidente che anche lei si era adeguata al marito, con il passare degli anni.
«Voglio stare in acqua per sempre», dichiarò Edgar, sdraiandosi supino sul prato.
«Trasferisciti al Distretto 4», ribatté suo fratello, imitandolo e ridacchiando. Il più piccolo sospirò, passandosi le mani sul viso. Aveva sentito storie meravigliose sugli altri Distretti, peccato che non avrebbe mai potuto vederli, a meno di vincere gli Hunger Games.
«Sarebbe bello. Tu potresti vederlo», disse, girandosi prono e appoggiando una guancia sull’erba. Pizzicava un po’, ma a lui non dava fastidio. Darren si voltò a guardarlo, con un sopracciglio biondo inarcato. «Quando vincerai», aggiunse Edgar, vedendo l’espressione interrogativa del fratello. «Hai diciotto anni, ti offrirai volontario quest’anno, o sbaglio?»
«Ah, intendevi gli Hunger Games», Darren sospirò, portando le mani dietro la nuca e osservando il cielo – quel giorno perfettamente limpido. «Se vincerò, potrò vederlo, sì».
«Tu vincerai, senza “se”», disse Edgar, sedendosi e passandosi una mano tra i capelli, per cercare eventuali fili d’erba che lì si erano infilati. «Ce la puoi fare».
«Lo spero, fratellino», ribatté il più grande, sempre con gli occhi fissi al cielo. «Manca quasi un mese alla Mietitura».
«Sei agitato?», chiese il moro, toccando il fianco del fratello con fare scherzoso. Darren si sedette e fece spallucce.
«Mi aspettavo di meglio», mormorò, staccando un fiore dal terreno e girandolo in tutte le direzioni, per osservarlo. Era una margherita, i cui petali erano di un bianco quasi accecante. Erano i fiori preferiti della signora King – la mamma di Edgar e Darren. Quando erano piccoli, gliene raccoglievano spesso e lei era sempre felice quando tornavano a casa con dei mazzolini di fiori, che di solito amava mettere in alcuni vasi e tenere in salotto. Edgar ricordava quanto fosse felice in quei momenti perché aveva portato un po’ di buonumore in casa. Sua madre era decisamente più facile da accontentare del marito. Lei non faceva mai mancare nulla ai figli: una carezza, un lieve bacio sulla guancia li aveva sempre in serbo per loro.
«In che senso?», domandò Edgar, colpito dall’ultima affermazione del fratello. Darren lasciò cadere a terra il fiore, dopo aver strappato i suoi petali bianchi uno ad uno.
«Nel senso che pensavo fosse più emozionante», rispose, raccogliendo un’altra margherita. «Sogno da quando ero bambino di partecipare agli Hunger Games e ce la sto per fare. Ma ad un mese di distanza sento che… oh, Edgar, non ne ho idea!», esclamò, stringendo il fiore nel palmo della mano chiusa a pugno.
Il tredicenne rimase in silenzio, lasciando che le turbe di suo fratello lo lasciassero in pace. Avrebbe voluto abbracciarlo e dirgli che credeva in lui, ma sapeva che stringerlo tra le braccia non avrebbe cambiato le cose.
«Tu vincerai», sussurrò ad un certo punto, con lo sguardo perso sull’acqua corrente del fiume. «E quando lo farai, diventerai ricco e famoso e io verrò a vivere con te nella tua nuova casa!»
Darren rise, divertito dall’ultima esclamazione del fratellino. Anche le labbra di Edgar si incurvarono in un sorriso, vista la reazione del maggiore.
«Ne potrai avere una anche tu, dopo che avrai vinto», ribatté, alzandosi in piedi e spazzolandosi i pantaloncini con una mano. Edgar lo imitò, rimuginando sulle sue ultime parole.
«No. Non andrò agli Hunger Games, credo. Papà non vorrà».
«Meglio così». Darren lo strinse a sé con un braccio, arruffandogli i capelli scuri. «Almeno non rischierai di morire».
Dopodiché si ributtarono in acqua, ridendo e schizzandosi, prima di tornare a casa bagnati fradici. Edgar non aveva mai riso così tanto in tutta la sua vita.
Era felice.
Era felice perché aveva un fratello fantastico.
Era felice perché suo fratello sarebbe stato un eroe.
Era felice perché Darren era suo fratello.
 
*
 
Sessanta secondi.
Mancava esattamente un minuto all’inizio dei sessantottesimi Hunger Games. Sessanta secondi in cui tributi avrebbero aspettato, prima di gettarsi della mischia, prima di poter combattere, prima che alcuni di essi morissero.
Edgar sedeva sul divano rosso – elegante, in perfetto stile capitolino – accanto a sua madre.
Cinquantacinque secondi.
Edgar cercò con lo sguardo suo fratello, tra tutti i tributi in piedi sulle piastre metalliche. La telecamera li stava riprendendo, uno a uno, mostrando a tutta Panem le loro facce terrorizzate. Qua e là spiccava qualcuno più determinato, come il tributo del Distretto 1, che osservava i suoi avversari con un ghigno sprezzante stampato in volto.
Cinquanta secondi.
La telecamera si soffermò per un istante sul volto lentigginoso del ragazzo del Distretto 4, che si stava guardando intorno con la mascella serrata. Poi apparì Darren, con i capelli biondi leggermente mossi dal vento e gli occhi azzurri che non la smettevano di muoversi, studiando l’ambiente in cui erano stati mandati i tributi.
Quaranta secondi.
Edgar si chiese cosa stesse pensando suo fratello.
Provò a leggere ogni emozione trasmessa dai suoi occhi o dai suoi movimenti, ma non giunse a nessuna conclusione.
Era spaventato? Stava pensando a lui, prima di scendere e iniziare a correre per accaparrarsi la migliore spada tra quelle poste nella Cornucopia?
Edgar avrebbe tanto voluto avere una risposta a queste domande, per comprendere al meglio suo fratello. Gli sarebbe piaciuto entrare nella televisione e posargli una mano sulla spalla – per quanto gli fosse consentito dalla sua altezza, che decisamente non concorreva con quella di Darren, il quale sfiorava il metro e novanta.
Edgar voleva andare nell’Arena con suo fratello, per proteggerlo e permettergli di vincere perché lui poteva farcela. Poteva portare gloria al Distretto 2. Poteva rendere felice Nick. Poteva realizzare il suo sogno.
Venti secondi.
Edgar stava riducendo le sue unghie ad una poltiglia umidiccia, da quanto le stava mangiando.
In un gesto istintivo, prese la mano di sua madre. La donna voltò il capo verso il più piccolo dei suoi figli, sorridendogli dolcemente come quando voleva consolarlo.
Aveva paura anche lei.
Edgar lo lesse nel lieve tremito delle sue mani, che non aveva bisogno di nascondere, ora che Nick era a Capitol City. Anche il tredicenne aveva paura, una paura sorda che non gli permetteva di pensare. In testa aveva solo il volto di Darren, il modo in cui gli aveva sorriso prima di partire per la Capitale.
Edgar avrebbe voluto dargli anche un portafortuna, ma suo fratello aveva rifiutato, sostenendo che ciò non lo avrebbe di certo aiutato a vincere.
«E poi», aveva aggiunto con un sorriso, «tornerò. Lo sai che non devi avere paura per me».
Era così sicuro, lui, prima che il treno lo portasse incontro al suo destino. Anche Edgar avrebbe voluto essere così tranquillo e rilassato.
Sette secondi.
Darren si mise in posizione di partenza e anche il suo fratellino, quasi impercettibilmente, portò il busto in avanti, come a voler correre con lui.
Cinque secondi.
Ormai era tutto agli sgoccioli.
“Può sentire il battito del mio cuore, Darr? Sono sicuro che ora il mio e il tuo battono all’unisono”.
Quattro, tre, due, uno.
Darren scattò subito in avanti e Edgar sentì il cuore martellargli nel petto. Non voleva guardare, ma si impose di mantenere gli occhi fissi sullo schermo.
Darren correva, ma c’era chi andava più veloce di lui.
Il ragazzo del Distretto 7 aveva due gambe impressionanti, che mulinavano ad una velocità quasi disumana.
Edgar stava proprio pensando a quanto fosse forte, mentre osservava suo fratello che prendeva una spada, quand’ecco che vide la testa di Darren saltare via dal suo collo, colpita da un’ascia.
Poi più nulla.

 

 
 
 
Edgar varcò l’enorme arcata che dava accesso al cimitero del Distretto 2, con le mani ficcate nelle tasche dei suoi pantaloncini neri e la testa bassa a fissarsi le scarpe da ginnastica sporche di terra.
Quando era piccolo non amava particolarmente quel luogo. Di solito, quando passeggiava per le vie del Distretto, era abituato a sentire il canto degli uccelli, il chiacchiericcio della gente e i colori. Lì era tutto grigio in un modo incredibile e il silenzio regnava sovrano. Inoltre, vi era poca gente. I più erano persone che camminavano come lui in quel momento: testa bassa, sguardo perso, certe volte avevano anche le lacrime solcate da lacrime che parevano scavarle. Edgar non amava particolarmente sentirle scorrere sulle sue gote – in generale, non amava piangere affatto. Tutte le sue lacrime le aveva perse cinque anni prima, quando Darren era morto. Aveva pianto in ogni minuto libero, insieme a sua madre, e, quando Nick era tornato a casa, scuro in volto, si era dovuto rassegnare: le lacrime non sarebbero più entrate nella sua vita. Era lui il preferito di suo padre, ormai. Era lui che si sarebbe offerto volontario per partecipare agli Hunger Games.
Ma non era solo suo padre che gli impediva di piangere. Lui stesso non voleva più farlo. Non voleva sentirsi debole, non desiderava sentire il sapore salato delle lacrime sulle sua labbra, dopo che esse avevano percorso tutto il suo volto.
Lui odiava l’acqua salata. La odiava come odiava il Distretto 4, che ne era pieno.
Avrebbe dovuto vincere suo fratello i sessantottesimi Hunger Games. Invece, li aveva vinti il ragazzo del Distretto 4, mentre a Darren era saltata via la testa dal collo.
Edgar sognava Darren, ogni tanto. Sognava il momento in cui era andato a vederlo nella sua cassa di legno, con il capo ricucito sul collo, gli occhi chiusi e la pelle bluastra.
Gli mancava.
Gli mancava da morire.
 
Giunse ad un punto del cimitero leggermente rialzato rispetto al resto. Era lì che venivano sepolti tutti i tributi morti. Al Distretto 2 potevano vantarsi di avere la minore concentrazione di deceduti durante i Giochi, ma entrarci era comunque un pugno nello stomaco.
Edgar percorse con lo sguardo tutte lapidi, nonostante ormai le conoscesse quasi a memoria, viste tutte le volte che si era recato a far visita a suo fratello.
Aella Bradbury, morta durante i sessantacinquesimi Hunger Games all’età di diciotto anni.
Egon Brown, morto durante la medesima edizione, aveva la stessa età della sua compagna.
Christopher Lancaster, morto durante la sessantaseiesima edizione, all’età di diciassette anni. Stava per vincere, lui. Era riuscito ad arrivare fino alla fine, ma era stato ucciso dal vincitore di quell’edizione, un ragazzo del Distretto 9.
Edgar li conosceva tutti, oramai. Erano spettri silenziosi che stavano lì, mentre lui parlava con la lapide recante la scritta Darren King.
Ogni volta che il ragazzo passava davanti a quelle tombe, ripeteva, ormai a memoria, tutti i loro nomi, le età e come erano morti. E infine, quando giungeva sulla tomba di suo fratello, pensava: “Darren King, morto durante i sessantottesimi Hunger Games, all’età di diciotto anni, decapitato dal ragazzo del Distretto 7”. Era forse una cosa più strana, ma Edgar la riteneva – in un modo che lui stesso definiva malsano – salutare. Riusciva a tenere vivo il ricordo di tutti quei morti e riusciva a tenere viva la sua voglia di vendetta nei confronti di suo fratello.
Si sedette accanto alla lapide, posando una mano sulla fredda e ruvida pietra.
«Ehi, Darr», sussurrò, riprendendo lo stesso modo in cui lui lo salutava sempre. Era una specie di rito tra di loro, quando il fratello maggiore era vivo. Ogni volta che Darren lo vedeva, passava una mano tra i suoi capelli scuri, salutandolo con un sorriso e il solito «ehi, Ed». Da quando suo fratello era morto, Edgar non aveva più permesso a nessuno di chiamarlo Ed. Era una cosa tra lui e Darren, era il modo in cui lo chiamava sempre e le voci degli altri che lo pronunciavano stonavano troppo.
Il moro colse un fiorellino che cresceva lì accanto, una margherita. Il fiore preferito di sua madre. Il fiore che la faceva sempre sorridere. Ma da quando Darren era morto, le labbra di Marissa King erano sempre rivolte in giù e i suoi occhi scuri erano sempre velati di lacrime.
«Domani è il giorno della Mietitura», mormorò, con il volto rivolto verso la lapide. Fissava intensamente la scritta Darren King, quasi sperando che suo fratello potesse uscire dalla tomba. «Mi offrirò volontario», continuò, togliendo l’ultimo petalo al fiore e lasciandolo ricadere sul manto erboso. «Così potrò vendicarti», concluse, ma l’incertezza si percepiva in modo chiaro tra le sue parole. Era così che si sentiva Darren prima della Mietitura? Lui stesso gli aveva confessato di non sentirsi a suo agio e Edgar provava pressappoco ciò che aveva sentito suo fratello.
Vuoto.
Null’altro che vuoto.
Credeva che partecipare agli Hunger Games lo avrebbe fatto sentire vivo, più forte. Erano cinque anni che si allenava per andare lì e vendicare suo fratello. Cinque lunghi anni durante i quali Edgar aveva sofferto, aveva faticato, si era arrabbiato e aveva sognato la meta. All’improvviso, però, sentiva le sue certezze venire meno, il tutto accompagnato da quel senso di vuoto e di oppressione al petto.
«Mi sento come te cinque anni fa», confessò, alzandosi in piedi e sistemandosi la maglietta bianca – maglietta che un tempo era appartenuta a Darren. Aveva ancora il suo profumo addosso. Ogni tanto, Edgar sorprendeva Marissa ad annusarla, con le lacrime agli occhi. «Vincerò anche per te, Darr», promise, prima di voltare le spalle – forse per l’ultima volta – a suo fratello.
 

 
Nick King girò convulsamente la sua fede, che portava – come vuole la tradizione – sull’anulare della mano sinistra. Si fermò un istante per osservare il perfetto cerchio d’oro massiccio. Per quanto il materiale fosse prezioso, esso non valeva più molto. Non poteva valere, quando il suo matrimonio era stato un fallimento.
Ma a ben pensarci – si diceva Nick – tutta la sua vita era stata un fallimento.
Aveva fallito come padre, marito, come mentore.
Aveva fatto morire entrambi i suoi figli per un suo capriccio.
Edgar ce l’aveva quasi fatta. Era riuscito ad arrivare tra i quattro finalisti, insieme al maschio del Distretto 1 e ad entrambi quelli del Distretto 4. Avrebbe potuto farcela. Stava quasi per uccidere la ragazzina del quarto Distretto, quand’ecco che il suo compagno impalò il più piccolo di casa King con il suo tridente.
Nick si era sentito come una bambola, in quel momento: senza più anima, né cuore. I battiti cardiaci erano rallentati progressivamente, fino a farlo quasi cadere in una sorta di limbo tra la vita e la morte.
Aveva fallito, per l’ennesima volta.
Aveva ucciso il suo ultimo figlio rimastogli.
Dopo la morte di Darren, aveva fatto totalmente affidamento su di lui, per evitare che tutti lo indicassero come un fallito che non aveva raggiunto il suo obiettivo. Inizialmente, pensava che fosse tutta colpa del maggiore dei suoi figli e non aveva dato molto peso alla sua morte. Ma dopo che anche Edgar perse la vita, Nick riconsiderò non poco quel lato della sua vita.
Colpa sua.
Era stata tutta colpa sua.
Aveva ucciso i suoi figli.
Aveva fatto fallire il suo matrimonio.
L’unica cosa buona della sua vita era stata la vittoria agli Hunger Games. Quant’era sciocco in quel periodo! Un ragazzino di diciotto anni che inseguiva la gloria, sostenuto dalle chiacchiere dei suoi istruttori all’Accademia. Aveva creduto per anni a quelle bugie, finché non aveva visto il sangue di Edgar che usciva copioso dal suo petto e gli era parso che imbrattasse anche la sua anima.
Aveva perso. Nick King doveva ammetterlo. E anche il trionfo durante i quarantesimi Hunger Games nulla era stato, se non un ennesimo capriccio.
Non aveva più nulla da fare, nella sua vita. Per questo si alzò e si diresse verso il grande armadio guardaroba presente nella stanza che condivideva con la moglie. Anche il pensiero di Marissa era doloroso. L’aveva ignorata per anni e anni, sfruttata solo per portare avanti la famiglia King. L’aveva amata, un tempo, agli albori del loro matrimonio, ma anche quel sentimento se n’era andato, cancellato dal tempo.
Si abbassò, immergendo la testa tra i cappotti e tirando fuori una scatola di legno perfettamente levigata. L’aprì, stupendosi della fermezza delle sue mani. Si aspettava tutt’altro. Pensava che avessero tremato, se mai fosse giunto quel momento – e lui, di sicuro, non si aspettava che sarebbe arrivato.
La pistola gli apparve dinnanzi agli occhi in tutta la sua scintillante bellezza, quello strano fascino che era proprio delle cose pericolose. Non l’aveva mai usata e si vedeva: il nero materiale di cui era costituita era perfettamente integro e non un graffio intaccava la superficie levigata.
Nick la prese, lasciando cadere la scatoletta a terra. La strinse forte tra le dita, assaporando l’idea di usarla per la prima volta.
L’aveva tenuta per anni nell’armadio, per difendersi dai nemici, ma mai aveva dovuto usarla. Finalmente lo avrebbe fatto. L’avrebbe sfruttata contro di lui. Perché – in fondo – era lui il suo vero nemico.
Portò la pistola alla tempia.
Poi sparò. 


 


Alaska’s corner
Ciao  a tutti!
Lo so che ho scassato con i miei OC, ma questa storia l’avevo in mente da un po’ (?) e tengo particolarmente ai due protagonisti principali – Ed e Darren.
Ci tengo a ribadire che loro sono di mia proprietà, pertanto, se becco qualcuno che me li frega, lo ammazzo di botte (?).
Come avrete intuito, la storia è divisa in tre parti: una ambientata poco prima dei sessantottesimi Hunger Games, una poco prima dei settantatreesimi e una dopo questi ultimi.
Insomma, nella famiglia King crepano tutti, ma tant’è. E – ironia della sorte, o semplicemente mia cattiveria – Edgar e Darren sono morti entrambi in due edizioni vinte dal Distretto 4. Il fratello maggiore è morto quando ha vinto Connor – altro mio OC, il bimbo con le lentiggini che viene citato ad un certo punto – e Edgar è morto quando ha vinto Serena – la bimba del Quattro contro cui stava combattendo.
Niente, anche gli altri personaggi citati sono miei OC. In particolare, Aella e Egon sono i tributi del Distretto 2 durante la sessantacinquesima edizione dei Giochi, quella di Finnick. Io la sto scrivendo e la storia s’intitola But innocence is gone and what was right is wrong.
Anche il ragazzetto del Distretto 9 nominato ad un certo punto è un mio OC. Si chiama Niklas e in realtà sarebbe morto durante la sessantacinquesima edizione, ma siccome io ho manie di onnipotenza, l’ho fatto resuscitare.
E basta direi. Grazie a chi ha letto, spero vi sia piaciuta!
Un bacio,
Alaska.~ 
   
 
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