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Autore: ValentinaRenji    03/07/2014    0 recensioni
Il buio è solamente luce capovolta.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2. PAST



Quando ero piccola benedivo ogni giorno il Natale e, di conseguenza, il mio compleanno: il 24 dicembre, la vigilia. Adoravo il tepore della stufa calda dal fuoco sfavillante e scarlatto, amavo la nebbia sottile fra i tralicci spogli delle viti spente fuori dalla finestra del soggiorno dalle mura bianche. Ogni mattino mi svegliavo aprendo con foga i balconi nella speranza di posare le iridi castane su un candido manto di neve posato sulle zolle brulle e scure dei campi dormienti; attendevo la voce di mia madre che con onesta sorpresa e malcelata trepidazione mi annunciasse l’arrivo dei tanto attesi coriandoli vorticosi, con la gioia di poter tornare fra le coperte morbide e scordare la scuola per quella giornata.
Lei, mia madre. La donna più bella del mondo, la più forte, coraggiosa, temeraria creatura che abbia mai conosciuto. Lei, la persona che mi ha cresciuto con amore, supplendo a un duplice ruolo di genitore, colmando un vuoto che nessun altro avrebbe potuto completare.
 
Cosa sono questi ricordi?
 
La vetta della collina montuosa è dolce, i pendii sono morbidi e voluttuosi come i fianchi di un bambino. Il cielo è ancora cupo, denso di pallide nubi minacciose, pesanti, colme di tristezza. Le distese d’alberi scuri si protraggono fino alla base del massiccio, lasciandone scoperta solo la punta arrotondata, l’erba giallastra e bruciata, i tronchi morti, avvizziti, un luogo dove la Morte ha deciso di accamparsi per secoli e secoli ancora, uno stralcio d’inverno, di quell’inverno che porto nel cuore, dove tutt’attorno regna la più fitta e verdeggiante vegetazione.
 
Ho sempre odiato i compleanni.
Ho sempre odiato le torte e i pasticcini, le pizzette portate a scuola, su quei piccoli banchi verdi dalle gambe sbilenche; mi hanno sempre disgustato i sorrisi ridenti dei bambini festeggiati, gli applausi, le canzoncine d’auguri.
“Perché festeggiate? È solo un anno in meno verso il dolore. Il tempo si accorcia e voi presto soffrirete. Perché, perché festeggiate?”
Li guardavo in disparte, coccolando nelle mente questi pensieri, osservandoli seriamente com’era mio solito fare.
Allora la maestra smembrava l’affollato gruppetto danzante attorno alle cibarie, distribuendolo al proprio posto e lasciava distribuire le leccornie dal diretto interessato. Il piccolo allora, colmo d’orgoglio, passava di banco in banco, regalando il proprio bottino. La mia frase era sempre la solita:
“Posso averne un altro per la mia mamma? Quando torno a casa glielo porto.”
Nessuno mi ha mai negato questo favore.
La verità era che non mangiavo mai la mia caramella, né il cioccolatino, né qualsiasi altra cosa. Le riponevo delicatamente nella tasca più protetta dello zaino, assicurandomi d’averle sistemate con la dovuta meticolosità, e poi attendevo intrepida il suono della campanella.
Eccola, finalmente la rivedevo davanti a me, con i suoi capelli rossi e lisci, gli occhi verdi come i prati d’estate:
“Mamma, ho ben due regali per te.”
Le estraevo le caramelle, i miei trofei, cercando di ricambiare come potevo l’affetto che ogni giorno mi donava.
 
Mamma.
 
La creatura nera sussulta, lanciando uno straziante urlo di dolore che nessuno al mondo potrà mai udire. Dall’ammasso oscuro e denso profondi rantolii si espandono nella radura smorta, disperdendosi nell’umida foschia.
Svolazza fra i tronchi cavi, sgretolati dall’usura del tempo, graffiando con le unghie affilate il terreno madido di pioggia, come un animale impazzito, in fuga nel disperato tentativo di salvarsi la vita.
Ma cosa c’è da salvare, in questo caso?
Grida, grida come un vortice di vento, un ululato d’oblio, un abisso di disperazione.
 
Solitudine.
Abbandono.
Follia.
Eternità.
Vuoto.
Disperazione.
 
Come ci si può salvare da tutto questo?
 
“Mamma, devo chiederti una cosa.”
“Cosa, cucciola?”
“Perché non riesco a dire ‘Ti voglio bene’ a papà?”
“Perché ognuno di noi ha il suo modo di volere bene agli altri. Anche se non glielo dici gliene vorrai ora e per sempre e lui lo sa. Non ti preoccupare. Magari ogni tanto puoi provare a dirglielo anche se ti sembra difficile, lo farai felice.”
“Ma lui mi vuole bene? Anche se non mi fa mai le carezze?”
“Ma certo, cucciola.”
“Allora perché ti fa piangere tutte le notti?”
Silenzio.
“Mamma … perché ieri mentre giocavo sotto l’albero di Natale hai lanciato i piatti a papà?”
“Perché … a volte i grandi litigano. Ma si vogliono bene lo stesso.”
“Se si vogliono bene perché litigano tutti i giorni e non sorridono mai?”
 
“Valentina, finalmente …”
“Emeeleb.”
La grande figura color pece si staglia in tutta la sua maestosità di fronte all’esile macchia scura urlante dinnanzi a lui. Sul capo dalla forma indefinita indossa un elmo arrugginito, fra le dita acuminate stringe una spada malconcia, anch’essa in condizioni indescrivibili.
Si allontana svolazzando, sollevato da terra, distanziandosi di qualche metro dalla bestia ferita, dilaniata.
“Passerà.”
La sua voce è profonda, fredda, roca. La voce di un uomo vissuto nel passato più lontano, un guerriero sopravvissuto a se stesso.
La piccola creatura rantolante si dimena come un’ossessa, le manca il respiro, la mente (se così si può definire) è affollata da innumerevoli pensieri, la sua identità è uno sfocato insieme di immagini offuscate, di frasi a metà, di sentimenti pungenti come spine di rovo nel petto. Porta una mano alla testa, accartocciandosi in uno spiazzo d’erba giallastra, sferzata dal vento.
“Passerà, prima o poi passerà. O forse è meglio lasciarti divorare dalla bestia, diventare una folle presenza assetata di morte che s’aggira senza sosta alla ricerca di un indefinito dolore simile al proprio. Un mostro senza facoltà di pensiero, senza volontà. Un agglomerato d’istinto … nulla di più. La consapevolezza è un coltello che uccide lentamente. Il destino è la solitudine eterna, uno sconfinato dolore.”
Sembra sospirare, aumentando la presa sull’arma opaca:
“Ti ricordi cosa mi hai detto una volta, quando ancora eri viva?”
 
Sì me lo ricordo. Avevo detto:
“Emeeleb, è buffo vero? Passare l’intera vita a sperare nel paradiso, in un aldilà migliore di quanto non sia il presente. E invece ci ritroveremo tutti a vagare per sempre, guardando chi amiamo morire sotto ai nostri occhi, assaggiando ogni giorno il male di vivere e l’oblio di perire, come una droga letale, dose dopo dose.
Ahahah non è forse uno scherzo terribile? Chi ci ha creato deve odiarci davvero tantissimo. Non la pensi anche tu così, Emeeleb?”
Lui aveva annuito, stringendosi fra le “braccia” fluttuanti. Non posso assicurarlo, ma avevo l’impressione di aver scorto una lacrima sul suo viso mostruoso.
Una lacrima?
Non basta soffrire quando si è vivi?
Chi l’avrebbe mai detto che ci saremmo incontrati così presto?
 
Due occhi chiari, lunghi capelli biondi, il suo profumo. Quelle braccia magre che mi stringevano, esili ma da un calore amorevole ed avvolgente, una cassaforte attorno a me.
Eravamo ragazzi, eravamo solamente due ragazzi che avevano capito di non aspettarsi un gran che dalla vita ma che in fondo ci speravano lo stesso.
“Quando vivremo insieme sarà divertente vederti tornare a casa da lavoro tutto imbronciato!”
Glielo ripetevo spesso, ridendo, premendo l’indice contro la punta del suo naso leggermente a patata.
“E tu invece? Tornerai felice?”
“Ma certo! Perché a casa ci sarai tu ad aspettarmi!”
“Chissà se mai lo troverò un lavoro …”
“Cosa importa, se guadagnerò abbastanza non mi importa di mantenere anche te. Basta che continui a volermi bene! E che pulisci e cucini! È per questo che studio all’università … per crearmi un futuro con te.”
Lui sospirava, passandosi le dita magre sul mento liscio, pensieroso. Poi mi tirava a sé, guardandomi dall’alto della sua statura, con quelle perle lucide:
“Fammi vedere come sei brava.”
Lo diceva sorridendo, attendendo un bacio. Allora mi mettevo in punta di piedi, stampandogliene uno sulla guancia, attendendo il suo.
Gli stringevo la mano e insieme iniziavamo a passeggiare per il centro della città, talvolta mangiando un gelato, talvolta stringendoci nei cappotti pesanti.
Ci fermavamo davanti alle vetrine delle agenzie immobiliari, indicando questa o quella abitazione, studiandone i dettagli e i prezzi, fantasticando insieme di anno in anno. E il tempo scorreva, noi crescevamo ma, cosa più importante, continuavamo ad amarci.
 
“E’ triste sapere che non potremo stare insieme per sempre.”
Lui mi ha guardato comprensivo, tradendo il volto inespressivo con una smorfia sgomenta.
“Forse nemmeno ci riconosceremo più. Dobbiamo essere felici ora finchè possiamo. Non importa se materialmente non abbiamo nulla, a me basta anche solo rimanere qualche ora con te e tornare a casa felice.”
“Ah Valentina … chissà. Meno male che ci sei tu.”
D’altronde è così: se due torri crollano l’una addosso all’altra non possono fare altro che sostenersi a vicenda.
Solo chi ha patito e pianto sangue durante la sua esistenza può comprendere un’anima simile alla propria. Chi ha trascorso anni sereni cullato il petali profumati annuirà, fingendo di capire, di capire davvero! E poi si volterà dall’altra parte, rammaricandosi della propria unghia spezzata, maledicendo la vita di essere così spietata e crudele! Perché diamine, un’unghia rotta è qualcosa di fondamentale. Se poi era addirittura smaltata è una tragedia.
E tu invece li scruti in disparte, sottecchi, tamponando le ferite del cuore ridotto in frantumi, sbriciolato, inesistente. Lasciandoti invadere dal gelo per difenderti da ulteriore sofferenza. Domandandoti cos’hai fatto di male per farti scegliere dalla devastazione, chiedendoti per quale motivo sei stata scelta.
Eppure non ti importa, non ti interessa la commiserazione degli altri, la loro pietà. Sorridi, decidendo di rimanere per chi ami, perché loro non possono stare senza di te.
Ma il destino è crudele, appena scopre ciò che realmente desideri te ne priva.
Ed io ora il mio corpo marcisce in una tomba fredda e spoglia, una lapide uguale a molte altre, dalle incisioni semplici, una foto sbiadita. E chi c’è ancora piange ogni notte, straziandomi il cuore.
 
Lei vorrebbe proteggerli, salvarli dalla sadica tortura dell’esistenza, cullarli in una nenia dolce prima d’addormentarsi. Vorrebbe abbracciarli, dire che è ancora qui anche se non possono vederla, qui solo per loro.
Ed invece vaga dispersa, senza alcun riferimento, senza residui di umanità.
 
 
30 Agosto, Dieci anni.
“Caro Diario,
sono triste perché la scuola inizia il 15 settembre, quindi fra pochi giorni.
Il vero motivo è che mamma e papà hanno litigato di brutto per questioni di soldi e penso che non si parleranno più, ora ti spiego meglio.
A luglio papà è andato in banca e si è fatto un libretto a nome suo e ha depositato 700 euro, cioè i soldi di mamma. Però lo ha intestato a se stesso e non a mamma con la scusa che tanto lei in banca non ci va mai.
In realtà ogni tanto andava a prelevare i soldi senza dirci niente e ora sono rimasti 80 euro e non ha restituito nulla. Mamma ha scoperto tutto questa notte, altrimenti non lo saprebbe ancora.
Papà è pieno di multe non pagate ancora da anni. Ho sentito mamma parlare di ipoteca ipiteca ipo qualcosa sulla nostra casa ma non so cosa vuol dire. Gliel’ho chiesto ma si è messa a piangere, dicendo solo che papà ha troppi debiti e che lei li ha scoperti solo adesso.
Dice che papà nasconde le carte e le bollette ma non capisco perché.
Lui pensa che noi non sappiamo, poi nasconde i soldi per paura che li rubiamo e poi anche se ha un misero stipendio va in montagna da solo e spende 100 euro solo in benzina invece che usarli per comprarmi i libri per le medie o per la casa nuova dove andremo ad abitare. Mamma ha finito le calze e le cuce di nascosto, ma loro continuano a fare i buchi. Papà dice bugie e tutta la famiglia sta male ed è triste.
Ha i soldi per le sue cose ma non per pagare le mie visite dal dottore o i miei vestiti.
Forse arriverà l’ufficiale giudiziario o finanziario, non lo so bene come si chiama, comunque qualcuno che ci manderà via.
Verso dicembre dobbiamo trasferirci in una casa nuova perché questa ha la muffa e io ho sempre la febbre ma come faremo se papà non paga nessuno?
Questo è proprio un brutto periodo e mi auguro che passi presto, ho così tante cose da dire che potrei scrivere un libro. L’unica cosa che posso fare è disegnare e pensare a cose belle.”


Tre anni dopo, 13 anni
“Giulia mi ha detto che se piango mi cola il mascara. Oggi è la prima volta che lo metto e mi viene già da piangere. Dice che devo fare come le star del cinema, guardare in alto e non far uscire le lacrime ,altrimenti mi sporco tutta di nero. Odio il nero , è un colore troppo triste. Papà è venuto a salutarmi prima di andarsene di casa. Dice che presto troverà un appartamento, ha portato via con sé una fotografia mia e una della mamma ma non capisco perché dato che l’ho visto passeggiare con un’altra donna.
Mamma dice che è giusto così, che non ha mai mantenuto le sue promesse ed è ora che si faccia la sua vita. Non so cosa pensare, mi sento un oggetto conteso fra due litiganti.”

“Lunedì papà è venuto a casa mia a sorpresa. Aveva le pupille strane e diceva cose senza senso, batteva i pugni alla porta, è rimasto fuori per ore. Io ero sotto la doccia, mamma era uscita a fare la spesa. Per fortuna che avevo chiuso a chiave tutto! L’ho chiamata subito ma non riusciva a entrare perché lui la bloccava. Abbiamo dovuto chiamare i carabinieri, è stata una scenata pazzesca ed ora il condominio non ci rivolge più la parola. Nemmeno la mia migliore amica vuole parlarmi, nessuno mi saluta e chiunque si volta dall’altra parte  quando ci vede in giro. Mi evitano come se avessi la peste, mi vergogno ad andare al supermercato con la mamma perché ho paura di trovare qualcuno che mi conosce. Non voglio più uscire di casa. Anche perché ho paura di trovare papà in gir, ho sentito mamma piangere al telefono dicendo che è drogato.”
 

Non ha più i suoi lunghi capelli ramati. Non ha più le iridi castane e profonde, né il corpo femminile e delicato. Non ha la pelle candida, morbida, profumata di bagnoschiuma alla ciliegia.
È un ammasso nero, una nebbia densa e soffocante, un pugnale d’orrore. È una piccola creatura allattata dal rammarico e dal senso di colpa, un animale indifeso ed impaurito che si dimena in una gabbia.
È un mostro nero, senza volto né corpo, uno spettro algido soffocato dalle lacrime.
Grida ancora una volta e la sua voce si spegne nel silenzio, fiammella tremolante, illusione di calore e luce.



Note:
Le parti di diario non sono frutto della mia fantasia, bensì sono scritti realmente esistenti, riportati qui come sono proposti nella carta. Pertanto ho deciso consapevolmente di non correggere gli errori grammaticali nè la sintassi, ho preferito proporre a voi lettori quanto scritto in tutta sincerità. Quel diario è forse uno dei miei ricordi più preziosi.
Questo capitolo ha una forte influenza autobiografica, necessario per dare un senso alla storia e ai capitoli che seguiranno.
A presto,           
un bacio

Valentina.


PS: Grazie a chi ha recensito, grazie di cuore anche a tutti i lettori e a tutti coloro che sapranno comprendere questa storia.


 
   
 
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