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Autore: radioactive    03/07/2014    2 recensioni
Erano le sue mani nei miei capelli, le sue mani nelle mie, le sue mani ovunque che mi cercavano per paura, tristezza, angoscia – e anche felicità. Annie rideva quando c’ero io e il Distretto credeva che fosse una sirena a farlo, ai confini del nostro mare.
Il lettino mi avvolge in un abbraccio morbido ma non umano. È un caldo che fa sudare e piangere allo stesso tempo. L’immagine di Annie è accompagnata da una canzone triste che ricorda i disegni delle barche nel cielo di notte. Sono debole e stanco e l’unica cosa che riesco a fare è piangere e pensarla. Pensarla mentre si lascia baciare sulle guance e sulla fronte e sulle labbra, mentre le accarezzo i capelli o sgranocchia un biscotto. La penso che si rigira nelle coperte o che guarda una conchiglia caduta dal tavolo, andata in mille pezzi, e si rivede in quei cocci cadendo a terra anche lei. Piange, Annie, quando qualcosa crolla. Si abbraccia come se volesse rimanere intatta, per non perdersi, poi mi chiama – Finnick – è un sussurro.

• Long-fic ambientata durante gli avvenimenti di MJ con il focus sull'introspezione di Finnick ed Annie.
• Il rating potrebbe salire.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Finnick Odair
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Vogliono trasformare anche Finnick in un leader ribelle, ma prima devono riuscire a farlo rimanere sveglio per più di cinque minuti. Persino quando è cosciente, devi ripetergli qualsiasi cosa tre volte per arrivare al suo cervello. I medici dicono che è colpa dello shock elettrico che ha ricevuto nell’Arena, ma io so che la cosa è molto più complicata di così. So che Finnick non può focalizzarsi su nulla del 13 perché sta duramente cercando di capire cosa sta accadendo ad Annie a Capitol City, la ragazza pazza dal suo distretto che è l’unica persona al mondo che lui ami.

[…] Lui, almeno, ha qualche idea di quel che sto passando. E richiede troppe energie essere arrabbiati con qualcuno che piange così tanto.

 

Mockingjay, Susan Collins.                

 

 

 

 

PARTE I

Just leave me your stardust to remember you by

 

 

 

 

CAPITOLO UNO.

 

 

Mi toccano e mi spogliano, infilandomi qualcosa fatto con del tessuto leggero. Così leggero che sento freddo e ogni pelo che ho sul corpo si drizza in piedi, attorcigliandosi alla veste. La mia schiena incontra un materassino in cui mi sembra di sprofondare, batto i denti e il ghiaccio inizia a ricoprire la punta delle dita e delle orecchie e del naso.

Intorno a me è un vortice di sensazioni e movimenti, ma non riesco ad aprire gli occhi e dentro sento un fuoco che esplode e mangia qualsiasi cosa. Nasce dallo stomaco e mi prende ogni organo, ogni nervo. Sento male in ogni brandello di pelle e resto immobile per paura che si stacchi. Nella mia testa c’è una tempesta e ogni neurone è colpito da un fulmine, ogni fitta mi porta sempre più verso il basso.

All’improvviso sono immerso nell’acqua fredda che mi congela ed entra nei polmoni, soffocandomi, riempiendoli come se fossero delle spugne. Divento d’acqua anche io e mi addormento.

Il mio ultimo pensiero va a lei.

 

Il volto di Snow è filmato in primo piano mentre le sue parole rimbombano in casa.

Si ritorna nell’Arena.

Annie si porta le mani alle orecchie, piegando le dita per stringerne i padiglioni – come se volesse strapparle. Le ha sentite, le ha sentite così bene che le sono arrivate al cuore e la stanno distruggendo dall’interno. Allungo le braccia per afferrarla, trascinandola sulle mie gambe mentre tutto il suo corpo trema.

«Annie, Annie, ascoltami» la imploro in un sussurro, facendo scivolare la mano sui suoi capelli rovinati dal sale del mare. Lei mugola e piange e si stringe le orecchie. Allungo le dita per coprire le sue, sfilandole una alla volta dai padiglioni, Annie afferra i miei pollici e la sua stretta scende fino ai polsi.

Le sue lacrime sono coltelli di ghiaccio sulle spalle, i suoi lamenti sono le sirene che piangono e muoiono.

«Va tutto bene, Annie» le mormoro, lasciando che mi stringa: meglio io che lei. Appoggio le mani sulle sue orecchie, ma delicatamente, imitando la forma cava delle conchiglie. «Va tutto bene» le ripeto all’infinito,  muovendomi a destra e a sinistra, cullandola.

«Moriremo tutti, Finnick» mi dice, le sue parole sono ferro e fuoco al cuore. Annie ha le crepe sul corpo come un vaso rotto e mal ricomposto – potrebbe spezzarsi da un momento all’altro e io non voglio che succeda. «Moriremo tutti».

 

Riemergo dal lago in cui sono stato buttato senza muovere un muscolo. Sono ancora paralizzato in quella morsa che era il corpo di Annie avvolto dal mio, freddo e vuoto. Piangeva e tremava e non potevo fare nulla per calmarla se non parlarle, sussurrarle il suo nome e dirle che sarebbe andato tutto bene. Che non le sarebbe successo nulla per quei Settantacinquesimi Hunger Games.

Mentivo.

«Sai dove ti trovi?» la voce arriva lontana, il mugolio di un fantasma. «Finnick, sei al 13» mi dicono, e lo ripetono ancora una, due, tre volte. Ogni sillaba è una martellata al petto che mi impedisce di parlare. Le parole mi si bloccano in gola, le palpebre rimangono serrate – non posso muovermi, non ci riesco e non voglio nemmeno. Ho ancora Annie tra le braccia  e le mie attenzioni sono tutte rivolte a lei.

Va tutto bene Annie, mi ascolti? Va tutto bene. Andrà tutto bene.

Il materasso sotto di me cigola quando muovo le gambe, premo le piante dei piedi sul lenzuolo e il dolore attraversa ogni nervo.

Respiro piano, stringo la stoffa sotto di me, cerco di rilassare la mente. Voglio ritornare giù – nei miei sogni, nei miei pensieri. Voglio ritornare a cullarla per farla ritornare serena. Voglio ritornare con lei in spiaggia. In quel mare che non è mai stato così tanto casa, con il ricordo del sale sulla lingua e i suoi capelli tra le dita.

Annie. Muovo le labbra, piano, come se la stessi chiamando a sé stessa, ma ogni sillaba mi graffia la gola, esce rotta ed incomprensibile. Riesco a vedere le sue mani che premono sulle orecchie e la mascella serrata. Riesco a vederla mentre trattiene il respiro perché non vuole più avere nulla a che fare con il mondo. Riesco a vedere le ciglia che sfiorano le guance rosse dallo sforzo di stare in apnea.

Annie. La chiamo perché voglio abbracciarla, sentirla contro il mio corpo, rispecchiarmi nel verde dei suoi occhi ed intrecciare i fiori ai suoi capelli, anche se non sono mai stato bravo a farlo. Il suo ricordo si proietta dietro le mie palpebre, le sue labbra che si stirano in quello che per lei – per noi – è un sorriso. Le sue mani agitate che tamburellano sulle ginocchia e poi si fermano ore intere, prima di intrecciarsi alle mie per il resto della giornata. Annie, Annie, Annie.

La sua immagine si fa sbiadita, i contorni si sciolgono e il rame dei suoi capelli cancella tutto.

«Niente da fare» mormora qualcuno. Se ne vanno, lasciandosi dietro una scia di passi che liberano il posto alle mie lacrime.

 

«Finnick».

«Sono al 13» dico. Sono al 13 – non riesco a togliermelo dalla testa: sono al Distretto 13, e sapevo sarei venuto qui. Sono al distretto 13 ed Annie non c’è.

«Era la domanda prima, Finnick» sospira e si passa una mano tra i capelli corti e scuri. Il suo volto è un groviglio indistinto di linee e sfumature di colori.

«Sono al Distretto 13 ed Annie non c’è», e diventa tutto reale: sento il freddo e il buio stringermi, schiacciarmi la gabbia toracica per impedire al mio cuore di battere. Serro le labbra, abbasso le palpebre e metto le mani sulle orecchie – come fa lei. Le lacrime mi rigano le guance, scavandosi fossi profondi come il buco che ho dentro, che Annie dovrebbe riempire ma che non fa altro che allargarsi, ora che lei non è qui. Ho i brividi per colpa di un vento che non esiste. È una voragine di ricordi che mi sovrastano come un’onda troppo alta, indomabile.

Mi porta in basso. Tocco il fondale di sabbia e roccia e sento i graffi sulle braccia bruciare.

Il suo nome si ripete all’infinito nei miei pensieri mentre le mie mani quasi scavano nella pelle. Mi gratto le orecchie fino a sentire il dolore che raggiunge le mie tempie e mi annebbia il cervello.

Voci si confondono ad altre voci e alle molle del materasso, le mie mani si allontanano contro la mia volontà dal mio viso e si premono sul lenzuolo, tenute ferme da dita forti e sconosciute. Le mie ossa si muovono e i nervi si spezzano assieme ai muscoli stanchi, ridotti a brandelli di carne. Sono bloccato e i sogni mi scivolano in vena sottoforma di sedativo.

Vado a pezzi e mi addormento in un mare di lacrime, con il nome di Annie sulle labbra e i graffi degli scogli sul corpo.

 

«Oggi è una bella giornata, non trovi?» mi giro a guardarla, senza fare nessun movimento brusco. Annie ha i capelli più arancioni del solito e la pelle che sembra bagnata da acqua dorata. Gli occhi sono due smeraldi posti sopra una fiamma, tanto sono luminosi. Il sole bacia i più belli e oggi ha deciso di dedicarsi solo a  lei.

Si stringe le ginocchia al petto, i piedi sono affondati nella sabbia, le dita sono scomparse sotto questa. Osservo ogni dettaglio del suo corpo: il mondo in cui le mani sono aggrappate alle rotule, la curva delle labbra, lo sbattere delle palpebre. Tutto in Annie racconta una storia che ho piacere a leggere ogni volta, ogni giorno.

Mi tolgo la camicia e gliela poso sulle braccia. Si muove piano, come se si nascondesse – solo un gesto con le spalle, avvicina le scapole come per aprirsi. Gli spigoli dei triangoli si muovono come fossero delle ali. Annie sboccia come un fiore perché si sente protetta.

«È una bella giornata Finnick» mi risponde, non sposta lo sguardo dal mare né si fa distrarre dai gabbiani che volano all’orizzonte. È una roccia, Annie. Uno scoglio che si aggrappa con tutte le forze alla terra mentre il mare la bagna, cercando di distruggerla.

La sua mano lascia libera il ginocchio e si posa sulla rete che ci divide, rivolta verso l’alto. Intreccio le mie dita alle sue e lascio che sia lei a decidere quanto forte debba essere la presa.

«Anche tu sei bella, oggi» continuo, parlando piano perché nessuno possa sentirci. Voglio che le mie parole siano solo sue, che siano importanti come io considero importanti quelle che lei mi dice.

Ritorna a fissare il mare, immaginando una barca o delle sirene o semplicemente il niente. Nei suoi occhi vedo riflessi la paura e l’angoscia e tutti quei sentimenti che la colgono di sorpresa nella notte, quando urla e mi cerca, abbracciandomi fino a farmi male. Vedo anche me stesso e il mio amore nei suoi confronti – il mio esserle accanto, tutti i giorni.

«Annie» la chiamo, piano, con un tono di preghiera e di affetto, così gentile che non mi capacito mai che lo abbia pronunciato io. Io, lo stesso Finnick che sparisce per giorni sotto le lenzuola di un qualche abitante di Capitol City – io, Finnick, che si sveglia nel buio perché un tributo morto è venuto a tormentarlo. Io che non ho nemmeno trent’anni e ho già perso tutta la mia vita, perché quel poco che mi era rimasta l’ho donata a lei.

Annie capisce e sposta la rete con entrambe le mani, abbandonando per qualche secondo la mia. Si avvicina e lascia che le circondi le spalle con un braccio, appoggiandosi nell’incavo del mio collo.

Siamo come i gusci di una conchiglia e le nostre vite dipendono una dall’altra, fondendosi in una perla che custodiamo gelosamente.

«Stai con me stasera» mi dice, quando il sole è sceso e il cielo è solo un alternarsi di viola e blu. Il fuoco davanti a noi brilla e gioca sulla pelle delle gambe di Annie. Il suo stomaco brontola e mi fa sorridere, ma lei sembra non farci caso. Mi allungo a lasciarle un bacio tra i capelli.

«Sto con te sempre».

Ma adesso io non sono con lei.

 

«Finnick».

Il mio nome è sulla bocca di tutti, quando si avvicinano a me. Le loro parole mi sfiorano, senza toccarmi davvero. Le loro voci sono lontane e i loro corpi invisibili. I camici bianchi si confondono con le pareti e le lenzuola e se chiudo le palpebre diventa tutto nero e sto bene così.

Nel nero la distinguo chiaramente – come se fosse notte e stessimo sdraiati a letto. Potrei allungare le mani per sfiorarle il braccio nudo, le curve del suo corpo sono illuminate e rese visibili dalla luna.

Quello che sento tra le mie dita è l’acciaio di un cucchiaio freddo e sulle mie gambe vi è il peso morto di un vassoio. La minestra mi scalda le cosce oltre la plastica e il cotone – l’odore che emana è debole ma abbastanza per essere disgustoso. Serro le labbra prima di vomitare.

«Devi mangiare qualcosa, Finnick».

Alzo il cucchiaio e poi lo lascio cadere, senza forza nelle dita. Qualcuno lancia un urlo, seguito da un «guarda cos’hai fatto!» - ma non posso guardare perché ho gli occhi chiusi e non ho intenzioni di riaprirli. Viaggio lontano, accogliendo Annie tra le mie braccia per proteggerla dal buio della notte che tenta di farla affogare nei ricordi di un’Arena da cui non è ancora uscita. Il vassoio sparisce dalle mie gambe e scivolo sotto il lenzuolo, girandomi di lato, mentre le mie dita cercano invano Annie e trovano un cuscino troppo morbido.

Intono a me parlano di alimentazione artificiale e sonniferi e deliri di cui non ricordo.

Non sono al Distretto 13.

Sono nel letto con Annie e ci stiamo proteggendo. Come una conchiglia fa con la propria perla.

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE

 

Non ho molto da dire, in realtà. Perché alla fine quello che voglio scrivere sono ringraziamenti e vanno in fondo. Tuttavia, mi sento di spiegare almeno la nascita di questa long.

Sostanzialmente sono stata convinta da persone di cui si saprà il nome in un secondo momento a fare tutto un itinerario nella mente di Finnick (e, sì, successivamente anche di Annie) durante gli avvenimenti di Mockingjay. Questo per il semplice motivo che di loro si parla poco e male, nel libro – e poi perché mi piace farmi del male e riempirmi l’estate con nuovi progetti. Perché loro due? Inizialmente l’idea era di fare Haymitch ed Effie post-MJ, ma a seguito di una breve discussione (sempre con le persone di cui sopra), ho capito che forse l’Odesta era la strada migliore per me. E insomma, non hanno sbagliato.

Quindi eccomi qui, a spiegarvi Finnick e la sua sofferenza dal mio personalissimo punto di vista, seguendo più o meno gli avvenimenti di Mockingjay (alcuni saranno inventati di sana pianta per motivi tecnici, ma la trama del libro rimarrà intatta). Di conseguenza, non ci sarà nessuna what if? dove vivono felici e contenti – ebbene sì, mio malgrado, Finnick morirà lo stesso. Ma forse è giusto così.

La long si dividerà in tre parti: MJ prima del ritorno di Annie, MJ dopo il ritorno di Annie, un piccolo post-MJ dal punto di vista di Annie.

Riguardo al titolo, semplicemente, è stato il primo che mi è venuto in mente pensando a Finnick ed Annie. Ed è tratto dall’omonima canzone di Gregory and the Hawk (in futuro vi sarà un piccolo tributo all’artista, nella fic) e la si può considerare una sorta di soundtrack della storia.

I capitoli saranno pubblicati circa uno a settimana, devo solo ricordarmi di farlo.

A breve e grazie per aver letto!

      

       radioactive,

 

 

Un gentile ed onesto grazie a:

Tutto il gruppo di Ultraviolenceh (♥) con cui parlo sempre volentierissimo ogni giorno e mi trovo bene – cosa complicata di questi tempi.

Singolarmente, ringrazio Deb per essere stata la prima con cui ho trattato l’argomento “fan fiction” che poi si è evoluta in B&B; LaGattaImbronciata perché «Finnick per te è come Peeta per me» e perché ha coniato il mio termine preferito (disagimantica).  Le ringrazio anche come Il Pavone  e la Piantana – per Colors, per avermi permesso di fare i banner a tutte le storie che pubblicano in quella serie e per la concessione di Boats and Birds, che considero (forse con un po’ troppa modestia) una sorta di piccola costola di Colors. Una figlia illegittima ecco, magari anche un tributo al vostro lavoro.

In tutti i casi, qualsiasi cosa io faccia spero che teniate presente che è “giustificato” (che brutto termine in questo contesto) dalla massima stima che ho verso di voi.

Gabryweasley, che è diventata la nostra mascotte, ma ci fa sempre urlare ed esultare quando si fa sentire. Solo buone cose (e attenta quando fai gli esercizi sulla palla!)

E ultima ma non meno importante, yingsu, con cui ho passato – fino ad ora – tre anni stupendi, a cui auguro tutto il bene del mondo magari insieme a me, eh e che non abbandonerò mai, neanche se dovessi fare una rivoluzione per ribaltare la politica dell’Italia e tu fossi la ragazza pazza del mio Distretto. Lo so che hai una sorta di indigestione di Hunger Games, ma non posso fare a meno di citarti per tutto il bene che mi fai.

Ovviamente, un saluto va anche a tutto il gruppo di A Panda piace fare le bolle d’assenzio, che mi tengono occupata (anche quando non devono), magari qualcuna di voi si metterà a seguire questa fic, chissà

 

I pezzi di Mockingjay che trovate ogni tanto all’inizio dei capitoli sono tratti dalla traduzione del libro da parte del blog fromabooklover.blogspot.

   
 
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