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Autore: adrasteia    01/07/2014    1 recensioni
Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s'anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.
Giacomo Leopardi.
[Prima classificata al contest “cosa mi pare, come vi pare” indetto da Nerina ]
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: L'Ottocento
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quando beltà splendea

negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi.

 

Recanati, 29 Novembre 1805

Piove. Quell'inverno, benché non fosse ancora giunto, si profilava come il più piovoso che la piccolina avesse mai visto. E si stupiva. Guardava le gocce fitte d'acqua che cadevano dal cielo e si domandava da dove potessero venire. È forse Dio che piange? Una goccia dietro l'altra, tante piccole gocce che insieme stavano facendo un acquazzone. Il buon odore dell'acqua piovana la inebriava. Qualsiasi altro individuo non avrebbe percepito altro se non il fetore di quelle stalle, la puzza dello sterco e dei cavalli sudati dopo la caccia di quella mattina. Ma lei non lo avvertiva più, lei che in quell'ambiente ci era cresciuta, sempre un po' diversa da ogni altra bambina. Ebbe l'insano desiderio di correre sotto la pioggia con il visino in aria, sentire quelle gocce che le rigavano il viso come succedeva con le lacrime quando piangeva. Sorrise e fece un passo avanti. Il vestitino lungo fino alle caviglie era comunque sporco sull'orlo per buone cinque dita di fango, le scarpette di tela scura e resistente le lasciavano i piedi freddi e bagnati, i capelli castani, sciolti sulle spalle, le conferivano l'aria di una piccola pastorella da presepe. Il padre la prese per il braccio stringendola forse un po' più forte del necessario e la guardò con aria di rimprovero.

«Vuoi forse buscarti un'altra brutta febbre?» le domandò l'uomo trascinandola di nuovo all'asciutto della stalla, nella zona più interna, lì dove teneva il suo cantuccio. «Iddio non sarà sempre così generoso con te.» l'apostrofò per provocare in lei quel normale terrore reverenziale che ci si aspetterebbe dinnanzi alla promessa della morte, quella reazione che ogni bambino avrebbe sentendosi apostrofare tanto duramente.

La piccola non rispose, ma non perché avesse paura o perché si sentisse in colpa nell'aver provocato la rabbia del genitore, semplicemente non voleva ricevere un doloroso schiaffo sul viso per avere offeso un Dio che per il padre era grande e cattivo mentre per lei, piccola e ingenua, era un padre più buono e più giusto di quello che la sorte le aveva assegnato. Non l'avrebbe mai lasciata morire, quel Padre. Lei abbassò semplicemente lo sguardo ed incrociò le mani dietro la schiena come faceva ogni volta che doveva far penitenza per una marachella.

«Va' dentro adesso!» le ordinò il padre con forza indicandole la porta che l'avrebbe portata in uno degli atri del palazzo signorile. «Agnese sarà così gentile da tenerti nelle cucine fino a quando non avrò finito di pulire tutto.» concluse mentre la piccola si allontanava.

Salì gli scalini che le avrebbero permesso l'accesso alla casa, alla parte riservata alla servitù, lì dove passava parte del suo tempo da quando la madre era morta. Il padre, preoccupato per il comportamento vivace della figlia, aveva preferito chiedere aiuto ad una serva di casa piuttosto che l'asciarla sola con il rischio che facesse qualcosa che l'avrebbe fatta ammalare o che avrebbe distrutto le poche cose che possedevano.

«Mi raccomando, non dar fastidio alla signora contessa.» le raccomandò il padre un attimo prima che la porta della stalla si chiudesse alle sue spalle. Il cortile era aperto e una piccola vasca al centro raccoglieva l'acqua piovana. Tutto era in pietra grigia dando un'aria dimessa e triste in quel pomeriggio uggioso di Novembre. Evitò di provocare la rabbia di Agnese attraversando il cortile dal suo centro, sotto la pioggia scrosciante, inzuppandosi totalmente. Sapeva che lei non si sarebbe preoccupata per la sua salute quanto, più che altro, per la possibilità che i bei pavimenti di marmo che aveva appena terminato di lucidare si sporcassero per colpa di quell'impertinente ragazzina che l'avrebbe messa nei guai con la sua signora.

Entrò nel ballatoio del palazzo e sollevò appena il visino verso il cielo scuro di nubi minacciose. Non vide nulla se non il grigiore dei muri e delle nuvole. Tutto taceva, anche la fontana al centro del cortile era stata spenta. Tutte le finestre erano chiuse. La casa sembrava essere morta. Cominciò a canticchiare una canzoncina tra sé, una canzoncina tetra sussurrata con un filo della sua voce acuta e fanciullesca che l'accompagnò fino al cortile interno dove si apriva la prima porta, in legno chiaro, che l'avrebbe portata nelle cucine e negli appartamenti della servitù.

I suoi passi risuonavano, regolari, sul pavimento di marmo e le rendevano quel momento assolutamente surreale. Nella sua mente di bambina tutto aveva un alone di magia e di mistero in quella casa, come un castello principesco fuori dal tempo e dallo spazio: un luogo incantato che nascondeva mille segreti, mille avventure, amori, draghi e principesse. Come nelle storie che i cantori di strada narravano nelle piazze con l'accompagnamento dei loro splendidi strumenti e con le loro incantevoli voci che erano sempre state capaci di catalizzare l'attenzione della piccola.

 

Storie che Giacomo aveva potuto leggere solo nei suoi libri, nei libri di suo padre. Vecchi manuali dalle copertine antiche, dalle pagine miniate, volumi di straordinario valore non solo economico. Lui non l'avrebbe potuto capire quel tipo di valore, non ancora almeno. Per adesso, tutto ciò che attirava la sua attenzione, erano le parole che scorrevano sotto il suo sguardo attento, una dopo l'altra, su quella pagina leggermente ingiallita che lo aveva portato lontanissimo da quella biblioteca. Sedeva come sempre sulla poltroncina in legno d'acero scuro, gli occhi fissi sulle pagine incurante della pioggia che scorreva copiosamente sulla finestra di vetro da cui entrava una luce insufficiente per i suoi occhi che tuttavia, essendo ancora giovani, sembravano non avere alcun bisogno di luce. Avrebbe potuto leggere anche nel buio più profondo pur di non abbandonare al suo destino il valoroso eroe di quelle pagine. Stava leggermente incurvato sulla schiena come per avvicinarsi un po' di più alle parole, come per entrare dentro quelle pagine. Si teneva la testa con una mano lasciando che le dita si perdessero dentro i riccioli castani dei suoi capelli e gli occhi chiari non sembravano accorgersi del mondo intorno a lui. Le campane della Chiesa, nella pizza su cui affacciava il palazzo, avevano già suonato l'ottava ora ed era il momento di lasciar perdere quei sollazzi per dedicarsi allo studio con il maestro. Lo aspettava una seria giornata di lezione e il piacere della lettura lo avrebbe dovuto rimandare ad un più consono momento. La porta della grande biblioteca si aprì con un rumore lieve che non disturbò il fanciullo. Un suon di passi accompagnava l'ingresso di un nuovo personaggio nella relativa tranquillità di quell'uggiosa mattina di autunno. Dall'altra parte del tavolo prese posto suo fratello. Un solo anno divideva quei due fanciulli, solo nove mesi dalla nascita di Giacomo a quella di Carlo. Eppure erano estremamente diversi. Carlo non provava alcun piacere nei libri e nello studio, Carlo non voleva viver la sua vita all'interno di quell'angusta e spoglia biblioteca, non voleva che il suo unico divertimento e il suo unico amore fossero dei libri freddi e privi di vita. Lui sognava la leggenda. Sognava draghi, cavalieri, dame e principesse; sognava maghi, indovini e prestigiatori, re, santi e luoghi meravigliosi. Luoghi che poteva solo sognare, perché solo immaginare era concesso in quel palazzo che non nascondeva alcuna magia. Lui aveva notato la pioggia, l'aveva sentita scendere già dalle prime gocce quel mattino e ogni singola goccia gli aveva stretto il cuore di tristezza. Non avrebbe potuto giocare quel giorno, non avrebbe potuto correre per i giardini nascondendosi da Agnese e dal suo maestro per il puro gusto di sovvertire le regole, di farsi sgridare. Prese un respiro profondo e concentrò la sua attenzione sui capelli castani del fratello, il suo stesso castano. Se Giacomo avesse alzato lo sguardo su di lui avrebbe visto nel viso tondo di quel bambino di otto anni[1] il suo stesso sguardo replicato su un volto quasi identico. Ma Giacomo non sembrava affatto interessato alla sua presenza. Non si erano scambiati neanche un saluto ancora e la cosa non sarebbe cambiata fin quando qualcuno non l'avesse costretto a posar quel libro. Carlo si alzò dalla sua sedia e vagò come una povera anima senza pace per la stanza prima di poggiarsi alla balaustra della finestra, la fronte al vetro freddo, disegnando dei ghirigori con la punta delle dita sulla condensa provocata dal calore del suo fiato. Fu in quel momento che vide passare la giovane figlia dello stalliere. Camminava goffamente sotto il ballatoio diretta probabilmente nelle cucine. Si era fermata un attimo a rimirare il cortile come se stesse decidendo se fosse meglio camminare sotto la pioggia o se fosse preferibile prendere la strada più asciutta. Alla fine il buon senso vinse su di lei, o forse il timore di essere rimproverata. L'avrebbe divertito prendersi beffa di lei se l'avesse avuta davanti. L'avrebbe schernita chiamandola fifona e ridendo di lei per un po'. Non conosceva il suo nome, non conosceva neanche lei se non per averla spesso vista dalle finestre della sua casa in compagnia del padre. Non aveva mai parlato con nessun servitore se non con Agnese che era anche stata la sua balia e quella di Giacomo quando erano ancora infanti. Fu in quel momento tuttavia che ebbe una strana e malsana idea: dato che non gli era possibile andare fuori a divertirsi si sarebbe divertito dentro casa. C'erano così tanti motivi per cui farsi rimproverare!

Si allontanò dalla finestra e si diresse nuovamente verso la porta pronto a fuggire prima che arrivasse il suo maestro e gli imponesse di star seduto, di leggere e di studiare attentamente e rigorosamente come faceva suo fratello.

«Dovresti prender d'ispirazione tali modelli di virtù, piccolo monello.» gli ripeteva troppo frequentemente don Giuseppe Torres, lodando fino al fastidio il fratello maggiore.

«Dove stai andando, Carlo?» quella voce squillante lo interruppe dai suoi propositi. Il fratello lo stava guardando con i suoi vispi occhi color delle foglie primaverili. Un rimprovero gli illuminava il viso con una chiarezza tanto disarmante che Carlo ne fu quasi entusiasta.

«Ad accogliere la nostra ospite.» rispose il bambino come se quella fosse un'ovvietà a cui era strano che il piccolo bambino prodigio non arrivasse da solo.

«Non abbiamo ospiti.» rispose infatti quello piccato come se gli fosse appena stata detta una parola offensiva o ingiuriosa.

«Vieni con me e vedrai.»

Carlo aprì la porta stando ben attento ad evitare cigolii che potessero attirare l'attenzione, si sporse appena e poi uscì fuori diretto alle scale dell'ala est, quelli che l'avrebbero condotto lì dove sapeva di trovare la fanciulletta che aveva visto fuori dalla finestra. Giacomo lo seguiva svogliatamente e per il solo motivo che sapeva che gli sarebbero stati rivolti duri rimproveri se non si fosse presentato anche il fratello a lezione.

«Non siete abbastanza responsabile per tener sotto controllo il vostro stesso germano, Giacomo? Come credete di poter salvaguardare tutto il contado quando sarete diventato adulto?»

Quelle parole lo avevano profondamente ferito già una volta, quando il fratello era rimasto in giardino a giocare piuttosto che recarsi in biblioteca. Lui non voleva dover subire di nuovo una simile umiliazione. Avrebbe trovato un buon motivo per giustificare il loro ritardo qualora don Torres fosse arrivato prima di loro. Scesero al piano terreno con una fretta che il ragazzino non capiva. Il fratello, davanti a lui, sembrava già che ridesse della sua marachella.

«Se tutto ciò dovesse rivelarsi uno scherzo mi arrabbierò moltissimo, Carlo!» lo informò Giacomo assumendo una posizione eretta che cominciava a venirgli innaturale a causa delle molte ore di studio cui si sottoponeva.

Carlo non proferì parola ma la risposta arrivò prima che questo potesse solo formulare la giusta sentenza alla rabbia del fratello.

«Siete sempre sudicia! Sareste una vergogna per vostra madre, pace all'anima sua!» Agnese stava gridando come mai i due giovani avevano sentito gridare. La vittima di quella rabbia era una bambina che Giacomo non riconobbe e che stava in piedi, davanti alla donna, con lo sguardo fiero, la schiena dritta e le manine poggiate sulla gonna di pesante stoffa marrone. Uno scialle, che forse un tempo era stato beige, le copriva le spalle e la camicia pesante che non era più bianca. I capelli castani le ricadevano sciolti lungo le spalle e il maggiore dei fratelli Leopardi si ritrovò a scostare lo sguardo imbarazzato. Aveva letto, nei suoi libri, che i capelli lunghi, sciolti sulle spalle, erano un gesto di estrema seduzione. E immaginò se stesso come i suoi eroi a passar le mani tra i bei capelli della ragazza. E la immaginò protagonista del L'Estoire de Monseigneur Tristan, la immaginò Ginevra tra le braccia di Lancillotto, Francesca con il suo Paolo. Carlo, per conto suo, sorrideva.

«Agnese.» la salutò con una nota di rimprovero nella giovane voce. La donna si voltò subito verso il ragazzino e piegò il capo in segno di ossequioso saluto.

«Vostre Eccellenze.» salutò entrambi con estrema cortesia.

La piccola si voltò verso di loro a sua volta e li guardò. Il suo viso mostrò l'emozione di conoscere i figli del conte per la prima volta: gli occhi leggermente sgranati, la bocca dischiusa in un'espressione di meraviglia. E per Giacomo guardarla in viso fu la conferma della bellezza di quell'angelica visione. Lei non salutò, rimase semplicemente ferma a guardarli, e questo fece indispettire terribilmente Carlo.

«Salve anche a voi, signorina.» fu lui a rivolgerle la parola per primo. Ruppe il momento di Giacomo distruggendo quel suo silenzio contemplativo del viso dai morbidi lineamenti della fanciulla.

«Oh...» sussurrò semplicemente lei tornando alla realtà da quel mondo in cui sembrava essere stata travolta e incatenata. «Ciao.» salutò così come era stata abituata a fare con i suoi coetanei. C'erano molti ragazzi della sua età a Recanati, tutti la conoscevano e spesso si ritrovava a giocare con loro durante la festa della Pasqua o del Santo.

Agnese la trascinò per un braccio e la fulminò con lo sguardo come se avesse voluto picchiarla.

«Come osi, villana, rivolgerti così ai figli del conte?» le domandò con un astio che fece aggrottare la fronte a Carlo e stringere il cuore di Giacomo. «Sii rispettosa!» la spinse in avanti con cattiveria tanto che arrivò tra le braccia di Carlo quasi senza volerlo.

Si guardarono entrambi negli occhi. Lei dovette sollevare appena il viso per essere all'altezza di quello del ragazzo benché egli fosse un anno più giovane. Arrossì vistosamente e Carlo sorrise. «Come vi chiamate, signorina?» domandò come se non fosse successo nulla. Fino ad un attimo prima era sua intenzione prenderla in giro ma adesso, vedendo il modo in cui veniva trattata da Agnese, aveva cambiato idea. Era una bambina fiera e combattiva, ne era certo. Se non lo fosse stata a quel punto avrebbe già cominciato a piangere.

«Teresa.» rispose infatti senza che nella sua voce ci fosse alcuna traccia di esitazione.

«Io sono Carlo.» si presentò il ragazzo a sua volta mentre Teresa si allontanava dal suo petto e ritornava dritta dinnanzi a lui. Si passò una mano tra i capelli lunghi e entrambi i ragazzi ne sentirono il profumo. «Vuoi giocare con me?» chiese improvvisamente Carlo come se fosse stato colto improvvisamente dall'idea di sostituire il bel tempo con un compagno di giochi che gli rendesse meno insopportabile la permanenza in casa quel giorno. La piccola sgranò gli occhi e strinse le mani al petto. Giocare in quell'enorme palazzo era sempre stato il suo sogno da quando aveva memoria e nulla l'avrebbe fatta desistere da quel desiderio.

«Sì.» rispose prontamente.

Agnese, per un attimo, avvertì il terrore di essere accusata per l'assenza dei ragazzi dalla loro regolare lezione con il precettore gesuita che sicuramente li stava già aspettando nella grande biblioteca del loro genitore. Si schiarì la voce e, presa dal panico, parlò in modo concitato. «Sua Eccellenza dovrebbe essere a lezione adesso, insieme a suo fratello. Non qui a giocare con questa selvaggia.» lo sguardo con cui entrambi i fratelli Leopardi la fulminarono la convinse a tacere semplicemente e ad abbassare gli occhi.

«Devo ovviare alla scortesia con cui i nostri ospiti vengono trattati dalla servitù.» rispose Carlo con la voce impostata che voleva imitare quella del padre. Teresa lo stava guardando sottecchi dimentica ormai di qualcosa che andasse al di là del giovane Leopardi. Lui le porse la mano e lei l'afferrò come se fosse una damina e non una ragazza di strada, lui la condusse fuori da quegli appartamenti e la guidò fino alle scale che salivano al piano superiore in cui a lei non era mai stato dato il permesso di andare.

«Come vuoi giocare?» le domandò Carlo mentre Giacomo, lentamente, li seguiva stando appena un paio di passi dietro di loro. Non poteva credere che stesse effettivamente saltando le lezioni ma non poteva evitare di non guardare quella fanciulla e di non voler stare con lei ogni minuto che gli fosse stato concesso. Anche con suo fratello presente.

Teresa era sempre più felice. Aveva lasciato la mano di Carlo e adesso stava tenendo un po' sollevata la gonna per salire le scale senza inciampare pensando ai milioni di modi in cui desiderava giocare. Per prima cosa voleva confermare quella storia che aveva sentito la domenica precedente in piazza.

«Cerchiamo il drago!» esclamò colma di gioia, gli occhi luminosi e il sorriso felice.

Carlo scoppiò a ridere e scosse la testa. Le idee ridicole di quella piccola ignorante non potevano tenerlo indifferente e, nonostante sapesse che fosse maleducato, non poté fare a meno di ridere di lei.

«Non c'è un drago qui.» le rispose scuotendo la testa. Teresa ne rimase per un attimo tanto delusa da far morire il riso sulle labbra di Carlo che fu quasi tentato di rimangiarsi ciò che aveva detto e accompagnare la sua nuova amica alla ricerca di quel mostro.

«E un cavaliere?» chiese con la voce tremante per la delusione. Lei si era fermata sulle scale e Carlo l'aveva superata di un paio di gradini mentre Giacomo le stava adesso al fianco. A quelle parole fu lui a rispondergli: «Nemmeno.» fu tutto ciò che poté dire.

Carlo si voltò e prima che le lacrime potessero uscire dagli occhi di Teresa trovò una risposta che potesse farle tornare la gioia e l'entusiasmo perduti. Temeva quasi che potesse decidere di andarsene, di lasciarlo di nuovo solo con il fratello e il suo precettore.

«Ci sono io.» rispose con un sorriso compiaciuto in viso atteggiandosi a giovane cavaliere.

«Tu sei un cavaliere?» domandò di nuovo Teresa parecchio insicura che ciò che lui le stesse dicendo fosse vero ma più rincuorata nel profondo dell'animo.

Carlo scese i due scalini che li dividevano e le si posizionò accanto, al fianco opposto rispetto a Giacomo, le prese la mano e le baciò il dorso.

«Certo che lo sono.»

Carlo aveva assunto un atteggiamento di fierezza e regalità che mai Teresa aveva visto in precedenza in qualcun altro.

«Allora io sono una principessa.» Teresa sorrideva, di un sorriso tanto bello che il cuore di Giacomo si strinse e pensò che nulla più al mondo avrebbe potuto fargli sembrare la vita un luogo di gioie dolorose.

«Giacomo farà il mago cattivo che ti tiene prigioniera.»

Carlo non riusciva a smettere di sorridere, Teresa lo seguiva nel suo entusiasmo e correva con lui per i corridoi. Giacomo li seguì con calma ed il cuore pieno di speranze seguendoli in un gioco nel quale la sua principessa gli veniva strappata via dalle mani.

 

Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.

Recanati, 29 Maggio 1813

Teresa era in casa, come ogni giorno degli ultimi otto anni. Non aveva più abbandonato palazzo Leopardi, la sua era una presenza costante eppure silenziosa. I loro genitori non sapevano della sua presenza, non sapevano che Carlo passava con lei la maggior parte del suo tempo ferendo l'animo di Giacomo che in cuor suo non aveva mai smesso di amare quell'angelo bruno che era entrato nella sua vita quando aveva solo otto anni. E lo ferivano i sorrisi, gli sguardi, i tocchi del fratello su un corpo che egli considerava il suo reliquiario, il suo tesoro più prezioso. Lei la sua santa. Una santa che aveva il Diavolo in corpo. Lei e Carlo litigavano, sempre. Lei era tirannica, dura di carattere con il fratello così come era dolce con la sorella più piccola che adesso aveva solo nove anni ma che adorava la giovane villana come fosse anche lei una sua consanguinea.

Non ti accorgi, Diavolo, che sei bella come un angelo?” l'aveva scritto un pomeriggio, sentendo Carlo e Teresa ridere, l'aveva scritto perché era il suo cuore ad essere dilaniato da una felicità cui non poteva prender parte.

Paolina Leopardi era cresciuta stretta tra le braccia di Teresa che giocava a fare la sua mamma, era cresciuta con Carlo che fingeva di essere padre e marito affettuoso. Era stata il loro gioco, la loro bambola. Il mondo di Carlo e Teresa si chiudeva alle loro spalle e tutto ciò che vi entrava non si insinuava mai così infondo da poter intaccare la loro sfera di privatezza. E Giacomo ne soffriva. Lui che era stato allontanato da questa amicizia, da questo amore giovanile che nulla aveva a che fare con la profondità dei suoi sentimenti. Lui che non l'amava soltanto quella fanciulla. Lui l'adorava, la venerava, l'amava con una tale intensità che se solo lei l'avesse conosciuta non avrebbe potuto fare altro che ricambiarlo. Perché Teresa era spinta alla passione. Una passione divorante che le scavava il petto e l'anima stessa, una passione bruciante che la vincolava al fianco di chi l'amava.

Quante volte Giacomo aveva sofferto da lontano per le sue malattie provocate dal freddo che prendeva, dalla pioggia cui si esponeva. E ogni malattia poteva portarla alla morte molto più di quanto non potesse fare con il giovane Carlo al quale venivano poi riservate cure e attenzioni che la giovane serva non poteva permettersi. Ma Giacomo pregava per lei, ogni giorno, ogni istante della sua giornata. Pregava il Signore perché salvasse il suo angelo bruno, perché non rendesse insopportabile la sua vita su quella terra portandogli via la sua unica gioia. E ogni volta Teresa guariva. Le guance tornavano a colorarsi di rosso, gli occhi a farsi vispi e attenti e il sorriso a illuminarle il viso anche quando si arrabbiava e gridava contro un piccolo conte.

«Non parlerò oltre con te, Carlo!» i passi della giovane Teresa correvano giù per le scale che l'avevano portata in soffitta, lì dove i tre fratelli Leopardi e la loro amica erano soliti rifugiarsi per giocare. Quel giorno Carlo e Teresa erano soli, si erano chiusi di nuovo nella loro bolla privata e Giacomo ignorava il motivo di quel nuovo e rinnovato litigio.

Carlo le stava dietro, come un fedele servitore, come un amante dietro l'amata. Non aveva nessuna importanza che fosse lei quella che occupava un ruolo più basso nella società, non importava che fosse lui il figlio di sua eccellenza il conte di Leopardi.

«Non puoi ignorarmi, non osare.» rispose lui con tutta l'autorità di cui disponeva. Era un ragazzo divenuto altezzoso il quindicenne Carlo. Aveva una forza di volontà e una sagacia che mancavano totalmente al fratello maggiore. «Tu non sai chi sono io?» le domandò continuando a trovarsi un passo dietro di lei. Quelle parole rendevano ancora più singolare quella visione.

«Non voglio parlare con te e non ci parlerò e non sarai in grado di farmi cambiare idea.» e quando Teresa voleva, poteva davvero essere irremovibile. Giacomo lo sapeva e lo sapeva anche Carlo che non demordeva dalla propria intenzione di dimostrarsi superiore.

«Adesso stai parlando con me però.» la beffeggiò con una nota di dolente ironia nella voce che fece bloccare la giovane. Si voltò verso il suo compagno e lo fulminò con quel suo sguardo che tante volte aveva perseguitato i sogni del maggiore dei due fratelli.

«Smettila!» gridò esasperata ignorando la possibilità di esser cacciata fuori.

Giacomo non voleva vederla arrabbiata. Si era da poco ripresa da una brutta febbre che l'aveva tenuta lontana per intere settimane dal palazzo. Settimane di angoscia per il giovane che aveva temuto di perdere per sempre quella grazia celeste. Si fece avanti con un certo timore palesando la sua presenza schiarendosi la voce. Aveva assunto una posizione il più eretta possibile nonostante la schiena gli facesse male. Era cresciuto come un alberello che piegato al suolo, una volta diventato adulto, non può più risollevare al cielo i suoi rami. Provava un'estrema vergogna per questo terribile avvenimento e cercava in ogni modo di nascondere la sua deformità.

«Buongiorno Teresa.» la salutò con estrema gentilezza, guardando il viso chiaro della ragazza che indossava un abito più dignitoso di quello che aveva il giorno del loro primo incontro. La gonna marrone, che al tempo arrivava poco al di sotto del ginocchio, era stata sostituita da un abito lungo fino a coprirle delle scarpe che tuttavia immaginava sporche e leggermente logore, lo scialle sulle sue spalle lo aveva cucito da sola e lo si poteva vedere dalla fierezza con cui lo indossava, come fosse un oggetto di straordinario valore.

«Buongiorno Giacomo.» la voce di Teresa tornò a farsi leggera e gaia nel salutare il ragazzo che si era appena presentato alla sua vista con quel suo portamento fiero e quel suo incedere elegante seppur insicuro e zoppo.

«Cosa succede?» domandò Giacomo rivolto ad entrambi e dando prova di aver almeno sentito, se non visto, quella scena di patetismo vagamente lirico che gli aveva stretto il cuore. Carlo si ritrovò ad arrossire di rabbia per la debolezza mostrata e ad incrociare le braccia al petto in una posizione di difesa e di allontanamento.

«Vostro fratello mi tedia.» rispose prontamente Teresa senza badare alla reazione del giovane che, a quelle parole, si voltò di scatto verso di lei fulminandola con gli occhi carichi di malcelato risentimento.

«Perdonatelo, sicuramente non è sua intenzione.» cercò di dire Giacomo prima che fosse Carlo a sbottare in un'affermazione astiosa.

«Io ti tedio, Teresa?» domandò senza badare al fratello maggiore.

Ma Teresa, almeno per quel giorno, sembrava non essere interessata ad ascoltare oltre. Per quel giorno la loro bolla era scoppiata lasciando il permesso a Giacomo di entrarvi.

«Ti ho detto di smetterla, subito!»

Anche quando era arrabbiata lei era bella. Di una bellezza che lui non avrebbe saputo descrivere e che lo conquistava con un trasporto tale da togliergli il fiato.

«Teresa!» una voce infantile attirò l'attenzione del gruppetto e la ragazza si voltò per prima verso quella nuova comparsa.

«Paolina.» la salutò attendendo di essere abbracciata. Adesso che la sua solita compagnia di amici era creata sapeva che avrebbero potuto cominciare a giocare e lei non aspettava altro.

«Giochiamo. Facciamo un bel matrimonio!» propose con un sorriso la piccola di casa Leopardi.

Pochi giorni prima si era svolto un matrimonio nella chiesa della piazza antistante il palazzo e Paolina era rimasta alla finestra a guardare la bella sposa dall'abito bianco immaginando non se stessa ma proprio l'amica, al braccio di uno dei suoi fratelli, pronta ad attraversare la navata nella sua nuova dignità di contessa. E anche Teresa l'aveva visto e anche lei aveva sperato un giorno di realizzare quel sogno di fanciulla.

«Tu fai il prete Paolina, io faccio la sposa.» le impose immediatamente con espressione di gioia.

«Io non farò lo sposo.» l'avvisò immediatamente Carlo che sperava che l'amica si impuntasse e lo costringesse, voleva solo essere pregato, voleva che lei lo implorasse di sposarla. E l'avrebbe fatto. L'avrebbe anche sposata davvero se lei lo avesse domandato.

«Non avrei voluto che tu lo facessi.» rispose invece lei voltandosi verso il più grande. «Giacomo, sarai tu lo sposo.» non era una richiesta. Non era abituata a chiedere perché ciascuno di quei tre ragazzi era stato stregato da lei, dalla sua bellezza e dalla sua presenza.

«Come desiderate, Teresa.» rispose infatti Giacomo con un cenno del capo che la fece sorridere. Si voltò solo alla fine verso Carlo con uno sguardo di tranquillità e gaiezza che fece stringere le labbra al fanciullo.

«Tu farai il testimone.»

«Io non giocherò con voi.» concluse Carlo che per quel giorno non fece altro che seguire il drappello dei tre nella preparazione del matrimonio. Non aiutò Teresa a raccogliere i fiori e lei domandò a Giacomo quell'aiuto. Lui le rimase accanto con una pazienza ed una diligenza tale da catturare l'attenzione della giovane che mai, prima dall'ora, aveva avuto modo di conoscere quel suo aspetto tanto gioviale. Rideva delle sue parole, le rispondeva con affettuosa sincerità, la riempiva di complimenti. Fu lui a sistemarle i fiori di buganvillea tra i capelli castani raccogliendoli in un'acconciatura tanto semplice ma allo stesso tempo tanto bella, le sistemò il velo che Paolina aveva trovato nelle sue stanze ma dovette ritirarsi quando lei gli ordinò di allontanarsi.

«Non devi vedere il mio abito da sposa.» lo redarguì lei.

E quando si presentò, al braccio di un Don Paolo[2] come sempre impeccabile nei suoi abiti neri, aveva stretto intorno al corpo flessuoso e pieno un lenzuolo bianco fermato con delle spille che la rendevano una sposa così bella da togliergli il fiato. La cappella era stata improvvisata in soffitta. Erano state disposte candele qua e là per illuminare l'ambiente, fiori ad abbellirlo e un crocifisso. Giacomo aveva recuperato un breviario con i riti di nozze e Carlo si era limitato a portare un pezzo di pane, una coppa di vino e due anellini d'oro che Paolina gli aveva ordinato di prendere nelle sue stanze, poi si era seduto in un angolo ed era rimasto silenzioso ed arrabbiato.

Quando Teresa fece il suo ingresso però non aveva occhi che per il suo sposo, il ragazzo che l'attendeva all'altare con un sorriso emozionato sul viso e gli occhi lucidi.

La cerimonia fu celebrata come un rito vero della chiesa cattolica. Nessuno si domandò se fosse giusto o sacrilego compiere quei riti, lo fecero e basta.

«Per il potere conferitomi dalla Sacra Chiesa Cattolica di Roma io dichiaro quest'uomo e questa donna marito e moglie.» la voce solenne e bassa di Paolina risvegliò i due ragazzi, che portavano già all'anulare della mano sinistra una fede d'oro giallo, dal loro sogno. «L'uomo non osi separare ciò che Dio ha unito.»

Il rito era terminato ed entrambi capirono che dinnanzi a quel crocifisso loro avevano davvero legato il loro destino a quello dell'altro. Giacomo si sporse verso di lei e le baciò la guancia, lei non l'allontanò perché sentiva che era suo diritto farlo. Carlo da lontano scattò in piedi, lui che non aveva mai avuto quel permesso si sentiva defraudato di un suo diritto.

Eppure anche lui, molto presto, capì.

 

Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce

 

Recanati, 29 Settembre 1819

Da quel giorno non aveva fatto altro che guardarla da una finestra, lontano dal buon profumo che ricordava avessero i suoi capelli sempre sciolti, dalla morbidezza della sua pelle. Il suo sorriso gli mancava e la lontananza gli spezzava il cuore, lo dilaniava ogni giorno di più.

Ma nulla aveva potuto contro la volontà dei suoi genitori, contro l'insistenza di una società che non poteva accettare quell'amore di ragazzi. Adesso non era più un ragazzo, adesso Giacomo era cresciuto, le sue malattie si erano aggravate ulteriormente, non usciva più da quella biblioteca che era la sua prigione da quando gli avevano portato via sua moglie. E adesso scriveva, scriveva delle nozze di Teresa che avrebbe dovuto sposare un uomo che non era lui quando aveva già contratto matrimonio, aveva dovuto ignorare i suoi voti dinnanzi a Dio, dimenticare le sue labbra che l'avevano baciata, quel pomeriggio stesso, in giardino, protetti da una roccia che era stata il loro rifugio e la loro salvezza.

Teresa era stata allontanata di casa quando Carlo aveva lamentato la presenza della ragazza. Non le era più concesso entrare a palazzo Leopardi e tutto ciò che gli rimaneva di lei era il suo canto, in Maggio, quando seduta sulla soglia di casa filava il suo corredo.

Promessa.

Gli sembrava quasi una bestemmia. Non riusciva a credere che potesse capitare davvero. L'aveva perduta e ciò gli spezzò il cuore.

Non fu l'unico a rimanerne ferito. Al compimento della maggiore età Carlo era partito, era andato via con l'esercito Borbonico abbandonando quella che era stata anche per lui una prigione. Lui aveva perso Teresa già molto tempo prima ma mai si era arreso al desiderio di averla, alla realtà che lei potesse amare un altro e che quell'altro fosse proprio suo fratello Giacomo.

Un'altra volta si era rivelato migliore di lui e altro non gli era rimasto che andare via, scegliere una carriera che lui non avrebbe mai potuto affrontare a causa delle sue deformità.

Paolina non aveva pianto la perdita dell'amica perché non aveva mai imparato a piangere ma solo a soffrire in silenzio delle sue disgrazie.

E Giacomo moriva, anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno.

Finché lei non si ammalò, di nuovo.

Si ammalò in giugno, per motivi che a Giacomo rimasero sconosciuti. Si ammalò di polmonite, poi di tisi. Giacomo pregava per la sua salute, pregava che Dio la salvasse, pregava offrendo vita per vita. La sua per quella della sua amata, del suo angelo.

Non la rivide mai. Non vide la sua salma che nella notte venne sepolta per evitare il contagio.

Si recò alla sua tomba solo l'anno successivo. Una tomba nuda, spoglia, triste. Una tomba priva di fiori, solo un nome e una data. Una tomba che gli strinse il cuore e che lo portò alla disperazione.

Una disperazione che non l'avrebbe abbandonato per il resto della sua esistenza.

 

All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.

 

 

 

[1] in realtà Giacomo Leopardi è nato nel 1798 dunque nella storia dovrebbe avere sette anni. Per motivi di trama tuttavia ho stravolto un po' le date. Non me ne vogliate.

[2]Don Paolo era l'effettivo nomignolo con cui i fratelli Leopardi chiamavano la sorella minore.

  
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