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Autore: beanazgul    04/01/2005    20 recensioni
di PlasticChevy traduzione di: beanazgul aka Adûnaphel Nota: Questa è la traduzione della storia originale in inglese “The Captain and the King”, scritta da PlasticChevy, un’autrice di fanfiction dotata di grande talento. E' ispirata al mondo del Signore degli Anelli, ma si tratta di un’ AU, cioè una versione alternativa del testo di Tolkien, i cui eventi prendono una strada diversa ad Amon Hen....se vi è sempre dispiaciuto vedere Boromir morire alla fine del primo libro/film, allora questa storia fa per voi! Se avrete la pazienza di avventurarvi in questa miriade di capitoli vi assicuro che non ve ne pentirete: vi lascerà senza fiato! PlasticChevy mi ha gentilmente dato il permesso di tradurla e io ho cercato di fare del mio meglio per rendere giustizia alla sua bravura, anche se è un lavoro molto impegnativo perché la storia è molto complessa e mi rendo conto che una traduzione non è mai all’altezza dell’originale! Disclaimer: Il Signore degli Anelli e tutti i suoi personaggi sono proprietà di J.R.R. Tolkien e dei suoi eredi. Li sto utilizzando solo per divertimento, non per vendita o profitto.
Genere: Drammatico, Azione, Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Aragorn, Boromir, Merry, Saruman
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 1: Un viaggio nell’Oscurità

 

“Boromir. Boromir!” La voce familiare, un sussurro urgente nell’oscurità, proveniva da un punto molto vicino. Voltò la testa nella direzione del suono, e la voce sibilò nuovamente. “Boromir!”

“Aragorn?”

L’intero volto gli doleva così tanto che non riusciva nemmeno a muovere la mascella, tuttavia, chissà come, riuscì a parlare. L’uomo accanto a lui doveva aver compreso il suo mormorio, perché, con sua sorpresa, rispose.

“Non usare quel nome. Chiamami Grampasso”.

“Cosa è accaduto? Dove siamo?”

“Gli Orchi ci hanno catturato”.

Boromir tentò di alzarsi, ma scoprì che non riusciva a muoversi. Si sentiva come se fosse stato calpestato da una mandria di cavalli impazziti, ed era pervaso da una terribile stanchezza.

“Non ti muovere”, disse Aragorn. “Hanno estratto le frecce e fasciato le ferite, ma hai perso molto sangue”.

“Frecce…”

Boromir si lasciò cadere nuovamente contro le dure pietre e cercò di pensare. Di ricordare. L’ultima cosa che ricordava, prima di svegliarsi in quella fredda e dolorosa oscurità, era che stava combattendo disperatamente contro un’orda ripugnante di orchi, squarciando e fendendo, e ruggendo il suo disprezzo e la sua sfida verso la loro schiacciante superiorità numerica. Alle sue spalle gli Hobbit si stavano ritirando lentamente tra gli alberi, riluttanti ad abbandonarlo eppure terrorizzati di fronte ad un nemico troppo grande per le loro piccole spade.

E poi...poi la prima freccia lo aveva colpito, e lui aveva gridato a Merry di fuggire…di fuggire finché poteva…e di portare Pipino con lui! Merry era il più ragionevole dei due. Avrebbe capito che era la cosa giusta da fare, e avrebbe protetto Pipino.

Un’altra freccia. Ricordava l’impatto distruttivo di un’altra freccia, che lo aveva fatto cadere in ginocchio, e l’orrore dipinto nei visi degli Hobbit mentre cadeva. Ma era sicuro che alla fine erano fuggiti… se non era soltanto un inganno dettato dalla sua disperazione. Era sicuro di averli visti voltarsi e svanire tra gli alberi. Poi si era fatto coraggio, e si era preparato al colpo finale. Al colpo mortale.

Perché non l’avevano ucciso? Che cosa stava dimenticando? Ricordava una voce, gutturale e sgradevole, che gridava, “Prendete l’Uomo!” E poi? Poi un’enorme sagoma che incombeva su di lui, la spada alzata per colpire, e un colpo violento, non sul collo ma…

Boromir rabbrividì e si voltò verso l’uomo al suo fianco.

Non ricordava che Aragorn fosse nella battaglia, ma sapeva di avere suonato Corno di Gondor. Forse il suono aveva fatto accorrere il Ramingo in suo aiuto… condannando anch'egli al suo stesso destino.

“Mi dispiace, Grampasso”, mormorò, esitando nell’adoperare l’insolito e irrispettoso nome.

“No, Boromir. Sono io che ho fallito. Sono arrivato troppo tardi per salvare anche uno solo di noi”.

Aragorn non parlò dello shock e dell’orrore che aveva provato quando, arrivato nella radura di Parth Galen, aveva visto il capo degli orchi abbattere la sua mostruosa spada di piatto sul viso di Boromir, frantumando ossa e carne insieme e facendo schizzare il sangue da sotto la lama, mentre il valoroso guerriero crollava al suolo, esanime.

Aragorn aveva combattuto quell’ultima, disperata battaglia nella certezza che Boromir fosse morto. E ora, mentre conversavano sottovoce distesi tra le aride rocce dell’ Emyn Muil, non poté reprimere il terribile pensiero che forse sarebbe stato meglio per Boromir essere davvero morto sotto i colpi degli Orchi.

Boromir giaceva assolutamente immobile, assorbendo le sue parole, poi, con un tremito nella voce sussurrò, “I piccoletti?”

“Non li hanno presi. Non… non so esattamente cosa è stato di loro, ma non sono qui”.

“Ti prego…fa che siano salvi lontano da qui”.

“Hai fatto tutto quello che potevi per loro, Boromir. Il loro destino non è più nelle nostre mani”.

Prima che l’altro uomo potesse rispondere, una figura imponente apparve sopra di loro. “Conversazione piacevole, ragazzi?” ringhiò.

Aragorn sollevò lo sguardo verso l’odiosa faccia piatta e squamosa di Uglùk, il capitano delle forze di Saruman, e gemette silenziosamente.

“Lascialo in pace, Uglùk”, disse.

“Non posso farlo. Portare gli Uomini vivi, questi sono i miei ordini. E se lo lascio in pace, il soldatino morirà”. Uglùk afferrò Boromir per la tunica e lo sollevò senza sforzo dal terreno. Boromir emise un rantolo involontario al riaccendersi del dolore nel suo corpo e nella sua testa, e Uglùk gli spinse tra i denti il collo di una bottiglia. “Avanti, fa’ il bravo soldato e bevi”.

Boromir non aveva scelta. Se non voleva soffocare doveva ingoiare il liquido bollente che gli veniva versato in gola.

Dopo che lo ebbe costretto a deglutire, Uglùk allentò la presa e lasciò cadere il corpo martoriato ed esausto sul terreno roccioso. Boromir urlò di dolore.

Era ancora troppo stordito e spossato per il rude trattamento di Uglùk per accorgersi che l’orco aveva cominciato a sollevare le bende che gli fasciavano le ferite alla spalla e al fianco. Uglùk sembrò soddisfatto di quello che trovò, poiché con uno strattone risistemò le bende e diede a Boromir un buffetto sulla guancia che avrebbe abbattuto un troll di caverna.

“Splendido. Sai, se non avessi fatto a pezzi tanti dei miei ragazzi, penso che potresti anche cominciare a piacermi, soldatino. Peccato che sei solo un Uomo, e diretto ai sotterranei di Isengard, per di più.” La sua orribile zampa scostò leggermente la pesante benda che copriva il viso di Boromir. “Peccato. Lurtz non ha lasciato un granché, comunque”.

Uglùk si voltò bruscamente verso Aragorn per dargli un calcio col suo piede calloso. Lo prese in pieno petto, strappandogli un gemito di dolore, e con un secondo calcio lo colpì in viso. “Poi sei arrivato tu e gli hai tagliato la testa, che tu sia maledetto!”

Aragorn sputò una boccata di sangue e rivolse a Uglùk uno sguardo distante, privo di emozioni. “E farò lo stesso a te, Uglùk.”

“Bella gratitudine da parte tua, dopo che io salvo la tua miserabile vita e ti trascino attraverso queste dannate colline! E’ ora di darci una mossa, ragazzi!”

Rivolgendosi a uno del suo gruppo indicò in direzione di Aragorn e ringhiò, “Lugdush, tu porterai questa carogna per il primo tratto. Tu invece,” e afferrò Boromir per il mantello costringendolo ad alzarsi, “puoi camminare”.

Boromir barcollò e cadde in ginocchio, guadagnandosi un altro violento calcio da Uglùk. Poi l’orco lo afferrò per il braccio sinistro, e quando lo sollevò in piedi, Boromir si lasciò sfuggire un lacerante grido di dolore, causando l’ilarità di Uglùk.

“Se pensi che faccia male adesso, aspetta di avere camminato per tutta la strada fino ad Orthanc”.

Un istante dopo, Boromir sentì il cappio di una corda che veniva stretto attorno al suo collo, poi uno strattone all’altra estremità che lo fece quasi cadere di nuovo. “Grampasso?” chiamò, mentre l’orco che teneva la corda cominciava a trascinarlo via.

“Sono qui”.

La voce era vicina, ma c’era qualcosa che disorientava Boromir. Sembrava attutita, e proveniva da un’altezza sbagliata. Gli ci volle un momento per rendersi conto che Aragorn stava venendo trasportato sulle spalle di un orco.

“Cosa ti hanno fatto?” domandò Boromir. “Perché non puoi camm…” L’orco che teneva la corda diede uno strattone e il cappio gli tolse l’aria, soffocando sue parole.

“Non è nulla. Una ferita alla gamba”.

Boromir ritrovò l’equilibrio, ma stavolta ebbe la prontezza di stringere il suo pugno attorno alla corda, allentando la tensione del cappio e proteggendo la sua gola dagli eccessi d’entusiasmo del suo guardiano. “Grampasso”, chiamò ancora, “hai un’idea di dove siamo?”

“Vicino alla riva occidentale dell’Emyn Muil, credo”.

“Silenzio, voi”, ringhiò un Orco da poco lontano.

“Quanto tempo è passato?”, domandò Boromir, ignorando l’orco.

“Dalla b… NO!” Gridò Aragorn, col panico nella voce. “Non sul viso!”

“Ho detto silenzio!

Poi un improvviso, abbagliante dolore esplose nella testa di Boromir, che si accasciò al suolo. Per un periodo interminabile di tempo non conobbe altro che indicibile sofferenza, e una paura confusa, urlante, che quella fosse la morte, e che avrebbe dovuto sopportarla per l’eternità.

Molto lentamente ritornò ad avere consapevolezza delle sue mani che afferravano il suo viso, di sangue fresco che scorreva tra le sue dita, e di qualcosa o qualcuno che gemeva lì accanto. Sembrava un animale ferito, una creatura colpita così mortalmente da non poter emettere un suono vero e proprio, eppure troppo disperata nel suo dolore per restare in silenzio.

Avrebbe voluto aiutare quella creatura, o almeno tagliarle la gola e mettere fine alla sua agonia, ma non riusciva a muoversi per cercarla. Il suo corpo era rigido e tremante, i suoi muscoli come bloccati, la sua mente paralizzata.

E poi capì. Capì che lo spaventoso suono proveniva dalla sua stessa gola, risalendo dai suoi polmoni che non riuscivano a respirare, oltre la sua mascella serrata per bloccare il panico crescente.

Mani dagli artigli di ferro lo afferrarono per le spalle, voltandolo sulla schiena e inchiodandolo contro le rocce. Poi altre zampe strinsero i suoi polsi, togliendogli con la forza le mani dal viso.

Una voce nota ringhiò da qualche parte sopra di lui. “Idiota! Devono essere consegnati vivi!”

Ancora una volta gli portarono la bottiglia alla bocca, e Boromir fu costretto a inghiottire un secondo sorso del disgustoso liquore orchesco.

“Se l’hai ucciso ti scuoierò con le mie mani, Snaga, e ti darò in pasto ai ragazzi per cena!”

“Avevi detto che non dovevano parlare”, piagnucolò Snaga.

“Se parla fagli il solletico con la tua frusta! Insegnagli un po’ di buone maniere, ma non ucciderlo, razza di stupida scimmia! Ora lo porti tu fino alla scalinata”.

“Bah. Questi pelle-bianca sono pesanti. Troppo pesanti per portarli a spalla fino a Isengard”.

“Questo ti insegnerà a stare più attento. Fallo alzare, e muoviti, oppure molto presto sarai tu ad assaggiare la mia frusta!”

Boromir sentì braccia robuste che lo sollevavano, poi fu gettato sopra una spalla ampia, squamosa e brutalmente dura, con entrambe le braccia che oscillavano a peso morto. Ogni movimento riaccendeva una nuova fiammata di dolore nelle ferite al suo fianco sinistro.

Ma nonostante tutto era grato di non dover stare in piedi e camminare da solo, grato per la solida forza dell’orco che lo sosteneva, e grato di essere ancora vivo. Lasciò che la testa poggiasse sulla schiena dell’orco e cercò di ignorare il sangue che scorreva lungo il suo viso, gocciolando sulle rocce sotto di lui.

La truppa di orchi si rimise in marcia di corsa sobbalzando. Boromir soffocò un lamento e si disse che poteva sopportarlo. Poteva sopportare ogni cosa, se significava che la Compagnia, i suoi amici, erano potuti sfuggire alle grinfie degli orchi.

Quando la truppa raggiunse il dirupo occidentale dell’ Emyn Muil, Uglùk chiamò l’alt. Avevano viaggiato per tutta la notte e parte della mattinata, con grande disagio di alcuni degli orchi più piccoli, e ora si trovavano ad affrontare la minaccia delle aperte pianure di Rohan. Uglùk avrebbe voluto proseguire rapidamente per Isengard, ma con il peso aggiuntivo di due prigionieri e i Rohirrim che pattugliavano le pianure dubitava che i suoi compagni ce l’avrebbero fatta. Mentre gli orchi si riposavano e discutevano sulla strada da prendere, aspettando che il sole tramontasse, i loro prigionieri giacevano uno accanto all’altro sulle dure rocce e cercavano di raccogliere le forze per la successiva tappa del viaggio.

Ma a Boromir la sosta non dava alcun sollievo. L'andatura sobbalzante degli orchi non tormentava per il momento il suo corpo ferito, e Boromir era grato di quel piccolo miglioramento, ma i suoi soli compagni erano ancora oscurità, sofferenza, e dolore. Nemmeno i suoi pensieri gli offrivano conforto, riportandolo sempre alla radura di Amon Hen, al suo fallimento e al suo tradimento.

Aveva distrutto così tanto, in quel solo, unico istante, così tanto che non avrebbe mai potuto porvi rimedio. Un odio amaro verso se stesso lo invase, mentre rivedeva il disgusto e l’orrore negli occhi di Frodo, sentiva la paura nella sua voce, e vedeva il piccolo hobbit affannarsi disperatamente per sfuggire alle sue mani che lo afferravano.

Quel ricordo da solo era sufficiente per farlo avvampare di vergogna. Non aveva bisogno di ricordare alla sua coscienza che aveva infranto il suo giuramento, insudiciato il suo onore e il suo buon nome, che era caduto preda delle menzogne sussurrate dal Nemico, e che aveva condotto il suo re alla prigionia, forse anche alla morte per mano di Saruman. Tutte queste cose erano come sale nella più crudele delle ferite.

Accanto a lui Aragorn si mosse, strisciando contro la ghiaia e le rocce smosse. Un tenue lamento gli sfuggì dalle labbra, e Boromir si chiese ancora una volta quali altre ferite avesse subito Aragorn delle quali non parlava.

Sembrava impossibile che una squadra di orchi fosse riuscita a prendere il Ramingo vivo, e ancora più impossibile che riuscissero a tenerlo prigioniero, eppure Aragorn non aveva nemmeno fatto un tentativo per fuggire. O le sue ferite erano troppo gravi per permetterglielo, oppure aveva altre ragioni per restare. Quale fosse la verità, Boromir non voleva saperlo. Quel pensiero non faceva che gravare ancora di più il fardello della sua colpa.

Aragorn si spostò finché la sua spalla andò a toccare il braccio di Boromir e la sua testa fu così vicina che Boromir poté sentire il calore del suo respiro. “Come stai?” mormorò il ramingo.

“Abbastanza bene”, rispose Boromir, a voce così bassa da essere a stento udibile. “E tu?”

“Abbastanza male”. Esitò, poi aggiunse, “La prossima tappa sarà molto dura. Dovresti riposare”.

“Non ci riesco”.

“Nemmeno io”.

Rimasero in silenzio, ascoltando il rumori del campo e indugiando nei loro pensieri. Poco dopo, Boromir si mosse, e cominciò a parlare di quello che gli opprimeva l’animo.

“Sono andati nella Terra Oscura senza di noi. Nel cuore dell’Ombra”.

“E’ sempre stato quello il sentiero che volevano percorrere, con noi o senza di noi”.

“La strada è troppo buia per i piccoletti. Il dolore li coglierà. Si perderanno nell’Ombra. E io… io che avrei dovuto proteggerli da ogni pericolo…” Si interruppe, incapace di dare voce al suo fallimento.

“Hai combattuto per loro, anche di fronte alla morte,” mormorò Aragorn. “Nessun uomo avrebbe potuto fare di più”.

Alle parole di Aragorn, Boromir sentì l’amarezza assalirlo di nuovo. Nella sua voce c’erano comprensione, il desiderio di guarire e di perdonare, e con tutto il cuore avrebbe voluto meritare una tale generosità. Ma sapeva di non esserne degno, e l’offerta lo irritava. Cercò invano le parole per dire ad Aragorn del suo tradimento. Nessuna sembrava abbastanza orribile per descrivere la verità. Si stava ancora dibattendo nel suo silenzio, quando Aragorn parlò nuovamente.

“So quale nemico hai affrontato, ma ho lasciato che tu lo combattessi da solo. E quando mi hai chiesto aiuto, sono arrivato troppo tardi. Mi dispiace, Boromir. Mi dispiace di averti deluso”.

“Non lo hai fatto. Anche tu avevi orchi da combattere”.

“Non sto parlando degli orchi”. Tacque un istante, dando a Boromir il tempo per capire il significato delle sue parole. “Mi dispiace, amico mio”, ripeté con dolcezza.

“No”. Boromir voltò il capo in segno di diniego, turbato. Sentì la voce venirgli meno. “Non chiamarmi amico. Non sai quello che ho fatto”.

“Invece lo so. Ho parlato con Frodo”.

Boromir deglutì per allentare la tensione nella sua gola, lottando per nascondere la profondità del suo turbamento. “Gli avrei fatto del male, Grampasso. Avrei fatto qualunque cosa, per avere l’Anello anche solo per un istante”.

“Lo so”.

Il dolore e la comprensione nella voce del Ramingo non fecero altro che peggiorare l’angoscia di Boromir.

“Ho tradito la Compagnia. Ho attaccato il portatore dell’Anello. Ho disonorato me stesso e la mia gente. Tutto questo”, e indicò con un gesto vago della mano, “è solo quello che mi merito”.

“Non parlare così! Non c’è disonore nell’essere Umani”, mormorò Aragorn, con voce greve per le lacrime.

“Io, tra tutti gli uomini, dovrei saperlo bene. E qualunque colpa possa mai essere ricaduta su di te è stata sollevata dal tuo essere pronto a combattere e a morire per i tuoi compagni. Se c’è qualcuno da incolpare qui, quello sono io. Ero il capo della Compagnia, responsabile della salvezza di tutti i suoi componenti, compresa la tua. Sono stato io che, chiamato alla battaglia, sono arrivato troppo tardi. Sono io quello che gli orchi cercavano, quello per cui tu hai dovuto pagare questo prezzo”.

“E io sono quello che ti ha attirato nella loro trappola”. Voltandosi di nuovo verso il Ramingo, Boromir continuò. “Perché Saruman vuole te, Aragorn?”

“Perché io sono Aragorn, l’ Erede di Isildur. Forse crede che io abbia l’ Anello, o forse spera di sapere da me dove trovarlo”.

“Allora lui sa chi sei”.

“Sì”.

“Conosce anche il tuo viso, o soltanto il tuo nome? Sa chi noi due è quello che cerca?”

“Lo saprà”.

“Ma gli orchi non lo sanno.” Non era una domanda. Il buon senso di Boromir gli diceva che Saruman non aveva rivelato ai suoi servi più di quanto fosse strettamente necessario, e il fatto che li avessero presi entrambi vivi provava che non sapevano quale dei due uomini fosse l’obiettivo dello stregone.

“Grampasso, tu non devi andare a Isengard”.

Aragorn rise mestamente. “Sembra che non abbia molta scelta”.

“Non devi. Saruman non ti terrà a lungo. Ti consegnerà a Sauron, e finirai la tua vita tra i tormenti, nei neri abissi di Barad-dûr”.

“So quale destino mi aspetta, Boromir”.

“Tu devi fuggire prima che raggiungiamo Isengard. Forse posso convincere gli orchi che sono io quello che Saruman cerca, e loro ti sorveglieranno meno attentamente…”

“No. Non fuggirò, se questo significa abbandonare te nelle mani di Saruman”.

“Ma tu devi. Io troverò un modo!”

Aragorn non rispose per alcuni istanti, e Boromir ebbe l’impressione che il Ramingo fosse stato colto impreparato dalla sua veemenza. Infine, in un silenzio carico di tensione, Aragorn mormorò, “Trovane uno che ci faccia sopravvivere entrambi”.

Boromir non disse nulla. Non avrebbe discusso con Aragorn, ma aveva poca speranza di fuggire, e ancora meno desiderio di farlo. La sua vita come l’aveva conosciuta fino ad allora era finita - disonorata e degradata dal suo attacco al Portatore dell’ Anello, frantumata dalla lama di una spada orchesca - perciò cosa importava se esalava il suo ultimo respiro nei sotterranei di Orthanc? Se solo avesse potuto garantire ad Aragorn vita e libertà, per condurre le armate dell’Ovest contro Sauron, Boromir avrebbe considerato la sua vita ben spesa.

Giaceva immobile e silenzioso, fingendo di dormire, mentre valutava nella sua mente piani per la fuga di Aragorn, usando quel compito per impedire ai pensieri e ai ricordi di riaffiorare. Era qualcosa di solido sul quale appoggiarsi, una ritrovata sicurezza e uno scopo, un terreno familiare sotto i piedi. Tattiche e strategie, scelte di vita o di morte, le dure necessità della guerra, quello era il pane quotidiano che sosteneva un comandante sul campo di battaglia, e ora sosteneva Boromir.

Al tramonto Uglùk fece alzare le truppe e risvegliò a calci i prigionieri. Fu dato loro un pasto frettoloso che non riuscirono a consumare. Poi Aragorn fu issato sulla spalla di un grosso orco, mentre Boromir, ora abbastanza in forze da reggersi sulle proprie gambe, fu legato con una fune al suo guardiano e ammonito perché non tentasse di fuggire. A un grido dì Uglùk e allo schioccare di una frusta, il gruppo si mise in marcia per un ripido sentiero roccioso in mezzo alle colline, diretto verso le dolci pianure di Rohan.

 

Continua…

  
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