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Autore: Oh_My_Eel    01/07/2014    1 recensioni
Ad Eels mancava una mano, era debole fisicamente e per lo più albino; non ci volle molto perché il suo aspetto fisico rovinasse la sua intera vita.
Non c'era ragazzo più sensibile di lui.
Per evitare di piangere, di disperarsi o di tentare il suicidio, andava sempre a dormire.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questo è il mio primo racconto breve. Sono solita a scrivere sempre molto, ma stavolta mi sono contenuta. In più, questo l'ho ripreso da un mio precedente account che sto facendo chiudere, e siccome mi ero affezionata al racconto volevo rimetterlo.
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Questa è la storia di un ragazzo di nome Robert Frost, che preferiva chiamarsi Eels, ed era una delle persone più sfortunate del mondo. Fu abbandonato all’età di due anni per la morte della madre e del rifiuto del padre e dell’intera famiglia; nessuno voleva crescere un bambino albino e, per lo più, nato senza una mano. Esatto, senza mano; la madre, durante la gravidanza, fumava e prendeva antibiotici in continuazione per via di una malattia “immaginaria”, o vero che pensava di avere. Così il povero Robert non nacque solo con pigrizia cardiaca, ma anche due mesi in anticipo e senza una mano. Fu tenuto per due anni, per volontà della madre che provava pena per quel povero bambino ma, come dissi prima, morì.
Fu lasciato in un orfanotrofio, in una giornata di neve candida come la sua pelle ed i suoi capelli. I suoi occhi, invece, tradivano la sua innocenza per un colore rosso primario, che inquietavano la gente. Crebbe in fretta, anche mentalmente, perché fu considerato subito, dagli altri, da evitare. Un mostro, come lo chiamavano alcuni bambini, per via del suo aspetto. Me lo ricordavo bene; a nove anni era alto come uno di dodici, era molto magrolino e anche nei giorni di neve si vestiva davvero leggero. Aveva anche uno strano modo di relazionarsi con la gente; tu lo salutavi anche solo per cominciare a parlare e lui, con tutta l’innocenza del mondo, si voltata e ti rispondeva in modo inusuale, oserei dire originale.. che tipo che era. Io ero appena stata portata all’orfanotrofio, e non avendo amici volevo farmene qualcuno. In più, il suo aspetto e la sua solitudine mi incuriosirono.
«Ciao» Dissi, con la voce quasi tremolante. Ero una bambina estremamente timida, che parlava poco, facendo del suo meglio per non fare alcun tipo di errore grammaticale o fonetico, nella speranza di non balbettare. «Il mio nome è Renée Parker. Sono nuova.»
«Perché te lo ripeti?»
La sua risposta non celava alcuna cattiveria né irritazione, solo una semplice nota di comprensione che gli dava un’aria simile alla mia.
«Cosa mi ripeto?» Chiesi io, un po’ confusa.
«Che sei nuova» Specificò lui, osservando i miei occhi verdi con i suoi occhi cremisi. «Non è sicuramente una bella cosa venire qui.» Da lì in avanti non servivano più spiegazioni, perché era stato chiaro. Nessuno veniva in un orfanotrofio con felicità, e il fatto che fossi nuova la spiegava lunga. I miei genitori erano morti in un incendio una settimana prima e, non avendo nonni o zie disponibili, fui mandata lì.
«N-no.. non lo è.» Affermai io, allora.
«Allora non dire di essere nuova» Replicò ancora lui. «Dì di non essere qui.»
«Perché dovrei farlo?»
«Per auto-convinzione. Dentro sei triste e distrutta, sei rimasta senza nessuno al mondo, e devi trovare un modo in cui non pensarci, di non esserne più cosciente.»
Rimasi colpita da quella risposta. Quel ragazzino di cui ancora non sapevo il nome sembrava avermi letto nell’anima, ma potevo immaginarmi il perché. Anche lui era in un orfanotrofio esattamente come me.
«…Come ti chiami?» Chiesi poi io.
«Io mi chiamo Eels. Ma sono stato denominato Robert Frost. Tu mi hai detto del tuo vero nome, ma tu come ti chiami
Non lo trovavo strano il suo comportamento, se non leggermente particolare. Le sue risposte erano semplici, ma in un qualche modo mi davano un messaggio di profondità spirituale, qualcosa che nessuna conversazione mi faceva mai sentire.
«Non ci hai mai pensato?» Mi chiese ancora.
«A dir la verità.. mai.»
«Come ti vuoi chiamare, Renée?»
La risposta era difficile da dare, e per questo dissi il primo nome che mi venne in mente grazie al fiocco bianco che tenevo in testa.
«F.. Fiocco va bene?»
Vidi, per la prima volta, un suo sorriso. «Certo. Ora presentiamoci a dovere.»
Si alzò piano dallo scalino innevato, e mi osservò negli occhi. Il cremisi che vi era sembrava non essere più spaventoso come prima, perché ormai, ai miei occhi, lui non era altro che un bambino particolare.
 
«Io mi chiamo Eels. E tu?»
«Io mi chiamo Fiocco.»
 
E così andò avanti. Io avevo sette anni, lui nove, e la nostra amicizia nacque da quel momento in poi. Imparai a conoscerlo e a volergli bene come un fratello, e mi raccontò che ero la prima persona in tutta la sua vita che non l’aveva evitato per il suo strano modo di essere, esteticamente e interiormente. Il fato volle che finissimo nella stessa camera da quel momento fino agli anni a venire.
Mi parlò di lui, di storie che creava per sentirsi in un mondo fatto a sua misura. Spesso veniva picchiato da dei bulletti più grandi di noi e insultato come “mostro”, “demone”. Finii anche io nel diventare una vittima solo perché parlavo con lui ed ero sua amica. A volte gli adulti li fermavano dal farci male, ma non bastava. Capitava che dovessimo nasconderci in punti strategici; quando capitava, Eels doveva astenersi dal ridere, per via della sua fervida immaginazione, perché nella sua brillante mente la scena era di alcuni troll che inseguivano i due bambini protagonisti di un qualche racconto fantastico.
Parlavamo sempre, e se non parlavamo lui metteva la testa sopra le mie gambe e, sdraiato, osservava il vuoto, qualche volta me. Quando parlavamo, cominciava lui con le sue strane argomentazioni che però avevano un senso, che potevano portarlo a sorridere o portarlo a piangere e smettere di parlare. Era un bambino sensibile, quando piangeva mi abbracciava. Dopo aver finito, affermava: «Ho bisogno di dormire.» E si intrufolava nel mio letto, cadendo in un sonno profondo.
Solo una volta, in tutta la nostra vita, affermò di non riuscire a dormire. Era una serata primaverile, lui aveva dodici anni ed io dieci ormai, tre anni erano passati e la nostra amicizia non si era ancora sciolta. Era una delle volte in cui si era messo a piangere, ma quando piangeva non era rumoroso, e poco singhiozzava; i suoi occhi si facevano più chiari e le lacrime scendevano senza fine. Piangeva solo quando finiva, da solo, in uno dei suoi monologhi sulla solitudine. Non aveva mai avuto nessuno che gli volesse bene, a sua memoria, e tutti lo evitavano. Raccontò che, nei suoi primi ricordi piangeva in continuazione perché era isolato da tutti gli altri i bambini, ma che col passare del tempo si era contenuto, e gli unici momenti in cui non era depresso era solo quando la sua immaginazione non lo portava via, lontano da quel mondo crudele. Da quando ero diventata sua amica, mi diceva anche, non era più triste né tormentato. Semplicemente piangeva al ricordo di essere stato solo al mondo, e non era cosa da poco, perché avrebbe segnato la sua vita.
«Non riesco a dormire.» Mi disse. Era una delle tante sere in cui si intrufolava nel mio letto e dormiva con me. Io ero rimasta stupita, siccome a dormire lui non ci metteva mai nulla.
«Conta le pecore.» Suggerii io.
«L’ho fatto, Fiocco, l’ho fatto varie volte, ma c’è un dubbio che mi attraversa la mente da un po’ di tempo.»
«Quale?»
«Dove finiscono le pecore, una volta che saltano il recinto? Che sia l’unica deviazione della loro vita oltre al nutrirsi e al dormire? È come un’avventura breve, un piccolo sbalzo nel regolatore del battito cardiaco, che svanisce subito. Io penso, penso e penso, ed arrivo a questo. Ad un sonno mancato.»
Io non dissi nulla, ma lui capì che potevo solo compatirlo, ed aspettare che si addormentasse. A me successe, ma lui rimase sveglio tutta la notte.
 
Eels non custodiva bei ricordi al di fuori di quelli in cui c’eravamo io e lui insieme. Mi ricordai di una volta che venne picchiato per avermi difesa.
Ormai eravamo adolescenti. Nessuno adottava dei ragazzini di quell’età, sapevamo che per noi quella possibilità era finita. Non solo per noi, ma anche per tutti i ragazzini che c’erano insieme a noi; in quei periodi di crisi economica, non c’era tempo per badare a dei bambini o a degli adolescenti.
Crescendo, Eels era diventato più sensibile, anche più irascibile. Aveva cominciato con l’arrabbiarsi e lo sfogarsi, per poi aggrapparsi disperatamente a me. Era una cosa davvero dolce e un po’ quando mi abbracciava, perché lui era alto almeno quindici centimetri in più di me; in ogni caso, lo faceva sentire meglio.
Quel pomeriggio ero fuori, in cortile, a leggermi un libro tutta tranquilla, mentre camminavo diretta verso una delle due panche in legno che ci stavano. Eels era andato a prendere da mangiare e avevamo intenzione di spendere il pomeriggio con un buon libro e del cibo-spazzatura. Siccome stavo camminando mentre ero impegnata a leggere, senza accorgermene, sbattei contro una persona. Per la botta fui costretta ad indietreggiare di tre passi, per poi mormorare un lieve “scusi”. Non avevo visto contro chi avevo sbattuto, e quando alzai lo sguardo rimasi disgustata; era uno di quei bulletti che se la prendevano con i più piccoli e, per essere più precisi, con lei ed Eels.
Non potei fare nulla subito, fu tutto veloce, ma quando successe capii la gravità della situazione; mi lanciò un sonoro e potente schiaffo. Per auto-difesa, non potei fare altro che lanciare uno di quei calci che ad auto-protezione ti insegnano per forza. Lui urlò di dolore e, quando si ricompose, mi andò contro e tentò di strangolarmi. Qualcosa, però, lo bloccò, e quel qualcosa era l’unica mano che era stata concessa ad Eels.
Da lì, le mie memorie erano confuse. Forse perché ho voluto forzatamente scordare quella brutta esperienza, forse era stata troppo violenta.. fatto sta che Eels ci rimise quasi la vita, perché quel bulletto aveva a disposizione un coltello.
Mi ricordo le giornate passate in ospedale, pregando il fato di risparmiare il mio unico amico. Il fato esaudì il mio desiderio, ma procurò solo sofferenza alla vittima, perché la sua salute era vacillante di natura e la sfortuna lo aveva destinato a rimanere in quell’ospedale per il resto della sua vita. Non poteva, difatti, allontanarsi dal territorio, perché il suo corpo cominciò a richiedere più cure, più attenzione, perché rischiava di crollare, di cedere. La perdita di sangue aveva causato problemi al cuore, che era nato anche pigro, portando Eels a dover superare sedici operazioni al cuore, una più difficile dell’altra.
 
Passarono tre anni. Eels non la smetteva di urlare dalla rabbia contro il fato e contro le infermiere, piangeva sempre più spesso, e la sua sensibilità gli peggiorò il soggiorno eterno in quell’ospedale. Da lì in avanti non riuscii a vederlo spesso, per via delle dure regole dell’orfanotrofio. Dovettero passare, appunto, quei tre anni, prima che io potessi vederlo più spesso del normale. In quell’arco di tempo mi era capitato di vederlo sono per cinque volte. Ogni volta era peggiore dell’altra.
L’ultima volta che lo vidi fu quando mi chiese di togliergli la vita.
Era il giorno del mio compleanno. Avevo, ormai, diciotto anni, e lui venti. La mia visita fu lunga, perché parlammo per tutto il tempo che mi fu concesso dagli orari di visite. Vedermi, mi disse, era stata la cosa più bella che gli fosse capitata in tutta la sua vita. La nostra amicizia era diventata, ormai, amore, e lo sapevamo entrambi.
Ridemmo, piangemmo e leggemmo insieme tutto il tempo. Nonostante lui era diventato più magro e pallido di quanto lo fosse stato prima, lo trattai come se lui stesse ancora sicuramente meglio quanto prima.
«Ti.. ricordi.. quando parlai della pecora?»
Era un argomento vecchio anni, ormai, ma era stato così particolare che mi era rimasto in mente. Annuii, lievemente.
«Il salto.. un cambiamento nella vita della pecora, il solo, ho appena scoperto che.. è stato prezioso.» Tossì un po’. «Nella sua monotona e triste vita di.. pecora da abbattimento.. ha fatto un salto, un salto di qualità, ed è tornata con il bel ricordo e la conseguenza della sua azione. Non siamo poi tanto diversi.. il salto sei stata tu, Fiocco. Io.. penso che mi sarei suicidato da adolescente se non ti avessi mai incontrata. Pensavo che sarei stato l’unico.. il solo a non sapere come si ci sentiva ad essere amati. Non.. non ero nella ragione. Avevo torto.»
Delle lacrime cominciarono a scendere sopra le sue guance. «Morirò, Fiocco. Morirò in ogni caso, e non voglio soffrire oltre. Voglio che sia tu a staccare la spina.»
Stavolta le lacrime scesero sopra le mie. «Non farmi fare questo, ti prego..»
«Fiocco» Tagliò corto, singhiozzando. «Ho bisogno di dormire.»
 

  
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