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Autore: TheGirlNextDoor    30/06/2014    0 recensioni
Sylvie era calma. Ora osservava serenamente il mare di Marsiglia.
Aveva ricacciato in dentro tutte le lacrime del viaggio. I suoi grandi occhi blu se le erano inghiottite. Stava bene. E avvertiva una sorta di beatitudine surreale.
Aveva visto rientrare in porto una piccola barca colorata e pensava ai movimenti convulsi dei pesci intrappolati nelle reti dei pescatori. Ai loro slanci violenti e spasmodici.
Pensava a come anche lei negli ultimi mesi fosse stata spasmodica e violenta come i pesci. Il suo agitarsi convulso le ha provocato ferite indelebili e livide che adesso cerca di guarire.
Finalmente era lontana da Parigi e quel piccolo idillio del sud era un antidolorifico. Si era allontanata dalla capitale di fretta, come una fuggitiva. Non voleva dimenticare tutto, non ne sarebbe stata capace. Voleva solo rendere i suoi fantasmi un po’ meno vividi di quanto non fossero lì dove ogni minuscola particella le ricorda Lawrence e Jamie.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sylvie era calma. Ora osservava serenamente il mare di Marsiglia.
Aveva ricacciato in dentro tutte le lacrime del viaggio. I suoi grandi occhi blu se le erano inghiottite. Stava bene. E avvertiva una sorta di beatitudine surreale.
Aveva visto rientrare in porto una piccola barca colorata e pensava ai movimenti convulsi dei pesci intrappolati nelle reti dei pescatori. Ai loro slanci violenti e spasmodici.
Pensava a come anche lei negli ultimi mesi fosse stata spasmodica e violenta come i pesci. Il suo agitarsi convulso le ha provocato ferite indelebili e livide che adesso cerca di guarire.
Finalmente era lontana da Parigi e quel piccolo idillio del sud era un antidolorifico. Si era allontanata dalla capitale di fretta, come una fuggitiva. Non voleva dimenticare tutto, non ne sarebbe stata capace. Voleva solo rendere i suoi fantasmi un po’ meno vividi di quanto non fossero lì dove ogni minuscola particella le ricorda Lawrence e Jamie.
Il benessere tuttavia era piuttosto fugace e quella stessa notte una crisi di panico l’aveva scossa con forza. Coricata tra le candide lenzuola di lino nel villino della sua famiglia e insonne, ripercorreva le tappe più importanti della sua vita fino a quel momento. Se qualcuno glielo avesse domandato, avrebbe risposto che era andata bene. Venticinque anni trascorsi degnamente. In quella sequenza cinematografica di momenti ed emozioni si soffermava a ricordare il primo, emblematico incontro con Lawr. Quel magico e straordinario momento dal quale tutto aveva avuto inizio. Disperatamente si sorprese a ricordare non più nitidamente il volto di quella persona che tanto aveva amato. Nella sua mente era materializzato solo da una figura evanescente e sbiadita. Come un lontano, lontanissimo ricordo. Subito Sylvie sboccò in un pianto isterico. Singhiozzava e gridava insieme. Si stringeva il capo tra le mani, poi le congiungeva sulla gola. Si sentiva soffocare. Non riusciva a respirare. Quando gli spasmi si calmarono un poco, la assalirono i conati di vomito. Rovesciò anche l’anima e quando finì le sembrava di non avere neppure il cuore in corpo. Si accasciò stremata e attense di riaversi. Poi, quando ne fu capace, frugò nello zaino. Cercò la foto di Lawrence, quella a mezzo busto. Si appropriò dei lineamenti, ne divorò le fisionomie. E solo quando fu sicura di averne fissato precisamente il ricordo posò la fotografia accanto a se. Ora, nella sua mente, vedeva quel meraviglioso ragazzo sorridere di gusto. I capelli al vento e gli occhi brillanti, ma non si fidava. La sua memoria era troppo effimera perché garantisse quella figura ancora a lungo. Temeva di dimenticarlo, di vederlo sbiadire e di conseguenza, di perderlo per sempre. Allora balenò in lei la consapevolezza di dover rendere eterno tutto ciò che Lawrence come Jamie aveva rappresentato nella sua vita. Mettere per iscritto tutti quegli splendidi istanti che, in modi differenti, entrambi le hanno regalato.
Avvolta in una bella vestaglia di mussola, alle prime luci del nuovo giorno si mise alla macchina da scrivere e analizzando da principio quelle vicende si decise a raccontare quello che era avvenuto tra lei, Lawrence e Jamie.
Fissò il punto d’origine al principio del 68, quando il malcontento generale dilagava ed era già palpabile nell’aria. Forse ancora un po’ immaturo per trasformarsi in protesta concreta, ma di certo in procinto di diventare a tutti, manifesto. A Parigi c’era la decadenza. L’ago della bilancia pendeva sempre da un lato. I ricchi ancora più ricchi, e i poveri ancora più poveri. In mezzo un abisso d’incomprensione che diveniva ogni giorno più smisurato. Urlavano al cambiamento ma nessuno sperava in tanto. Sapevano come girava il mondo. Sapevano che nel loro verso non girava mai. Perché la povertà te la stampano addosso quando nasci ed è un marchio che ti porti tutta la vita. Allora chiedevano un po’ di uguaglianza, nelle scuole e tra i lavoratori. E poi alla tivù raccontavano che nessuno investiva più nell’istruzione perché non c’era futuro, ma non c’era neppure presente e i giovani lo sapevano. E allora occupavano, insorgevano, perché avevano qualcosa da dire. Qualcosa da difendere. Era bellissimo vederli a fiumi, nelle piazze e per le strade. Sui muri della città graffiti e scritte a tema.
Il est interdit d'interdire” – “Vietato vietare” era il manifesto all’ingresso de la Sorbonne occupata.
E proprio quest’università era diventata il fulcro di ogni genere di movimento, studentesco e non. I media avevano tacitato ogni genere di notizia. Parlavano di piccole opposizioni e la capitale era a ferro e fuoco. Ma nessuno si era fatto fermare. Volantini e gazzette avevano fatto il giro dell’Europa e avevano radunato sotto i propri ideali giovani capaci e aspiranti rivoluzionari in quel che sarebbe passato alla storia come il maggio francese. Le differenze linguistiche e culturali non erano un impedimento. Tutti avevano negli occhi la stessa scintilla vitale. Quel furore giovanile che li spingeva in cose improbabili e permetteva loro di capirsi con uno sguardo.
Ed anche a Sylvie e a Lawrence era successo. Si erano incontrati nello sguardo. Le fulgide stelle dei loro occhi si erano fuse per un unico minuscolo istante. Un unico minuscolo istante e poi tutto il resto. Si erano seguiti e si erano perduti. Due volti tra migliaia di giovani. Si erano allontanati, ciascuno in direzioni diverse. Ciascuno nel proprio mondo. Ma il morbo del destino li aveva contagiati. Non potevano eluderlo e prima ancora di saperlo erano legati per sempre. Ora dovevano solo essere e dunque furono. Furono la prima volta in una libreria in Place de la Sorbonne. Era Maggio e l’università era ancora occupata. La protesta ancora nel vivo. Eppure quel giorno la città pareva addormentata, quasi soporifera. Non c’era schiamazzo solo qualche grido sporadico lanciato al cielo uggioso. Sylvie si era addentrata in quella mattina placida e aveva scelto di attivarsi per recuperare un nuovo libro che le occupasse la mente. Aveva varcato l’ingresso della libreria come quello di un tempio sacro con religiosità e riverenza. Si era trovata davanti ad un labirinto di scaffali e volumi colorati. Aveva accarezzato Balzac, sfogliato Hugo. Si era avvicinata a Verlaine ed era passata oltre Mallarmé. E poi era espatriata. Aveva conosciuto Tolstoj e Dostoevskij, osservato Keats, ammirato Dante, aspirato l’odore di Wilde. Si sentiva così piccola vicino a quei grandi, sopraffatta da tanta magnificenza, ma proprio quell’ossequiosa venerazione la teneva lontana da loro. Voleva qualcosa a misura della piccola ragazza che era, qualcosa che non la mettesse a disagio e non la facesse sentire fuori luogo. Vagava indecisa, quasi spaesata tra gli scaffali che adesso le sembravano troppo immensi. E a un tratto si era sentita placcata alle spalle. Una presenza misteriosa. Come se uno di quegli autori del passato si fosse materializzato dietro di lei. Si era voltata di scatto, spaurita e si era trovata davanti un ragazzo esilissimo e sorridente. Era insieme sollevata e sorpresa di quel giunco moro che le agitava un libro sotto il naso.
“E’ bello!” - aveva detto con un accento buffo e squisitamente inglese - “E’ bello! Leggi questo!”
A metà tra lo sconvolto e il deliziato, Sylvie lo guardava e non agiva. Ora il ragazzo moro era in imbarazzo. Si accarezzava nervosamente i capelli e la nuca odorosa. Sperava che lei facesse qualcosa. Che dicesse qualcosa.
“Io lavoro qui, ma questo è mio. Puoi prenderlo! E’ bello!” aveva insistito.
Finalmente Sylvie aveva accettato tra le mani quel dono. Era un librino splendidamente rilegato in pellame rosso e caratteri dorati. Solo sulla costina era apposto il titolo: Wuthering Heights di Emily Brontë. Sfogliò le prime pagine. Era in inglese, lingua della quale Sylvie non era particolare intenditrice, ma lei era in verità troppo entusiasta per badare a simili piccolezze. Dunque si aprì in un sorriso sinceramente commosso e ringraziò di cuore quell’affettuosa premura.
“Appena lo finisco te lo restituisco” volle puntualizzare.
“Mi trovi qui” aveva risposto soddisfatto lui.
Sylvie si era allora allegramente avviata all’uscita ma un attimo prima di chiudersi la porta alle spalle aveva rifatto capolino.
“Se non capisco qualcosa, posso chiedere a te?”
“Mi trovi qui!” Aveva ripetuto lui.
“Ad ogni modo, il mio nome è Sylvie!”
“Io sono Lawrence.” Avevano tuonato dalle viscere della libreria.
Alla fine il libro se l’era fatto spiegare tutto, perché di quella lingua a lei quasi sconosciuta Sylvie aveva capito poco e nulla. Passava i pomeriggi con Lawrence. Lui leggeva e traduceva in francese. Lei ascoltava commossa quella lettura tanto intensa e ogni volta si stupiva di come riuscisse a trascinarla tra le pagine di quel libro. I suoi occhi erano la brughiera, la sua voce, il vento del Nord e aveva accanto a sé i deliri folli di Heathcliff e Cathy. Si era fatta catturare da quel legame tossico che trascendeva il tempo e la morte, se ne era nutrito e lo aveva fatto proprio.
Lawrence però leggeva speditamente e prima ancora che se ne accorgesse, le pagine si erano consumate. Erano giunti all’ultimo passo, all’ultima frase, all’ultima parola. Nel preciso istante in cui accostando la copertina, il libro veniva richiuso entrambi erano consapevoli di essersi innamorati. Un amore antico trovava la propria conclusione e un amore nuovo nasceva con quell’impeto coraggioso che solo gli amori nuovi hanno. Si infiltrava tra le pieghe e i risvolti di quelle esistenze giovani e li conduceva ad uno stato di fulgido splendore. Un fulgido splendore che trovava la sua massima espressione in quella quotidianità che entrambi avevano scelto di condividere. Avevano deciso di vivere assieme, Lawrence e Sylvie, e unirsi in una sorta di dipendenza fisica e sentimentale. Avevano scelto di abitare nell’appartamento di lei, che i genitori avvocati le avevano regalato in occasione della sua iscrizione all’università. La casa, la loro casa, si trasformò ben presto, da testimone silente e approssimativo a meraviglioso reliquiario. Lawrence amava tutto ciò che era eccentrico. Al suo arrivo aveva ridipinto le pareti a tonalità pastello, appese fotografie e litografie. Riempiva quotidianamente gli ambienti di chincaglierie da due soldi e ninnoli da rigattiere. Vivevano di dettagli, minuscoli particolari e sfumature imprecise di una vita senza pretese. Metodica e razionale l’una, creativo e sensibile l’altro. Le loro anime si completavano e anzi erano una sola. Un’unica psiche in due corpi. Metà di un unico essere che in tempi remoti un dio capriccioso si era divertito a separare. E in quella cornice di ovattata e zuccherosa felicità, entrambi amavano la loro sistematica routine. Un agglomerato di piccoli riti che tributava la vita a un culto singolare. Il rito che più di tutti però piaceva a Sylvie era la colazione. Nessuno dei due si alzava dal letto sorridendo alla giornata. La bocca impastata, i sogni interrotti dalla sveglia, il mal di testa come avessero dormito troppo poco. Non si dicevano bonjour, erano taciturni come mai durante la giornata. Mangiavano silenziosamente uno di fronte all’altra. Eppure quel silenzio le piaceva. Aveva passato tutta la vita a cercare di riempire i disagi di silenzi ansiogeni. Colmare quei vuoti imbarazzanti con osservazioni banali. Invece con lui sentiva che andava bene. Sentiva che poteva chiudere la bocca e gustare quel nulla sonoro. Ogni tanto Lawrence lanciava delle frasi rapsodiche, come se la sua mente, per sbaglio, si fosse fatta sfuggire uno dei tanti pensieri.
“Io e te siamo come questo tè e questo croissant.” Aveva detto una volta, indicando la colazione. “Io sono inglese e tu francese ma insieme funzioniamo bene!”
Sylvie era scoppiata a ridere fragorosamente. Non un riso superficiale. Si sentiva che lo tirava fuori proprio dal cuore quel ridere. Lawr che era sicuro di aver fatto un’osservazione intelligente, non capiva il motivo di tanta ilarità. Si sentiva quasi indignato da quella reazione ed era diventato di cattivo umore. Sylvie, che sapeva bene come prendere la sua permalosità connaturata, infilandosi il montgomery per uscire gli aveva scoccato un tenero bacio.
“E’ la cosa più romantica che mi abbiano mai detto!” gli aveva sussurrato.
Poi come ogni giorno, quelle due anime si erano addentrate in mondi diversi. Si erano separate per indossare divise esistenziali distinte che per un poco le teneva lontane. Lei, con la sua cartella da studentessa di giurisprudenza, scivolava in una Parigi frenetica. Mentre tutto attorno correva e scorreva, lei raggiungeva l’università placidamente. Si muoveva di movimenti serafici e calmi, come un animale appena risvegliatosi dal letargo.
Lawr era l’opposto. Usciva di casa sempre troppo tardi, perché si era soffermato ad osservare un oggetto o a sviluppare una riflessione. Stretto nel suo parka sgualcito correva tra la gente, urtava tutti, era un continuo “sorry”. Era frenetico e agitato, sbadato e goffo per l’altezza esagerata. Aveva modi maldestri e piuttosto insicuri. Anche a lavoro, in libreria, faceva spesso cadere alte pile di libri o cadeva egli stesso dallo sgabello di legno. Eppure trattava i clienti in una maniera squisitamente genuina. Era empatico e disponibile. Intavolava meravigliose conversazioni su questo o quell’autore, parlava di tutto ciò che gli piaceva e trascinava il suo interlocutore in un mondo straordinario. Molti habitué del negozio erano tali per quel delizioso ragazzo inglese che ci lavorava e anche Lawrence stesso era felice di svolgere un’attività che lo rendesse così entusiasta. A fine giornata era quasi sempre di ottimo umore e tornava a casa nella migliore delle predisposizioni.
Poiché la Sorbonne e la libreria erano di fatto piuttosto vicine, Sylvie e Lawrence si erano accordati fin dai primi tempi per percorrere assieme la strada del rientro. Lei lo aspettava ad un angolo della Place, infreddolita e stanca, talvolta anche spazientita. Quando però giungeva il suo giunco moro riusciva a pensare solo allo splendore di riaverlo accanto. A potergli finalmente stringere le mani grandi e nodose, sentire il calore di quell’amore santo. Camminando, si raccontavano tutto. Ogni microscopico particolare di quei momenti di separazione. Come se facendolo avessero potuto riavere la giornata comune che avevano perduto. Quando poi arrivavano a casa, salendo i trentasei gradini del vecchio palazzo di epoca nazista che abitavano, sentivano che il grande essere era ricongiunto nel modo più saldo e l’ordine cosmico era finalmente ricostituito.
Col tempo entrambi si erano resi reciprocamente necessari. Avevano bisogno l’uno dell’altro come in una assuefazione amorosa. Una sorta di dipendenza tossica, che faceva loro sia bene che male. E mentre fuori la capitale affrontava infiniti cambiamenti, mentre De Gaulle si dimetteva lasciando la Quinta Repubblica alla deriva, quei due giovani vivevano un’esistenza tra parentesi. Disinteressati di tutto ciò che li circondava, erano consci solo dei loro appetiti, della loro insaziabile fame dell’altro. Ma la loro felicità era precaria come precarie sono le urgenze giovanili e presto quell’equilibrio così perfetto che avevano costruito si incrinò rovinosamente. Lawrence in breve tempo, aveva subito un cambiamento radicale. Era diventato sfuggente e riservato, talvolta lunatico. Preso da impulsi di volubile incoerenza di sottraeva alle premure di Sylvie eppure le pretendeva quando questa non le porgeva. Scivolava in silenzi di piombo, non parlava per giorni. Si lasciava morire le parole in gola e i pensieri nella mente. Era capriccioso e irragionevole. Evitava di mangiare o anche solo di toccare cibo e col tempo il suo corpo aveva assunto un aspetto di smunta malattia. Trascorreva intere notti fuori casa, si addentrava in crepuscoli gravi senza addurre spiegazioni. Sylvie era esausta e stremata da quella situazione. Stanca da quel mutamento improvvisto, incapace di comprendere le ragioni che l’avevano motivato. Le era successo una volta di sorprenderlo in lacrime. Si era aperto in un pianto dirotto e disperato, colmo di singhiozzi che tirava su con il naso umido e lei non aveva potuto non notare che quello non era tanto un volto, quanto la concreta espressione di una difficoltà. Se l’era stretto tra le braccia quel ragazzo e l’aveva sentito piccino piccino. Ed allora l’aveva stretto più forte, come temendo che mollando la prese avesse potuto sfuggirle.
“Amore santo, amore mio, che succede?”
Ma lui aveva eretto un barriera di incomunicabilità e non aveva risposto. Si era avvinghiato al ventre sottile di lei, come a quello di una madre, come all’origine stessa della vita. Sembrava volesse tornarci dentro, quel ventre.  Regredire ad uno stato primordiale e ritrovare quella condizione fetale di tiepida felicità. Addormentarsi in quella cava odorosa di sangue e di vita.
Poi si era calmato, aveva carezzato Sylvie e l’aveva lasciata andare come a voler tagliare via quel cordone ombelicale che li teneva uniti.
“E’ stato un momento, ora sto bene.”
Lei avrebbe voluto crederci, scivolare e accucciarsi nell’illusione dolce di quelle parole. Ma non poteva. Era perfettamente conscia di quel disagio profondo degli ultimi mesi. Quella depressione mortale che alitava su Lawr. Quella stessa depressione che lo rendeva un guscio vuoto, una sorta di fantoccio di se stesso. Non aveva più interessi, solo appetiti. Si inoltrava in giornate apatiche, fatte di cenni meccanici e movimenti inerziali. Anche il lavoro in libreria gli era indifferente. Tutti quegli scaffali e quei volumi colorati che tanto aveva amato non suscitavano in lui più alcuna emozione. Era stanco di tutto, fiaccato e spossato dalla vita stessa. Da qualche tempo poi, aveva cominciato a fumare. Consumava, quotidianamente, interi pacchetti logorato da dipendenza realmente fisica. Lawrence aspirava quel refolo virtuoso come un rimedio raro e la nicotina solo, riusciva a calmarlo. Sylvie dal canto suo si prodigava nel tentare di aiutarlo o anche solo nel cercare di capirlo ma Lawr era indecifrabile. Ogni volta che lei gli tendeva le mani  i suoi abbracci cadevano nel vuoto come l’eco malsano di una difficoltà. Poi un giorno, che sarebbe potuto essere un giorno di banale semplicità, egli vomitò tutto. Esausto da quel peso intimo rovesciò il fiume di parole che gli scorreva dentro. Scoprì le carte della sua esistenza e fu nudo di segreti dinanzi a Sylvie.
Le parlò a lungo di lui, di lui prima di lei.
Ripercorse da principio l’infanzia solitaria a South London, la povertà della sua famiglia squallida e grottesca. Era nato da padre sconosciuto e da madre tendenzialmente irresponsabile. Questa invero, poco incline alle incombenze e troppo all’abbandono, l’aveva lasciato a se stesso già nei primi anni della sua giovinezza. E lui era cresciuto con la mancanza addosso, una mancanza che non riusciva a descrivere ma che pure gli era pesata sullo stomaco, sulla testa e sul cuore come fosse stato monco. Monco d’affetto, tutta la vita. Poi quando Lawr aveva dieci anni, quella donna aveva partorito un altro bambino. Un bambino che gli aveva presentato come suo fratello, a cui aveva dato il nome di Jamie. E lui l’aveva amato dal primo istante che era venuto al mondo. Se ne era preso cura con attenzione perché almeno il piccino potesse crescere con tutto quell’amore che lui stesso non aveva mai conosciuto. Quello per Lawrence era stato un periodo meraviglioso. Ricordava i sorrisi sdentati di Jamie, i suoi occhi fulgidi e brillanti. Trasportato da una specie di egoistico desiderio, era immensamente felice di rappresentare per quel piccino l’unica condizione di sopravvivenza. La prerogativa senza la quale Jamie non sarebbe potuto essere al mondo.
Talvolta, quando riconosceva in lui, in modo del tutto arbitrario, un momento di predisposizione alla parola, Lawrence sillabava a voce alta il proprio nome. Sperava un giorno di sorprenderlo a pronunciarlo. In maniera buffa magari, sbagliando qualcosa in quel modo delizioso che solo i neonati conoscono. Ma quel momento non arrivò né allora né mai. Anche crescendo Jamie non spiccicava parola. Si limitava a gridolini striduli che accapponavano la pelle. Fu allora che, davanti a quel perpetrato mutismo, la madre, sempre così assente, raccogliendo il briciolo di istinto materno che possedeva, aveva deciso di porre Jamie davanti ad un medico. Un medico che in realtà fu poi più di uno. Qualcuno suppose fosse muto. Altri che fosse scemo. Altri ancora che avesse subito un trauma alla nascita. L’unico che di fatto riuscì a definire quel disagio si pronunciò invece attribuendogli il nome di ‘autismo’. La madre e Lawrence ascoltavano sconvolti la descrizione di quella malattia orrenda. Un accidente, nient’altro che un accidente genetico che avrebbe reso la vita di Jamie un inferno. Lawr più di tutti riconosceva l’autentico sgomento di quella situazione così triste. La coscienza di essere al mondo eppure l’impossibilità di esprimersi era forse la sorte più terribile che poteva toccare ad un uomo.
Come predetto dal luminare la sua situazione andava aggravandosi con il passare del tempo. Jamie, a sei anni, era un uccello grottesco. Si esprimeva a versi, mugolii  e gemiti animaleschi. Solitamente, trattenendo tutta la mano in bocca, amava dondolarsi tranquillamente ma vi erano anche momenti in cui la sua mente goffa stabiliva che qualcosa non andava e allora cominciava ad urlare. Erano urla che venivano da una cavità profonda come l’inferno stesso, le sue. E poi si agitava freneticamente. Muoveva le braccia come a voler spiccare il volo e la testa sembrava dovergli saltare via dalle spalle per quanto la dimenava.
Lawrence a quello spettacolo sinistro assisteva impotente e scosso. Era terrorizzato di poter essere preso anch’egli da quel folle volo. E più volte nella sua vita si era accusato di codardia per quella irragionevole paura che però non riusciva a superare. Durante le crisi di Jamie, avrebbe voluto abbracciarlo, stringerlo forte e calmare quella danza angosciosa. Dirgli che andava tutto bene. Sapeva che avrebbe capito. Da qualche parte in Jamie c’era un io cosciente di ciò che avveniva attorno a lui. Ma non c’era riuscito e a ventiquattro anni Lawrence era fuggito. Era fuggito da sua madre, da Jamie, da Londra e da quell’agglomerato di infelicità che era stata la sua vita fino a quel momento. Quello verso Parigi era stato un viaggio della speranza al culmine del quale aveva incontrato Sylvie. Sylvie era stata la sua speranza, la sua ancora, la sua zattera. Lo aveva redento dalla sua condizione, gli aveva fatto capire che in fondo questo mondo non era poi così marcio. Sylvie l’aveva salvato da se stesso prima che dagli altri. E assieme avevano condiviso attimi della più completa felicità. Un benessere perfetto che si era però incrinato quando i fantasmi del passato  erano tornati a fare capolino. Lawrence aveva rincontrato le ombre della depressione nel momento stesso in cui aveva ricevuto una breve e concisa lettera dall’Inghilterra. Era solo una frase, niente di più eppure era riuscita a rievocare in lui tutte le paure che aveva sopito negli ultimi anni.
                          “Jamie è al Salpêtrière. Prenditi cura di lui. Eliza, tua madre.”
Nel momento stesso in cui leggeva, Lawrence era un corollario di emozioni. Era furioso con quella madre irresponsabile che lasciava i suoi figli in balia degli eventi. Si dileguava ancora una volta scaricando i proprio obblighi su qualcun altro.
Ed era inoltre terrorizzato dall’idea di rivedere Jamie che nella sua mente era diventato l’espressione autentica della paura stessa e al contempo consapevole di dover pagare il fio del suo abbandono. Si sentiva perseguitato da un passato che non voleva mollare la presa. Arrabbiato col mondo e con se stesso.
Poi quando aveva riacquistato il controllo di se, Lawrence era scivolato nella Parigi di sempre e si era diretto all’ospedale che la madre gli aveva indicato. Aveva incontrato Jamie col petto in fiamme. Era cresciuto, gli era sembrato in buona salute. Jamie dal canto suo, l’aveva accolto con un sorriso grande grande e aveva battuto le mani energicamente. Poi l’ aveva cinto in un abbraccio sbieco e si era infilato una mano in bocca. Il medico gli aveva spiegato che era felice. E Lawr si era sentito un po’ sollevato. Tutto avvenne di nascosto da Sylvie naturalmente, che Lawrence temeva di sconvolgere con la conoscenza di quell’uccello grottesco. Si vergognava della sua vergogna ma la possibilità di perdere l’amore di quella ragazza perfetta era troppo orribile per essere anche solo concepita.
In cuor suo temeva di essere giudicato colpevole di una colpa imprecisata e si era impegnato a pagare puntualmente e in modo ossequioso le rate della degenza di quel diciassettenne folle. Le rate erano care. Era il prezzo del silenzio in fondo. Lawrence prezzolava così il suo passato affinché si tenesse lontano.
Gli incontri tra i due fratelli continuarono nei mesi successivi, ma non tutti procurarono gli esiti positivi del primo. Talvolta Jamie era violento, talvolta isterico. C’erano giorni in cui sboccava in un pianto incontrollato e altri in cui conosceva la migliore delle predisposizioni. Lawrence sopportava in silenzio quel fardello emotivo mentre la sua depressione tornava e lo incalzava. Poi finalmente aveva deciso di liberarsene, esponendosi al giudizio di quell’unica persona la cui opinione era essenziale per lui.
Sylvie lo aveva ascoltato composta e imperturbabile, preoccupandosi di darsi un contegno pacato. Nel sue intimo si erano in verità mosse decine di impressioni ed emozioni ma comprendeva la necessità di celarle a quell’animo scosso. Gli si era seduta in braccio, lo aveva carezzato. Gli aveva detto che non aveva sbagliato nulla, che non aveva di cosa vergognarsi. Aveva espresso il desiderio di conoscere Jamie, perché il suo passato era il loro passato. Finalmente, dopo tanti mesi Lawrence le era sembrato calmo. E poi si erano addormentati così, due corpi raggomitolati in un divano troppo piccolo.
La mattina seguente rappresentava nella mente di Sylvie il ricordo in assoluto più nitido di tutti. Si era svegliata a letto, con le coperte ben rimboccate. Una di quelle premure che Lawr le riservava spesso. Aveva trovato la casa vuota e aveva dedotto che lui doveva essere già alla libreria. D’altronde s’era addentrata nel nuovo giorno seraficamente, alzandosi tardi e facendo colazione ad ora di pranzo. Aveva lezione quel giorno ma l’oziosità di quel giovedì di fine settembre le adduceva un’infinità di ottimi motivi per godersi la quiete di casa. Quando il telefono squillò erano da poco passate le due di pomeriggio. Il suono acuto dell’apparecchio la fece sussultare. Non era abituata a ricevere chiamate e ancor di più ad orari così singolari. Posò cautamente la cornetta all’orecchio e attese che chi era dall’altra parte si pronunciasse. Quando ebbe la notizia, Sylvie si sentì mancare ma fu forte e sedendosi evitò di svenire. Ringraziò l’uomo della police che le aveva telefonato e riattaccò. Quell’annuncio era così surreale che le sembrava non facesse neppure male. Voleva rimanere sola con se stessa.  Ci voleva del tempo per digerire quella mancanza e adesso la botta era ancora troppo calda per sentirla davvero. La voce sconosciuta dall’altra parte del telefono le aveva spiegato che in mattinata era stato trovato il corpo di un giovane inglese affogato nella Senna. Erano risaliti alla sua identità e al fatto che lavorasse in una libreria di Place de la Sorbonne. Il proprietario aveva indicato loro il numero di casa. Sylvie aveva risposto a monosillabi attonita ed incredula, si era messa a disposizione per il riconoscimento ufficiale e neppure lo sapeva. Solo al termine della chiamata, poco prima di riagganciare aveva chiesto:
“E’ stato un suicidio?”
L’uomo della police si era concesso una lunga pausa meditativa.
“Non lo sappiamo madame. Potrebbe essere stato un incidente. Quella riva della Senna è piuttosto pericolosa.”
E mentre il poliziotto riagganciando tornava alle sue scrupolose indagini, una ragazza di ventiquattro anni annegava nel dolore.
Le ore successive furono strazianti. Gran parte delle quali passate in obitorio a vegliare quelle carni gonfie e violacee che erano state Lawrence. Riconosceva le fisionomie di lui ma non poteva credere che il suo giunco moro così bello, così spontaneo, così vivo fosse ora solo un corpo esanime su un banco di ferro. E nell’osservarlo, con più stupore che dolore, si sentiva privata di qualcosa di essenziale, come se le avessero mutilato un pezzo di cuore. Avrebbe capito solo più tardi, cominciando a convivere con l’assenza, che quel giorno nella Senna, assieme a Lawrence era affogata gran parte di lei.
Il funerale aveva avuto luogo, una volta effettuata l’autopsia, in circostanze piuttosto modeste. Sylvie aveva scelto la chiesetta vicino casa e delle esequie senza pretese. C’erano una trentina di partecipanti e tutti le avevano addotto condoglianze poco sentite. Lei si era barricata dietro spessi occhiali scuri e aveva ascoltato la liturgia in una sorta di trance. E ad un certo punto aveva visto il giunco moro sedersi sul legno della sua bara e stiracchiarsi le braccia.  Poi guardarla. Lawr le chiedeva scusa. Per essere morto, per averla lasciata da sola, per aver distrutto quello che era e quello che erano insieme. Poi le rivolgeva un sorriso affettuoso.
“Sei forte amore mio.” Le aveva dice.
Ed era la prima volta che Sylvie si lasciava andare al pianto, non si tratteneva, non lo ricacciava indietro. Ed il solo pianto come manifestazione più autentica del dolore se lo concedeva per la prima volta. Non voleva essere forte, voleva essere solo un po’ meno sola.
Tendeva la mano al suo amore santo, Sylvie, ma sapeva di non poterlo toccare. Eppure lo vedeva, ne sentiva l’odore. Quell’odore che sarebbe poi diventato odore dell’assenza stessa. Quell’odore che, a partire da quel momento, le sarebbe mancato tutta la vita.
Sylvie dopo Lawrence non era la ragazza forte che aveva sperato. Era stremata e stanca, si lasciava trascinare dagli eventi. Proseguiva per inerzia ma era l’imitazione malriuscita di se stessa.
Ogni volta arrivare alla fine di quei giorni maledetti le diventava più difficile e Sylvie non ce la faceva più.
Non vedeva presente e non vedeva futuro, solo un triste oblio davanti a se. Lawrence era il senso delle sue giornate e ora che non c’era più era il vuoto ad ogni passo.
Il telefono ancora una volta aveva squillato, Sylvie ancora una volta aveva risposto.
Quell’apparecchio infernale avrebbe potuto essere morte ma intanto era vita perché dall’altro capo c’era un medico del Salpêtrière e le parlava di Jamie. Una voce roca le diceva che il pagamento della degenza non veniva effettuato da tre mesi e che se entro dieci giorni non sarebbe stato saldato il debito avrebbero dimesso Jamie. Quell’uomo anziano che parla al telefono aveva la freddezza dei dottori. Usava frasi brevi e concise come i tagli del bisturi nella carne. I suoi intercalari erano punti di sutura. Dunque Sylvie aveva recepito tutto e prima ancora di aver riattaccato aveva già indossato il montgomery e, presi i soldi necessari, si dirigeva in Ospedale. Per strada aveva pensato che la vita era così. Tanti piccolo segni che ti vengono a cercare. E il suo segno ora era quel diciassettenne autistico che poteva davvero cambiarle l’esistenza.
Lo scambio avvenne secco e veloce. Pagati gli arretrati e può portarsi via Jamie.
Quell’unica eredità di carne che le ha lasciato Lawrence.
Non si somigliavano per niente Lawrence e Jamie, avevano fattezze diverse. Opposte. Jamie era bassino, esile. Aveva capelli biondi e occhi verdi. Aveva stretto la mano di Sylvie che lo stava conducendo a casa. Ogni tanto si era fermato per strada con uno scatto improvviso, si era guardato i piedi, poi aveva guardato quelli della sua accompagnatrice. Aveva emesso qualche mugolio e l’aveva abbracciata forte. Sylvie aveva riconosciuto in quell’abbraccio gli abbracci di Lawrence. Lo aveva stretto anche lei e prima di essere arrivata a casa aveva saputo già di volergli bene.
All’università si era presa una pausa, d’altronde era un anno che non combina nulla. Aveva stabilito che la laurea in giurisprudenza poteva attendere. Aveva tutta la vita per fare l’avvocato.
Aveva invece deciso di concentrare le sue attenzioni allo studio dell’autismo per cercare di capire un po’ meglio Jamie. Aveva fatto incetta di libri sull’argomento in una biblioteca di Montparnasse, per quel che poteva evitava Place de la Sorbonne.
Addentrandosi in studi psichiatrici piuttosto incomprensibili aveva scoperto diverse cose interessanti che semplificano notevolmente la vita del piccino.
Ma le esperienze più belle erano quelle estrapolate dai frammenti di vita comune.
Scivolando nei meandri di quell’animo incompreso ne aveva scoperto il talento straordinariamente naturale per il disegno. In mano a Jamie, una matita sembrava subito diventare prolungamento ordinario del suo corpo e i capolavori che nascevano dal suo pugno erano inarrivabili. Da un po’ di tempo poi,  Sylvie aveva imparato a decifrare il codice sonoro di Jamie. Non c’era voluto molto a capire che tutti quei versi non erano produzioni casuali ma piuttosto il tentativo di una primordiale espressione. Dopodiché il passo verso la comprensione quasi completa era stato breve e tutto le era sembrato più difficile. Lei aveva dovuto organizzare le sue prerogative in esclusiva funzione di Jamie. Tutte le azioni quotidiane avvenivano con e per Jamie. Ora che almeno lei comprendeva i suoi desideri e le sue pretese, si prodigava nell’ esaudirne il più possibile e allo stesso tempo nel fornirgli quell’educazione familiare che per lungo tempo gli era mancata.
Il luminare dal quale lo portava ogni sabato era una mosca col camice. C’era qualcosa di veramente ridicolo in lui, nei suoi modi e anche Jamie doveva essersene accorto poiché appena entravano nell’ambulatorio di lui cominciava a ridacchiare. Questo buffo medico inforcava i fondi di bottiglia, che qualcuno gli aveva propinato come occhiali, e visitava il ragazzo con minuzia. A Jamie non piaceva essere toccato ma lo lasciava fare. Tuttavia non tollerava che gli venisse tastata la schiena, in quel punto a metà tra una scapola e l’altra. Se per sbaglio glielo si sfiorava, Il ragazzo gridava, scalciava e piangeva come un animale pazzo.
Sylvie aveva immaginato che il piccino prima di nascere come uomo doveva essere  stato un uccello e poiché la trasformazione non era avvenuta con successo egli era ora, naturalmente un po’ selvaggio e aveva quel dolore lì dove un tempo c’erano state le ali. Solo così riusciva a spiegarsi quella creatura tanto singolare, grottesca e fulgida allo stesso tempo.
Jamie era tendenzialmente incline al buon umore. Riempiva la casa di gridolini e versi felici per gran parte della giornata e si mostrava sempre affettuoso nei confronti di Sylvie. Tuttavia vi erano giornate in cui era davvero intrattabile. Irritabile e violento, non era raro che si lasciasse prendere da una delle sue crisi. Quelle crisi erano in realtà l’unica cosa che riusciva a spaventare Sylvie. Ricordando le parole di Lawr riconosceva quanto fossero realmente spaventosi quei momenti di follia pura. Jamie agitava le braccia in un volo sinistro che lasciava Sylvie basita e terrorizzata.
Poi una volta, in uno slancio di coraggio si era avvicinata a lui e aveva provato a fermare quello svolazzo. Gli aveva bloccato gli arti con forza.
“Non ce l’hai le ali.” Gli aveva detto e lui si era placato. Si era seduto, sconvolto dalla triste consapevolezza di essere relegato a terra. Jamie non l’aveva fatto più, non aveva più tentato di spiccare il volo, forse finalmente conscio della sua condizione di uomo. Allora aveva preso a disegnare gabbiani, rondini, fringuelli e usignoli. Tutti piccoli capolavori che Sylvie aveva l’abitudine di appendere alla parete della cucina. E nella piccola voliera che era diventata la loro casa entrambi erano finalmente felici, felici di una felicità che solo la presenza di Lawrence avrebbe potuto rendere più grande.
Poi un giorno, come tutti i giorni Sylvie era andata a fare la spesa e come tutti i giorni Jamie era rimasto a casa. Ma quel giorno accadde qualcosa che non era di tutti i giorni. Al suo ritorno sotto il palazzo di epoca nazista che abitavano era gremito di persone. Vocii e strilli intasavano quell’estremo di Parigi. C’era un’ambulanza e stava caricando qualcosa, qualcuno. Sylvie si fece largo tra la folla a spinte e strattoni. Prima ancora in vedere la chiazza di sangue sull’antracite la sua mente aveva indovinato cosa potesse essere successo. Era corsa verso l’ambulanza, con la speranza ultima di essersi sbagliata e l’aveva visto disteso sulla barella. Jamie aveva il volto sfregiato, a tratti tumefatto. Doveva essere stato un bel volo. Tre piani e diversi metri d’altezza. Ma gli uccelli non hanno paura di posti alti e lui si era gettato placidamente, confidando in quelle ali che non aveva più ormai da tempo.
La corsa in ospedale era stata drammatica ed inutile, all’arrivo era stato dichiarato grave, venti minuti dopo morto. I medici erano stati tempestivi, se avesse riportato qualche emorragia in meno, probabilmente l’avrebbero salvato ma il corpo di quell’uccello pazzo era un bagno di sangue e le arterie erano troppo vuote per tenerlo in vita. Era morto così, senza se e senza ma, ad appena diciassette anni. Privo quasi della coscienza di essere al mondo.
Al funerale sperava di vedere il piccino sedersi sulla sua bara, com’era successo al lutto precedente ma Jamie non arrivò mai. Tuttavia scorse Lawrence camminare lungo la piccola navata e sfiorare la bara bianca con l’indice. Questa volta la sua fantasia non andò oltre quest’immagine, non glielo permise. La fermò prima che il ricordo potesse prendere il sopravvento. Sebbene le lacrime le rotolassero sul viso, non si sentiva disperata né sconvolta.
Aveva dormito a casa dei suoi genitori in quei giorni. Il suo appartamento la spaventava. Tutti quei cimeli, quegli odori, quei ricordi, erano la prova concreta che Lawrence e Jamie erano esistiti e lei li aveva perduti. Si era chiusa nella sua cameretta di bambina e aveva ripercorso gli anni dell’infanzia. Erano stati anni felici eppure non se n’era mai accorta. Aveva pensato alle infanzie dei suoi due uomini, in Inghilterra e paragonandole alla sua si era scoperta immensamente fortunata. Era cambiata in quegli anni, Lawrence e Jamie l’avevano stravolta più di quanto non si fosse accorta. E anche se nell’ultimo periodo aveva passato più tempo a guardarsi indietro invece che avanti ora voleva proseguire e lasciarsi dietro quei fantasmi che a Parigi le sembravano più vividi che mai.
Era partita per Marsiglia, il luogo della sua fanciullezza. Si era rifugiata nella villa di famiglia e aveva messo per iscritto tutto quello che c’era da dire sulla sua storia.
Con quei fogli nella borsa ora ripartiva, ma aspettando il treno aveva deciso di concedersi un ultimo passo indietro. Guardava di nuovo il mare e i gabbiani che riempivano il cielo del sud. Li vedeva spiccare voli maestosi e agitare le ali perfette. Pensava che ora anche Lawrence e Jamie dovessero essere così, maestosi e perfetti. Creature non terra ma di cielo. E che un giorno forse anche tutti noi saremmo confluiti in quel luogo assoluto.
Poi il treno arrivò e Sylvie salì in carrozza. Si lasciò quel cielo alle spalle, ovunque fosse diretta.
  
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