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Autore: Yume_no_Namida    03/07/2014    1 recensioni
Kiba è un ragazzo trapiantato in un contesto alieno, in un appartamento che sembra la soffitta della nonna e con un’unica consolazione alle sue giornate desolanti: “La ragazza del caffè”. Hinata, per l’appunto. Attorno alla quale, tuttavia, si aggira un tizio dall'aria 'molto poco simpatica' (mi si passi l’eufemismo!) e con degli strani progetti in mente: Neji. Solo che niente è come sembra, non è come sembra neanche quando sembrava che fosse come si credeva (?), tutto si capovolge di continuo e forse i cani possiedono la conoscenza dell’universo. Oh, e di certe cose, di certe persone non ci si libera mai veramente!
Per fortuna.
Di come reagire al disordine improvviso attraverso il disordine stesso. E, cosa più importante, percorrendo insieme una qualunque strada.
[Neji/Hinata/Kiba]
[Prima classificata al "Naruto triangle's contest" indetto da cranium sul forum di EFP]
Genere: Comico, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hinata Hyuuga, Kiba Inuzuka, Neji Hyuuga
Note: AU | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Più contesti
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Nick sul forum e su EFP: Yume_no_Namida
Triangolo scelto: 1. NejixKibaxHinata
Altri personaggi: Neji, Kiba, Hinata, Akamaru
Rating: Verde
Genere: Sentimentale, Generale
Contesto: Dopo la serie
Note: AU
Avvertimenti: Triangolo
Qualcosa sulla storia (non obbligatorio, ma mi farebbe piacere): E’ una AU ma non è una AU. Fidati ù.u So che detta così fa molto “figurati se mi fido”, ma fidati. Non te ne pentirai - spero, o mi tocca fuggire XD Ah, ma veniamo alla storia! Kiba è un ragazzo trapiantato in un contesto alieno, in un appartamento che sembra la soffitta della nonna e con un’unica consolazione alle sue giornate desolanti: “La ragazza del caffè”. Hinata, per l’appunto. Attorno alla quale, tuttavia, si aggira un tizio dall’aria molto poco simpatica (mi si passi l’eufemismo!) e con degli strani progetti in mente: Neji. Solo che niente è come sembra, non è come sembra neanche quando sembrava che fosse come si credeva (?), tutto si capovolge di continuo e forse i cani possiedono la conoscenza dell’universo. Oh, e di certe cose, di certe persone non ci si libera mai veramente!
Per fortuna.
Ti auguro una buona lettura!

P.S. Ah, con la definizione dei generi non me la cavo, perciò nella storia ci sono dei momenti comici ma non ho inserito la dicitura “Comico” perché non sapevo quanto potesse essere esatta ^^”
Errata corrige: Ho infine aggiunto il genere comico su suggerimento. Vogliatemi male per averlo seguito, se proprio XD





Non ce ne si libera mai davvero.





La ragazza del caffè lo fissa, coi suoi enormi occhioni chiari.
Ok, forse non sta fissando lui, forse sta fissando il tavolo alle sue spalle, quello occupato dal vecchio immusonito dai capelli brizzolati che ha ordinato da appena due minuti e già pretende che il cappuccino ‘poco latte molto caffè, mi raccomando, è importante’ gli sia davanti, che la cameriera scatti, scatti senza concedersi il lusso di respirare, che il mondo si metta a rincorrerlo nel tentativo di afferrargli un lembo del cappotto - ma no, lui è troppo veloce! E’ troppo veloce, ormai si è rassegnato, è un’astuta lepre in un mondo di tartarughe fesse e non gli resta che tamburellare le dita sulla superficie di legno scuro che gli sta di fronte, sbuffando sconsolato.
Lo odia, quel vecchio di merda.
Non che i vecchi gli abbiano fatto nulla, se può li aiuta persino ad attraversare la strada, nonostante debba convenire che, sì, quando cominciano a tirare fuori le monetine una a una alla cassa di un qualsiasi supermercato avverte un certo nervosismo salirgli alla testa; ma quel vecchio lì è un caso a parte, è l’incarnazione della lagna perpetua sulla gioventù decaduta, è il vecchio bisbetico che ce l’ha con la cameriera! Con la ragazza del caffè!
Kiba è in quella città da poco tempo, ci si è trasferito da qualche mese per motivi di studio e soltanto da pochi giorni ha preso a frequentare il bar all’angolo della piazza sulla quale dà il suo appartamento, una sottospecie di mansarda sovraffollata che è riuscito ad affittare per una cifra irrisoria. Tuttavia di una cosa è incontrovertibilmente certo: non si può sbraitare contro la ragazza del caffè.
E’ un dogma, una di quelle verità rivelate che ti si parano innanzi in tutta la loro evidente esattezza e tu non puoi fare altro che assecondarle, assecondare l’ordine naturale del cosmo. La ragazza del caffè non si tocca. Lei che ha i capelli lunghi e scuri raccolti in una morbida coda bassa laterale, lei che ha degli occhi enormi di una chiarezza innaturale, lei che ti accoglie con un “Buongiorno” a guance imporporate e quando te ne vai non lesina sui sorrisi... è bella, la ragazza del caffè, ha i fianchi generosi e il seno non da meno, nonostante le magliette dai colori spenti di due taglie più grandi che la rivestono a mo’ di scudo. Kiba queste cose vorrebbe non notarle ma, ehi, è un ragazzo ed è fatto di carne, forse un tantino più eccitabile della media, quindi ci cade con tutte le scarpe, i pantaloni, la t-shirt e la felpa appoggiata sullo schienale della sua sedia.
Eppure la cosa che desidererebbe sopra ogni altra, ciò che da cinque giorni lo sta mandando fuori di testa è chiederle il nome. Il nome! Un semplice, dannatissimo nome. Perché, ovvio, la ragazza del caffè mica si chiama “Ragazzadelcaffè”. Ha un nome, di certo un nome grazioso, e musicale, e delicato, e... cristo, Kiba, sei nella merda. “Sei un cacasotto, naturale”, gli sembra quasi di sentire lo sfottò di sua sorella maggiore, la spiccata sensibilità con cui ha accolto le sue angosce pre-partenza prima di sbatterlo fuori dalla porta insieme ad Akamaru, il suo adorato maremmano dalle gigantopiche proporzioni. Maremmano che ogni sera, in occasione della seconda delle loro tassative passeggiate quotidiane, lo fissa con una sorta di compassionevole partecipazione e si esibisce in un guaito basso e consolatorio, come a significare “è vero, sei un cacasotto ma tranquillo che ce la fai, sono fiducioso”, situazione che, se è possibile, fa ulteriormente precipitare Kiba nello sconforto.
E’ un cacasotto ed è nella merda, il suo habitat, la sua reggia, sguazzarci dentro e districarsene dovrebbe venirgli naturale e invece no, invece si dibatte, mulina le braccia mentre annaspa e a denti stretti ripete, quasi in un soffio, “laragazzadelcaffè”... ma non è mica solo colpa sua, se non solleva le chiappe dal suo regale scranno e le si para davanti con la richiesta di un identikit completo! Non dipende mica solo da lui, che quell’arcigno vecchiaccio non sia stato ancora preso a calcioni nelle natiche per via dei suoi modi da eletto corridore e lavoratore solerte in una società di villici, mangia-pane a tradimento!
No, in primo luogo è che il candore dell’iride di lei lo blocca, gli spacca in due ogni neonato impulso ‘da caciara’. E poi è che i cacasotto sono circondati da escrementi, ma gli escrementi non sono indistinti, ce n’è sempre uno che si eleva al di sopra degli altri e che diffonde il suo tanfo ovunque... come quel ragazzo, ad esempio. Quel ragazzo seduto vicino all’ingresso che ogni volta ha con sé un libro, ogni volta più incomprensibile (Kiba ha, in diverse occasioni, casualmente posato lo sguardo su quelli che gli sono sembrati dei geroglifici, coaguli di numeri, lettere e disegni pronti a esplodergli in faccia sputando la triste verità della sua pochezza intellettuale) e che, orrore! Ha gli stessi occhi di lei e a tratti, quando crede di non essere osservato, li solleva. Li solleva e li punta addosso alla ragazza del caffè in un modo che non gli piace, con l’intensità concentrata dell’eternità fulminea, un modo che, se non fosse per il surplus di aura saccente e irritante, gli ricorderebbe fin troppo il proprio.
“E invece no, stronzetto, ti sbagli. Io ti osservo, osservo te e i tuoi spocchiosi libroni, vi osservo e non me la raccontate giusta, né tu né loro, e giuro su Akamaru che è quanto ho di più caro che non racconterete un bel niente nemmeno alla ragazza del caffè.”
Ed è proprio nell’attimo della commovente promessa solenne che lo “stronzetto dai libri spocchiosi” si allontana neanche tanto furtivamente dalla propria spocchia e lo fissa: atmosfera glaciale. La punta dell’iceberg si incrina appena allo spuntare, sulle labbra del succitato stronzetto, di un sorrisino beffardo.
Quello stronzo (letteralmente)!
Lo sta sfidando? E’ la volta buona che dà di matto e sfoga la moltitudine delle recenti frustrazioni! Ma come tutte le verità rivelate la ragazza del caffè è salvifica, gli giunge accanto al momento opportuno e pronuncia, come da una dimensione supera e metafisica: “Il suo caffè senza zucchero.”
E’ incredibile in quanto poco tempo i ghiacciai perenni siano in grado di liquefarsi. Ed è altrettanto incredibile che un identico paio di occhi si riveli in grado di suscitare emozioni tanto contrastanti, furore assassino e placido ebetismo.
“Gra-zie” La risposta stentata e boccheggiante, manca solo la schifida bavetta di lato.
“Si figuri” Espressione radiosa. E il crudele ritorno della lucida consapevolezza di essere un inguaribile cacasotto.





Il barbone con l’espressione da maniaco sessuale è tornato.
Non che sia realmente un barbone e non è detto che sia un maniaco sessuale, anche se l’espressione che a tratti gli si appiccica in viso lascia poco spazio ai dubbi, tuttavia gli abiti che indossa, i capelli sparsi alla rinfusa nelle direzioni più disparate alla stregua di schegge impazzite, perfino l’atteggiamento, trasandato... quante gliene tocca vedere, di prima mattina. Per questo ha con sé i suoi libri di algebra e trigonometria, roba del liceo, non troppo leggera e non troppo impegnata, giusto il necessario per impedirsi di prendere atto del degrado cui quel luogo è andato soggetto nel corso degli anni. Per un lungo periodo di tempo ci è riuscito, a ignorare il brusio da mercato del pesce e l’avvilente spettacolo delle macerie della società, si è imprigionato tra formule e figure e diograzie l’ha scampata! Ma nessuno si salva definitivamente la pelle e arriva il giorno in cui l’incanto matematico svanisce, la discarica è stracolma di rifiuti e tlack! I lucchetti saltano e tu sei ricoperto di liquame e putridume, e ti chiedi come diamine sia possibile sostenere che le formule matematiche, quelle stesse formule matematiche ai tuoi occhi così rigide e perfette, possano stare, secondo l’opinione di alcuni, a fondamento di una realtà tanto disomogenea, una realtà-colabrodo che fa acqua - ma forse urina sarebbe più pregnante - da tutte le parti.
Non c’è nulla di matematico in un tizio che prende a frequentare il tuo stesso bar e ti fissa in cagnesco. Nulla di perfetto in un idiota che sbircia le tue letture e se ne ritira visibilmente disorientato, credendosi inosservato. Senza contare quelle repentine risalite in superficie di pensieri all’apparenza poco casti... Neji socchiude momentaneamente il libro, sospira in maniera impercettibile mentre con una mano si massaggia il lobo frontale.
Sono giorni, ormai, che il candidato clochard (già vincitore dell’ipotetica competizione, nella sua mente) si aggira nei paraggi, da solo o in compagnia di un bestione di non saprebbe dire quanti chili che lo attende all’ingresso, quando lui entra nel bar - e che ancora Neji non riesce a crederci ma dimostra un certo contegno, a differenza del proprietario, e ha il pelo meno arruffato. Tra i due il problema non è il cane, decisamente no, per quanto la mastodonticità dell’animale non lo lasci indifferente; il problema è quel disadattato del padrone che invade i suoi spazi, si va a sedere sempre allo stesso tavolo, ordina sempre la stessa cosa e lo fissa, diamine, lo fissa! Da quanto tempo nessuno lo fissa? Beh, a parte Hinata, anche se sul posto di lavoro è troppo impegnata per prestargli le consuete attenzioni. Di punto in bianco uno arriva e lo fissa, e quel che è peggio è che si crede al sicuro, il luminare dello spionaggio, ostenta la sua somma indiscrezione perché non si sospetta - e quindi perché mai un altro dovrebbe sospettarlo? Persino adesso Neji avverte i raggi X provenienti da quelle iridi di terra sporca (clochard fino al midollo) trapassargli il cranio e basta, non tollererà quel compiacimento da scimpanzé che ha appena spulciato il compagno ignaro e dormiente ancora una volta, nossignore!
Lo guarda? Che lo guardi! Lo guarderà anche lui. E Neji è ben conscio di quanta caga, con questo gesto, è solito introiettare nelle persone, ci è abituato e quasi quasi non gli dispiace, che Aspirante Clochard (ormai è divenuto un vero e proprio appellativo) se la faccia nei pantaloni, perciò chiusura definitiva di ‘Fondamenti di trigonometria’ e la testa scatta verso l’alto, inesorabile; ciò che legge negli occhi dell’altro è smarrimento, confusione distillata, “l’amico scimpanzé si è svegliato mentre ci si accingeva ad allungare una mano verso i suoi parassiti e meglio andarci piano, potrebbe essere ragionevolmente incazzato!” Gode, al solo pensiero, gode veramente e un angolo della bocca gli si inarca in automatico a comporre un semi-ghigno sprezzante - oh, da quanto non si imbatteva in un godimento simile!
L’espressione dell’altro muta, passa dalla confusione all’incazzatura - vuole fare a botte? Con comodo, faccia pure, non sarà di certo lui a farsi male. Neji pregusta già la scena, se la gira e rigira sul palato quando Hinata si avvicina a Clochard Imbecille, l’aggettivo è di recentissima attribuzione, e gli porge il solito, scialbo, caffè senza zucchero.  La sua Hinata, dalla pelle lattea e l’anima ancor più candida, che si avvicina al più rozzo e malvestito idiota della storia, inconsciamente sedando un tentato suicidio in via di definizione (perché quello avrebbe significato una lotta contro Neji, una lotta insensata contro i mulini a vento), e gli sorride.
A questo punto accade il fatto curioso: lo scimpanzé rimpicciolisce! E’ appena un cucciolo e si esprime a stento, si immobilizza e Neji ha la certezza che, ammettendo che si ritrovi in possesso di un cervello, il suo cervello sia attualmente annebbiato. Sollievo, perché deve confessare a se stesso di essersi più volte incluso tra i possibili destinatari di quelle reviviscenze da pervertito al cubo; sudori freddi, perché infine il destinatario preciso, la destinataria è saltata fuori. E oltre la sospetta vocazione voyeuristica Neji legge qualcosa che lo turba ancora di più, un problema in itinere che se non frenato potrebbe farsi grosso quanto un grattacielo ed è decisamente troppo presto, lui non è pronto. Lei, non è pronta.
Un sospiro greve. L’idea lo ripugna, ma dovrà scambiare quattro chiacchiere col clochard.





Ormai è sera, Kiba passeggia per le strade della città con Akamaru al guinzaglio.
I lampioni lo accecano, segno che è davvero molto più tardi del consueto, ma la vescica di Akamaru ha resistito (inspiegabilmente resiste tuttora) e del resto l’unica cosa che a lui importi è il violento spiaccicarsi della suola delle sue scarpe contro l’asfalto, la ripetizione del rumore che distrae, da una certa figura da scemo, ad esempio.
Ma il tanfo di Akamaru non aiuta, lo rimanda al desolante scenario di quella mattina - e come diamine ha fatto a sporcarsi così in fretta? Cristo santo, l’ha lavato appena due giorni prima! E che lui sappia l’erculeo maremmano non è stato al parco, né per cassonetti, né tantomeno ha potuto provvedere al proprio olezzo disarmante in casa, dal momento che le prime settimane trascorse in quella sorta di ripostiglio stracolmo in cui doveva essere esploso un discreto numero di bombe a mano erano state dedicate agli stracci, a una serie di detergenti/detersivi/disinfettanti dai nomi improponibili e a un paio di guanti in lattice che Kiba aveva finito per fare a pezzi in preda a un attacco isterico, giunto alla quarta ora di filata del suo novello incarico da brava massaia.
Perciò non riesce a capacitarsi di come accidenti sia riuscito, Akamaru, a rendersi tanto nauseante! Soltanto per un secondo ha indulto al pensiero di un’allucinazione olfattiva, una proiezione mentale degli insulti autoindirizzatisi nel corso delle dodici ore trascorse tra il fattaccio, la subitanea fuga a testa bassa in stato di trance e il ritorno alle mura domestiche, si è persino annusato con la costernazione di chi non sa se credere a quello che sta facendo. Poi Akamaru gli è corso incontro e il tanfo si è fatto opprimente, e Kiba ha suggellato il coronamento della giornata di merda con un gemito prolungato.
E adesso sono fuori che macinano metri e metri di catrame perché Kiba è rientrato a un orario insolito e non aveva voglia di indossare i panni dell’annaffia-cani, non subito, pietà, necessitava di una tregua, perciò via! Per strada, uno e due, entrambi in condizioni pietose, senza possibilità di stabilire una classifica di (de)merito, rispettivamente un corpo e un’anima in putrefazione.
“Senti, Akamaru, perché ti tengo?” E il cagnone bianco lo scruta con due pupille di inchiostro che sono quelle di chi ha capito tutto, di chi ha la certezza che senza di lui non ce la faresti perché “Andiamo, te la sei data un’occhiata?” e tuttavia non te lo fa pesare, ha l’espressione languida di chi ti sta accanto perché ti ama veramente, natura disastrata annessa...
“Scusa” E nel pronunciarlo il petto gli si gonfia di emozione, ha le sacche lacrimali che sono sul punto di cedere. “Non appena siamo dentro ti rimpinzo di croccantini e il bagno si rimanda a domani, non mi importa se puzzi da far schifo. E puoi dormire sul letto” Akamaru scodinzola in segno di gratitudine e per la prima volta nell’arco della giornata Kiba si sente colmo di sollievo e spensieratezza. Ormai sono in prossimità del portone, Kiba estrae il mazzo di chiavi dalla tasca dei jeans sgualciti e sta per infilarne una nella serratura, quando si sente appellare in maniera assai confidenziale ma in tono molto poco conciliante: “Hey, tu!”
Chi diavolo...
Il braccio fa appena in tempo ad abbassarsi che un tizio gli si para a neanche dieci centimetri di distanza, lunghi capelli castani e occhi pallidi fuori dal naturale.
Ma certo, è in questa città da troppo poco tempo per essersi fatto degli amici, ergo si tratterà dei nemici. “Ah, Lo Stronzo dei Libri Spocchiosi!”, esclama. No, non si trattiene, all’improvviso un impulso bestiale gli risale da un qualche punto nel groviglio delle viscere e non ha intenzione di frenarlo. “Qual buon vento?”
L’altro trasale, forse non si aspettava una reazione tanto direttamente brutale, ma è questione di secondi. In men che non si dica rimette su la maschera dello stronzo supponente, quella che gli si adatta così bene, e soffia “Che vento non lo so, ma a giudicare dall’odore non deve essere buono”. Gli occhi gli vanno da Kiba ad Akamaru, da Akamaru a Kiba. Kiba si impone di cominciare a caricare i pugni. “Comunque...” e una sottile ruga fa capolino al di sopra del setto nasale, non si saprebbe dire se di preoccupazione o di nervosismo misurato “sono qui per parlarti di una persona. Un’amica comune.”
“Un’amica comune”, il modo in cui l’ha detto!
Kiba stringe ulteriormente le nocche, ha come la netta impressione che ci sarà da incazzarsi.





“Calma, Neji, ripetiti che lo stai facendo per una ragione valida”, si recita come un mantra, allo scopo di oscurare l’immagine di due pugni chiusi. Perché le vede benissimo, le tasche rigonfie, lo avverte benissimo il ringhio gutturale che sul momento ha pensato provenisse dal cane, da quel bestione, e invece no, viene dal padrone - ha spirito d’osservazione, lui! Una condanna atroce, senza ombra di dubbio, se abbinato come nel suo caso a una pazienza microscopica.
“E’ per Hinata. E’ esclusivamente per Hinata.” E intanto lo sguardo gli vaga su un paio di jeans del probabile anteguerra, su una maglietta di un grigio tenue che non è più sicuro sia il suo colore naturale, su una felpa nera, sempre la stessa, con le toppe marroni sui gomiti... dio, che abominio! L’istinto è di portarsi il pollice e l’indice al centro della fronte, a sostegno del malessere psichico causatogli da quell’improponibile accozzaglia cromatica, ma non lo fa, mantiene il controllo, punta il suo celebre sguardo da “te la faccio fare sotto” negli occhi dell’avversario ed esala, chiamando a raccolta quella che gli sembra l’intera riserva della propria scarsa calma: “Tranquillo, nulla per cui agitarsi.”
“Oh, invece io mi agito, mi agito eccome!” Prorompe il presunto barbone in assetto da barbone. “Stamattina mi guardi all’improvviso con aria di sfida, da perfetto stronzo - sì, penso proprio che tu sia uno di quegli stronzi laureati, uno con la laurea in stronzologia per le mani già al momento della nascita! -, adesso te ne vieni qui con questa storia dell’amica comune e... checcazzo!” Il flash rivelatore. “Non mi avrai mica pedinato?”
“In effetti no, mi sono limitato ad attenderti nei paraggi.” La nuda, sconcertante verità.
“Attendermi? Ohpporc... e non bisogna agitarsi, dice! E da quanto? Cristo, se la questione puzza...” E a questo punto Neji non può impedirsi di esplodere in una risata che, se la laurea in stronzologia ancora non ce l’ha, gliela fa guadagnare lì su due piedi, honoris causa.
“Puzza?” Il tono è volutamente sarcastico. “Da quale pulpito! Di’ un po’, sei tu o lui?” Crudele scanner che trapassa sia il canide che l’uomo da parte a parte.
“Scusa?”
“L’olezzo, l’effluvio ributtante, il tanfo pestilenziale, le fogne che risalgono in superficie e prendono possesso del circondario, sei tu o è lui?” Pausa ad effetto. “Perché all’inizio credevo si trattasse di lui, ma alla luce di un’accurata analisi delle vostre rispettive presentazioni... beh, l’animale vince.”
“Senti un po’, lurido-“
“Risparmiamoci i convenevoli, non sono qui per disquisire sulle consuetudini igieniche del tuo bizzarro quadretto familiare.” Neji sa di rendersi odioso, uno a cui ci si concederebbe volentieri lo sfizio di spaccargli la faccia, ma è sicuro di sé e, soprattutto, ha una missione da portare a termine. “Sono qui per Hinata: gradirei che la lasciassi in pace.”
“Hinata?” Il volto dell’altro è di un rosso acceso, simil lapillo schizzato nel cielo. “Di che accidenti stai blaterando?”
“Ah, già. Probabilmente per te sarà qualcosa come “la ragazza carina che serve il caffè”, “la tipa del bar” o “la prossima conquista”, nella speranza che tu ti sia mantenuto sul genere soft.”
Il rosso del lapillo sfuma velocemente nel roseo dell’elaborazione, devia verso il giallognolo del dubbio e confluisce, infine, nel bianco mortifero della colpevole certezza.
“Sì, ho notato il modo in cui la guardi” Neji prosegue, implacabile “e non mi è sfuggita nemmeno la tua incredibile proprietà di eloquio, se posso permettermi: gra-zie. Un’orazione magistrale!”
“Taglia corto, che accidenti vuoi?”
“Prima le dovute presentazioni. Io sono Neji, tu...”
“Kiba.”
“Ti ringrazio. Chiamarti Clochard e allegarci di volta in volta un aggettivo era un giochetto che stava cominciando a stancarmi.” Impercettibile scricchiolio di dita, Neji deve ammettere che la parte del bastardo non lo disgusta affatto, ci si è sempre sentito a suo agio. “Per rispondere alla tua domanda, Kiba, l’accidenti che voglio è questo: lascia in pace Hinata.”
“Altrimenti?”
“Altrimenti...” Serio tentativo di riflessione smorzato dalla constatazione dell’accaduto. “Neanche ci conosciamo e sono arrivato di fronte a casa tua. Immagina dove potrei arrivare con qualche informazione in più.”
“Senti” Adesso Kiba ha raggiunto il limite della sopportazione. “Neji, o Stronzo Siderale, o Chessoio. Non mi importa un fico secco di dove arrivi, se entri in casa mia e se ti ritrovo che usufruisci della tazza del cesso, fa’ pure” Le unghie delle mani sono scomparse, assorbite da un involucro di carne in attesa dell’impatto contro una guancia estranea, nella migliore delle ipotesi. “Ciò che non tollero è che tu ti presenti qui, con un atteggiamento da boss della malavita e pretendi che si faccia come cazzo ti pare; beh, scordatelo. Continuerò a frequentare il bar, continuerò a fissare la ragazza del caffè - sì, è così che la chiamo, ‘Ragazzadelcaffè’ - e adesso che conosco il suo nome magari ci parlerò perfino, decentemente e a lungo, con la ragazza del caffè!” Appena un accenno di imbarazzo per l’inattesa, spontanea professione di incompetenza. “Chiaro?”
“Hinata sta attraversando un periodo particolare, ha bisogno di tranquillità. E’ il mio ultimo avvertimento.”
“Sai dove te lo puoi ficcare, il tuo avvertimento?” Gesto esplicativo.
“Vedo che proprio non ci si vuole accordare da signori” Neji sospira brevemente, prima di riappropriarsi della consueta fermezza glaciale. “D’accordo. Il tuo cane è più saggio di te, oltre che munito di maggiore compostezza.” In effetti Akamaru è immobile, muso basso e posizione seduta, un tronco di legno esemplare. “Allora a presto, Kiba.” Neji inarca appena le labbra, sprezzante, prima di voltare le spalle al suo interlocutore.
“Hey, un attimo! Perché tutte queste moine? Questa ridicola pagliacciata? In che rapporti sei con Hinata?” Sotto le ceneri della domanda scoppiettano i tizzoni vivi dell’interesse.
“Questo non è affare che ti riguardi” Secco, senza girarsi, la secchiata d’acqua sulle braci.
L’ultima cosa che Neji avverte, prima di scomparire in una delle molteplici viuzze laterali, sono le imprecazioni di Kiba in sua direzione. E quelle in direzione del cane.
“Scordati i croccantini. E tu e il tuo grosso culo peloso preparatevi a ibernare sul pavimento.”





E’ mattina, lui è di nuovo al bar e occupa il solito tavolino.
Ma non ha ancora ordinato e lo stomaco è preda di fitte lancinanti per via della nottata da incubo. Alla fine Akamaru è stato nutrito, Kiba non sa resistere alle orecchie basse e ai mugolii affranti, lui e il Colosso di Rodi in versione canina sono cresciuti insieme e tanto basta per farlo rincitrullire, gli ha addirittura concesso di distenderglisi accanto sul materasso a una piazza e mezza! Con l’unico esito di ritrovarsi, all’alba, cosparso di bava di cane che ha inzuppato entrambi i cuscini... gli ci è voluta una doccia coi fiocchi, per liberarsene. E per liberarsi del cattivo odore di cui Akamaru l’ha circonfuso, in pendant con il ristagno dell’aria nella camera! Non l’ha ancora lavato, ma la prima cosa che si ripromette di fare una volta rimesso piede oltre la soglia è afferrare un tubo di gomma e puntarlo addosso al suo torbido compagno, a costo di allagare l’appartamento.
E’ che al momento è troppo scosso, troppo fuori di sé, troppo provato.
La cosa più terribile di quelle ore infernali non sono state le mani doloranti per via dell’incazzoso impatto contro le ante dell’armadio in mogano, né l’afrore soffocante di Akamaru, né il vorticare dei discorsi schizoidi di Neji nella testa fino a tarda ora... no, la cosa più terrificante è che l’ha sognata.
Un sogno erotico!
Ha fatto un sogno erotico su Hinata.
E si è svegliato qualche ora dopo aver preso sonno con un’erezione di cemento. Anche per questo la doccia è stata prolungata. Svuotarsi, raffreddare quei bollori sghignazzanti. Perché è ovvio, che si tratti di una presa per il culo: uno non ti ammonisce dall’avvicinarti a una ragazza la sera prima, e neanche otto ore dopo tu sei lì che sogni di andare ben oltre l’avvicinamento, e ci vai! Oh, come ci vai! D’accordo il suo spirito ribelle, la sua voglia di sfidare l’autorità e di abbattere le barriere precostituite, d’accordo, ma una cosa così non la si dimentica in fretta! Un’ora e venti di doccia.
E ti vergogni come un ladro, sei in un bar da quindici minuti e hai bisogno di parlare con quella ragazza, ora più che mai, sia perché l’hai promesso a te stesso, che non la darai vinta a quel coglione di Neji, sia perché questa storia del non riuscire a spiccicare due parole in croce per l’emozione sta diventando ridicola, sarebbe ora di smetterla, ma ti guardi le gambe e quelle restano immobili, unica reazione al groviglio di sensazioni rimbalzanti. E non hai nemmeno la forza di chiedere un caffè. Uncaffè, tutto attaccato, sparato d’un fiato per rompere il ghiaccio, “perfavoreuncaffè” e poi il resoconto dettagliato delle vostre vite, massì, quello che viene da sé in ogni film melenso degno di questo titolo... se solo ci fosse Neji. Kiba è sicuro che il desiderio di colpirlo nel cuore della sua supposta autorevolezza gli metterebbe due razzi ai piedi, lo trasporterebbe di volata fino al bancone e lo spingerebbe addirittura a prodigarsi in battute cretine, le migliori del suo repertorio da corteggiamento, quelle che o la va o la spacca, o la ragazza ridacchia, impietosita e al contempo intenerita dalla tua stupidità, o ci rimetti qualche dente, se tutto fila liscio. Ma Neji non c’è, non è ancora arrivato e Kiba fissa quei due bastoni inerti che sono le sue gambe, chiedendosi se per caso Neji non intendesse questo, con avvertimento, attento che ti faccio tremare e sudare freddo per l’agitazione lasciando il compito a Hinata. Ma è ridicolo, Neji non può sapere fino a che punto lui sia un cacasotto! Non può indovinare né prevedere il contenuto dei suoi sogni!
O forse sì?
E’ lì che tenta di sottrarsi a questa assurda paranoia, quando una mano bianchissima si posa sulla sua. E la mano domanda, con la voce di Hinata - il nome è esattamente come lo aveva immaginato - : “Ti va di ordinare?”
No, fa Kiba, scuotendo meccanicamente la testa.
“Va bene” Sorride lei, e le fitte allo stomaco si moltiplicano per un miliardo. “Allora che ne diresti di parlare un po’? I clienti sono pochi e li ho già serviti.” E mentre prende posto su una sedia, slacciandosi il grembiule della divisa, gli punta addosso uno sguardo opalescente che a Kiba ricorda subito un esserone bianco, dal pelo arruffato e dalla sapienza sconfinata.
Hinata sa tutto.
Hinata ha due occhi che sono il concentrato della comprensione profonda, emblema dell’istinto e del mistero.
“Io mi chiamo Hinata, e tu?”
Come se già non lo sapesse.





Hinata non lo sa. Hinata è una ragazza comune, ha solo una percentuale di empatia e un sesto senso leggermente al di sopra della media. Il che le basta a intuire, in una serie di brividi freddi che le scuotono le braccia e di sassolini immaginari incastrati in gola, quando qualcosa non va.
Il Ragazzo dal sorriso gentile è comparso diversi giorni addietro e da quel momento non ha più smesso di frequentare il bar in cui lei lavora come cameriera. Nulla di male, sorvolando sui momenti in cui a Hinata pare che quegli occhi di un castano intensissimo e terribilmente vivi indugino in un’immobilità imbarazzante e fuori dal tempo sulle sue magliette sformate, nel punto esatto in cui si trova il seno; allora le mani le tremano per qualche secondo e un leggero calore le sale alle guance, mentre il cuore e il cervello le sprofondano in un punto imprecisato del corpo, quello in prossimità del grembo in cui è ancora rannicchiata in posizione fetale, immersa nel liquido amniotico e cullata da strane nenie, madre iperprotettiva di se stessa.
Ma è un istante e subito ritorna al brusio della realtà circostante, alle proprie dita affusolate da donna che la rimandano alla propria età, un’età lontana dai pugnetti grassottelli in cui si tenta di racchiudere il mondo, dalla confusa vergogna euforica dell’essere visti, quella vergogna che a tratti si tramuta in paura (“Non mi guardare perché potrei fallire, perché quando mi guardi rimpicciolisco e corro il rischio di svanire”); un’età in cui il signor Imbarazzo, in una stramba tenuta da pittore invasato, può ancora mettersi a dipingere sul tuo viso con quell’unico pennello imbrattato di rosso, ma tu riesci a passarci sopra la tua manata di bianco. E lui si infuria e ti promette che tornerà, però scompare fino alla prossima volta e tu sei soddisfatta del tuo operato e lo saluti sorridendo, il tuo inquilino in letargo autodefinito e fino a data da destinarsi - uno dei tanti.
Quando Hinata si riappropria della realtà, del proprio essere, dell’aroma di caffè che impregna l’aria e i tavolini immersi in un chiacchiericcio quasi musicale, il Ragazzo dal sorriso gentile ha addosso il suo solito sorriso gentile, scruta il suo caffè ed è assorto in un pensiero, un pensiero che a Hinata piacerebbe tanto cogliere, dacché il risultato è l’illuminarsi di un volto, anche se di nascosto e per una frazione di secondo irrisoria. Però c’è. E c’è anche che Hinata è timida, non più a livelli adolescenziali ma a tratti ancora fa fatica, ha bisogno di tempo; di adattarsi al costume che sega le natiche, alla rampa che scivola, all’acqua troppo calda o troppo fredda, prima di lanciarsi dal trampolino. Così niente, si limita a sorridere, a non opporre resistenza, a rigirarsi tra le idee quel nomignolo, “Ragazzo dal sorriso gentile”, mentre se lo lascia scivolare dentro, il sorriso di lui, e si ripete che un giorno il nomignolo svanirà. Un giorno, quando anche la cuffia e gli occhialini saranno al proprio posto e lei avrà inspirato forte prima dell’impatto con l’acqua. Un giorno...
Ma arriva sempre prima di quanto ci aspettiamo, un giorno, gli occhialini sono attorcigliati a mo’ di cappio intorno al collo, le ciabatte sono ancora ai piedi e la cuffia salta via, mentre qualcuno ci spinge giù dal trampolino e il nostro corpo fa splash, affondando in una pozza di azzurro e riflessi bianco-violacei delle mattonelle sul fondale. Neji. A spingerla è stato Neji. Perché li ha notati, Hinata, i piccoli fulmini dagli occhi di perla verso gli occhi di terriccio, ha notato il manico di una tazzina e la copertina di un vecchio libro di algebra stretti in maniera inusuale e le è venuto quasi da correre in soccorso di quei poveri oggetti momentaneamente umanizzati in procinto di perdere qualche arto - non ha osato immaginare quale. E ha notato che un giorno in cui ancora la tazzina non era al suo posto una mano si è riavvolta pericolosamente su se stessa, mentre un’altra si è rilassata come se di lì a poco non dovesse affrontare una tempesta, bensì una piacevole scampagnata. Così si  è affrettata a condurre quella tazzina dal suo proprietario temporaneo e ha interrotto il contatto visivo tra i due - la sua ordinazione, grazie, prego, ristabilimento della calma. Eppure, appena tornata dietro il bancone con un sospiro da maestra d’asilo che ha appena sventato una lite, ha osservato Neji di sottecchi e un sassolino ha fatto la sua graffiante comparsa proprio al centro della glottide. Perché?
Glielo ha chiesto, quando è rientrato a casa dopo una giornata intera che non si faceva vivo, lui ha schivato l’assalto, le è sembrato stanco, “Ho risolto un problema che andava avanti da un po’ di giorni”, ha buttato lì, con un accenno di quella premura in eccesso che le ha fatto aumentare il numero di sassolini nel canale fonatorio. “Non preoccuparti di nulla”, e invece Hinata si preoccupa. Proprio in virtù dell’esortazione a non preoccuparsi, paradosso da interrogativo universale, e dello spontaneo affiorare nella sua mente di un ragazzo dagli arruffati capelli castani, seduto al solito tavolino ma con tutta probabilità nient’affatto sorridente, la mattina dopo.
Così, quando la saracinesca del locale viene tirata su e passa mezz’ora e nessuno compare, passa un altro po’ di tempo e il ragazzo compare (con due occhiaie da incubo e quasi sospinto da una forza sovrannaturale) ma niente Neji all’orizzonte, beh, Hinata si lascia spingere giù dal trampolino, sperando che tutte le pietruzze accumulatesi dentro di lei dal giorno prima non la trascinino verso il fondo, prima ancora che un qualunque grido di una qualunque emozione possa emergere dalla sua ugola. E’ questo, il prezzo del muoversi: l’oblio dell’intelligenza, il rischio più idiota, la fede nei macigni interiori di granito che si tramutano in pietre pomici, e qualche volta accade. Inspiegabilmente, accade. E Hinata avrebbe tante cose di cui chiedere conto all’Emblematico Essere che li ha creati, ma adesso domande più pratiche necessitano di una risposta e del resto un simile incontro meglio rimandarlo a data da destinarsi.
Perciò eccola azzardare dei passi verso Sorriso Gentile Adombrato, sfiorargli una mano con la sua, premurarsi del caffè non ordinato, andare oltre le salvifiche frasi di circostanza e arrivare al dunque. Eccola sedersi accanto a lui mentre cade da non si ricorda più quale altezza, eccola ritornare stupefatta a galla con sulle labbra il quesito di ogni nuovo inizio: “Io mi chiamo Hinata, e tu?”
E Kiba, così lui dice di chiamarsi, si tramuta in lei in maniera inspiegabile. Boccheggia, perché al “Ki” segua il “ba” è necessario un lunghissimo istante in cui Hinata lo osserva farsi paonazzo, come se in gola avesse i rimasugli di una montagna franata, altro che innocui sassolini da spiaggia ammonticchiati! Ma lei non si scoraggia, attende, sa che spesso lo spezzarsi dei silenzi vale le attese, per cui si limita a distendere le labbra rilassandosi, dal tuffo si è ripresa alla grande e ora aspetta che si riabbia anche lui, anche se a giudicare dall’espressione deve essere caduto da più in alto e di pancia, tanto per non uscire di metafora.
Ce la fa. Alla fine anche Kiba ce la fa. Pronuncia la seconda sillaba del suo nome e prorompe in una risata commista a guazzabugli di parole isolate, evidentemente pensate per comporre delle frasi logicamente connesse ma che non riescono nell’intento. Poi si acquieta, inala ossigeno, inizia a parlare secondo delle regole, in maniera comprensibile. E Hinata lo segue a ruota, lieta di aver atteso, lo segue in un monologo a mo’ di fiume in piena in cui finisce per smarrirsi, lasciarsi trascinare dalla corrente verso una destinazione ignota che sa di caos tiepido, un universo al contrario che in un tempo che non ricorda più deve aver sperimentato - la pancia non mente.
E’ lo stesso Kiba a riportarla alle circostanze presenti, sobbalzando nervosamente al rumore della porta del locale che si spalanca per lasciar uscire un cliente.
“Scusa, pensavo fosse...”
“Neji?” E pare che la sua domanda lo abbia colpito con violenza da qualche parte, perché lui sbarra gli occhi e “Sì”, risponde, senza tuttavia concedere ai propri bulbi oculari il piacere di rientrare nelle orbite. “Lui... voi... oh, al diavolo!” Ed è la prima di una lunga serie di esclamazioni firmate Inuzuka che Hinata è certa sentirà spesso, d’ora in avanti. Al pensiero sorride bonariamente e Kiba un po’ si placa, forse lottando contro il suo personalissimo signor Imbarazzo, prima di soggiungere “Sì, insomma... in che rapporti siete? Perché ieri sera me lo sono ritrovato sotto casa a minacciarmi di ‘lasciarti in pace altrimenti’! Non che l’idea mi susciti particolari timori” ghigno beffardo a riconferma dell’affermazione “ma...” mano dietro la nuca e occhi altrove - deve smetterla di prodigarsi in queste irruzioni fuori programma, signor Imbarazzo! - “ecco, sono in pensiero per te.”
Quell’infida tavolozza monocolore all’assalto delle guance!
Hinata sorriderebbe appena della buffa tenerezza del momento, se solo non fosse troppo impegnata a sbigottire. “Neji è... mio cugino” Prorompe, computando le lettere a fatica perché il suo cervello è ancora in movimento, nel tentativo di collegare la variegata serie di informazioni appena ricevute. Si aspettava che tra i due qualcosa fosse successo, certo, la notte prima ha addirittura contemplato l’idea del pedinamento di Kiba da parte di Neji e di una successiva lite, una frattura da ricomporre con delle scuse da parte di lei e delle adeguate spiegazioni che magari avrebbero funto da collante, magari avrebbero creato dei legami e liberato da determinati fardelli, da determinati problemi. Ma non si aspettava che IL problema fosse quello.
“E’ mio cugino” Ripete, mentre fissa un punto imprecisato sul dorso della propria mano in un tentativo di riflessione e Kiba la scruta apprensivo - evidentemente madame Preoccupazione deve aver appena condotto una delle sue scorribande sulla sua cute e averle lasciato in regalo il colore mortifero dei sudari. “E...” Lasciarla in pace: non può credere che parta tutto da quello! Che da quell’apprensione immotivata, irreale, si biforchino così tanti condotti, una serie di inspiegabili assurdità di cui soltanto adesso coglie il senso. Otto mesi, dio, otto mesi! Se solo l’avesse capito prima...
Lo stomaco si contrae, le manda nuovi segnali, gli occhi bruciacchiano appena e qualcosa pizzica, qualcosa di simile a delle cupe percussioni le scombussola il petto, ma adesso forse sa cosa fare. Punta i suoi occhi di latte in quelli di Kiba, che hanno il bagliore tremante del turbamento sincero, del tentativo di nasconderlo perché va tutto bene, va tutto bene e per primo devo fartelo capire io, che va tutto bene (le basi dell’affetto, dei legami inossidabili. Si conoscono da sì e no un’ora ma quel bagliore non mente), ed esclama con fermezza: “Stasera, alle otto. Ci sono delle questioni che devo risolvere e ho bisogno del tuo aiuto. Qui, fuori dal bar. Te ne sarei infinitamente grata” E china il capo, rendendosi conto dell’enormità della richiesta, della sua insensatezza e dell’effetto ‘fulmine nel bel mezzo del cielo limpido’ - dell’enormità della richiesta e del bagliore elettrico che squarcia l’azzurro proprio in virtù dell’insensatezza.
“Va bene” Due iridi castane le si immobilizzano sulla nuca, con una tale concentrazione e inusitata serietà che a Hinata, il collo appena sollevato, pare di non riuscire a muoversi di un ulteriore millimetro. “Senza spiegazione alcuna. Va bene.”
Hinata non è certa che il sentimento di sollievo che le si fa largo all’altezza del torace sia soltanto gratitudine; nelle iridi di lui c’è qualcosa di millenario, quel caos tiepido (o tepore caotico, adesso non saprebbe più dirlo) che rimembra vagamente e che chissà quale parte di lei avverte come proprio - il riposo dell’anima, un paio di calzini sui piedi gelati, il confortevole altrove momentaneo che ti consente di sopportare il presente -, ma gratitudine è l’unica sensazione traducibile in parole: “Grazie. Prometto che saprò come sdebitarmi.”
“A tal proposito” soggiunge Kiba, con nella voce una nota di divertimento appena maliziosa e tuttavia sinceramente rassicurante “un suggerimento ce l’avrei. Una sera in cui ci troviamo alle otto, io e te, senza patemi d’animo e casini da risolvere. Una cena tranquilla, una passeggiata con Akamaru al guinzaglio e... magari un gelato con cui finirò per imbrattarmi la faccia. Un imprevisto lungo il percorso, qualcosa che testimoni per l’ennesima volta della superiore intelligenza del mio cane rispetto alla mia” Un sospiro rassegnato accompagnato da un gesto di congedo con la mano, come a voler scacciare in fretta il pensiero indesiderato ma presumibilmente realistico, considerata la consistenza del sospiro. “Qualcosa di divertente, insomma, che ci faccia dimenticare l’atmosfera da tragedia che ho come il presentimento ci riserverà questa serata. Concordi, Hinata?”
Hinata si augura con tutto il cuore di non arrivare a sfiorare la tragedia, comunque concorda. Ha proprio voglia di ridere di gusto, come non le succede da un po’, di trascorrere del tempo in compagnia nella più totale imprevedibilità, nella freschezza delle preoccupazioni bandite, dei legami in formazione. La risposta è un cenno di assenso, accompagnato da un sì appena udibile e da un sorriso che, quasi a mo’ di compensazione, è fermo, e radioso, e pare enorme - troppo, per Kiba, che impiega cinque minuti buoni a ridurlo mentalmente a dimensioni accettabili, quelle necessarie a non farlo passare per un pesce rosso lobotomizzato.
“Perfetto” Soggiunge, ancora in fase di recupero, ricambiando il sorriso. “Allora andiamo a smorzare un po’ tutto questo entusiasmo! Per recuperarlo in seguito dovremo perderne davvero tanto.”
E Hinata trema internamente, ma non ha paura.




Le otto di sera sono un orario pessimo.
In sostanza perché il suo lato spavaldo è stato così bravo al mattino che Kiba non ha dubitato neanche per un istante della possibilità che venisse spazzato via da un marasma di ansiogene contorsioni intestinali durante il pomeriggio. E magari avesse aspettato il pomeriggio!
Invece no, è bastato fare ritorno dalla piacevole chiacchierata con in volto una maschera di ebetudine più salda di ogni nebulosa preoccupazione, chiudersi la porta dietro le spalle ed eccola lì, la maschera che crolla, la sensazione di terrore cosmico che ti pervade ogni piega del cervello, i neuroni disattivati da una sequela di immagini catastrofiche: Hinata che in realtà è in combutta con Neji e il problema da risolvere è lui, la soluzione il suo decesso! Ma no, no, nei primi minuti della loro conversazione si è dimostrato a tal punto imbelle che, se quello fosse stato il suo scopo, Hinata non avrebbe esitato a stroncarlo, sarebbe bastato un altro di quei dannati sorrisi gigantopici a fermargli il battito cardiaco - dio, perché deve essere così mollaccione? Perché deve avere le sinapsi facili all’intorpidimento?
O magari no, il bar era affollato e loro, il terrificante duo dagli occhi candidi, non vogliono testimoni. Così Hinata è stata mandata in sopralluogo, a tendere la trappola, mentre Neji è rimasto a preparare gli strumenti del mestiere - avrebbe dovuto capirlo, che qualcosa non andava!
Tutte queste paranoie da bambino di otto anni dopo la visione di un film horror (“Non ho paura, io!” e la nottata trascorsa nel tentativo di non far esplodere la vescica perché col cavolo, che ci si alza per raggiungere il bagno in quell’oscurità da maniaci assassini muniti d’ascia) mentre si regge la pancia, che ha preso a mandargli insonori ma dolorosi segnali, e dinnanzi alla profonda costernazione di Akamaru, la coda bassa e scodinzolante, le pupille dilatate che sembrano voler comunicare compassione per lo stato febbrile del padrone: “Poveretto, davvero uno squinternato da pareti di ovatta, ma innocuo, vi giuro che è innocuo...”
“Beh, che hai da guardare? Non mi sembra che l’altro ieri tu ti sia comportato tanto meglio. Quello spocchioso a sproloquiare come un gangster e tu con la coda fra le gambe, bravo, complimenti!”
L’ha detto. L’ha detto davvero, al suo adorato bestione, poco prima di gettargli le braccia al collo e implorare perdono, chiedendogli il piacere di accompagnarlo, di non lasciarlo solo in balia dell’ignoto - al che Akamaru si è scostato e ha piazzato le sue enormi chiappe pelose su un punto del pavimento dal quale non si è più mosso, a discapito di improperi e lacrimevoli richieste. Akamaru non l’ha mai ignorato! Deve stare davvero male se persino il suo cane si rifiuta di consolarlo, e in effetti non c’è bisogno di quello, per prendere atto della gravità della situazione. Bastano i discorsi da schizzato, gli sbalzi di umore, le minacce e le lacrime - quanto deve, a quel povero animale! Quanto grande deve essere la misura della sua sopportazione! E in neanche mezza giornata Kiba l’ha colmata, si sente la più lurida feccia sulla faccia della terra.
Ma ha già sceso le scale, il tempo è volato e lui è per strada, la luce all’interno del bar è spenta e un oscuro presagio scaccia via ogni pensiero, eccetto la consapevolezza della propria impreparazione, il desiderio di chiudersi a chiave nel proprio appartamento e non uscirne fino a data da destinarsi; ma lo sguardo di Akamaru, quello sguardo di mesto rimprovero a perenne riprova della sua innata codardia, della sua natura fecale... no, non potrebbe sopportarlo! Così avanza, a passi di una lentezza esasperante, nel tentativo di recuperare la calma, calma che immediatamente va a farsi benedire nel momento in cui Hinata fuoriesce dal locale, Neji al seguito: la banda dagli occhi opalescenti! Chi potrà credere alla loro colpevolezza e alla sua innocenza?
Poi però Hinata sorride, abbozzando un cenno di saluto, mentre Neji scruta verso il destinatario di quelle attenzioni e sbianca, il cadavere in luogo del supposto seviziatore. E Kiba si rilassa, ricambiando il saluto e appena ghignando, il coraggio latitante ritrovato a seguito della consapevolezza di avere un’alleata. O perlomeno, non una nemica.





Non riesce a crederci.
Hinata, la sua Hinata, saluta quello zotico! E gli sorride, pure.
Quand’è successo? Quella mattina, dev’essere stato quella mattina. Ma credeva che il suo discorsetto sarebbe bastato! E che, del resto, quell’emblema di malcostume, quell’ammasso di stracci raffazzonati che gli si para innanzi si sentisse troppo in soggezione in presenza di Hinata, per dare inizio a una conversazione, o quanto meno per articolare una serie comprensibile di suoni! E’ stato assente per tre ore e l’universo si è capovolto: come accidenti è possibile che per giorni, mesi, anni sei lì che cammini per aria, i piedi saldamente ancorati all’insieme delle tue certezze e convinzioni, e poi bastano tre ore per ritrovarti col culo per terra? E tua cugina sorride a un imbecille?
Non lo sa, Neji, sa solo che quell’essere si avvicina con un ghignetto strafottente stampato in volto e che Hinata non guarda altrove, non si stupisce dell’errore (“Scusa, mi sa che hai sbagliato persona”), non chiede scusa per l’equivoco. E se c’è lei e lei è tranquilla Neji ha gli arti intorpiditi, non può fare niente, non può rischiare di farle del male - ti farai ancora del male, Hinata.
Ma non c’è più tempo. Kiba è già lì, Hinata ha appena terminato di abbassare la serranda metallica a protezione dello stabile e si è nuovamente voltata, i gesti circonfusi da un’aura di allegria che a Neji contorce le viscere, gliele intreccia come ciuffi impazziti di capelli. E lui è incatenato ai propri scrupoli di coscienza mentre quel bastardo continua a ridere. Se solo potesse farglieli saltare uno a uno, quegli stupidi denti...
Hinata, Hinata, che mi combini, Hinata?
Perché continui a camminare verso il baratro, perché non ti allontani? Non vedi che sei ancora troppo fragile?
Ma Hinata lo fissa, coi lineamenti pervasi da una determinazione che non le ha mai visto e che lo atterrisce, non sa se più per la novità, per il percorso fino alla novità che si è perso non si capisce come (perché a qualcosa di così intenso è impossibile che si arrivi da un giorno all’altro, è necessaria una lunga serie di rivolgimenti al di sotto della superficie che lui credeva di avere ben presenti), o per ciò che essa comporta. E la risposta non tarda ad arrivare, nella reazione alle parole di Hinata: “Sono contenta che ci siamo tutti. Dobbiamo parlare.”
E’ quel ‘tutti’ che incorpora con leggerezza un estraneo, quella necessità alla prima persona plurale che non è più una formalità linguistica in luogo di ‘io e te’, a farlo vacillare.





Tragicomica legge del cosmo, una fra le innumerevoli dello sgangherato mazzo: il momento in cui bisogna fare qualcosa è sempre il momento in cui si è meno pronti per farla. Indipendentemente da quanto a lungo ci si sia preparati, da ogni retorica dell’autoconvincimento, dal più illogico degli ottimismi: puoi trascorrere una giornata intera a ripeterti che per uscire in terrazzo ti tocca scendere uno stramaledetto gradino, ma nell’istante in cui esci davvero o ci incespichi in pieno per l’ennesima volta, la mente troppo presa da altri pensieri, oppure stai lì sulla soglia come di fronte a un ostacolo alto 30 metri (basso, nel caso sotto esame) e ti percepisci al centro delle lenti, dei binocoli, dei telescopi dell’intera popolazione mondiale, addirittura dell’insieme delle forze supere! Per cui qualche danno finisci per combinarlo comunque.
Ecco, Hinata sa che capitombolerà dal gradino, tutto sta nel tipo di caduta e nella qualità delle reazioni - anzi, spesso dalla qualità delle reazioni dipende la gravità tipologica della caduta. E Hinata si augura di essere circonfusa da risate amichevoli, sebbene il manifesto, stupito sconforto che deforma i tratti del volto del cugino lasci presagire qualcosa di non esattamente conforme alle sue volontà. Tuttavia oltrepassa il confine, si consegna volontariamente a quella trappola mortale (se non proprio mortale di certo tritura-ossa), rilassa le spalle, accumula aria... “Neji, sono passati otto mesi. Sto bene. E’ tempo che tu vada via.”
Neji contrae impercettibilmente la mascella. Kiba ha lo sguardo perso nel vuoto di chi non ci capisce un accidente però gli piace, il suono del “che tu vada via”, è un suono dolcissimo, di vittoria a suon di calcioni nel posteriore e i calcioni non è stato lui, a darli. Perciò continua a sorridere, in una maniera che se possibile accresce ancor di più la sua aria di ebetudine smarrita, ma per fortuna nessuno lo nota. Hinata riprende, traballando sullo scalone: “Neji, tu... sei morto. Questo lo sai, vero?” E le sue papille tradiscono un barlume di dubbio, un quesito che si è posta sul serio.
E’ quella serietà a far mutare repentinamente l’espressione di Kiba, dal placido annullamento cerebrale allo stupore attonito di fronte alla possibilità che tra di loro possa non essere Neji, quello messo peggio. “Eh?” urla, ma immagina soltanto di urlarlo perché quella che si propaga nell’aria non è la sua voce, è la voce di Neji, insolitamente venata di un che di straziante. “Lo so, Hinata. Lo so benissimo! Lo so come lo sai tu, perché credi che mi sia dato tanto da fare, negli ultimi tempi? Perché lo sappiamo entrambi. E questa razza di...” Il principio di insulto è rivolto a Kiba, ma non si può apprendere in quale sottotipo di razza degenerata debba venire catalogato perché Neji si corregge, devia bruscamente il corso delle sue parole. “Lui non lo sa. Non lo sa, Hinata! Come potrebbe aiutarti?”
Adesso è troppo.
Passi il delirio collettivo sull’onda dell’emozione subitanea.
Passi lo scherzetto della banda dagli occhi opalescenti che si trasfigura in un duo di evasi dal manicomio, sarà una strana modalità locale di stringere amicizia - il terrore e la follia che stremano prima di risate in compagnia e amorevoli pacche sulle spalle, certo, deve trattarsi di quello.
Però la durata è un bel fattore destabilizzante. La durata, e una nottata insonne, e un pomeriggio di visioni paranoidi ed emozioni altalenanti, tutti fattori che rendono Kiba molto poco incline all’attesa paziente del lieto fine. Perciò sbotta, sciorinando parole ad una velocità impressionante: “Sentite, non capisco il perché di tutta questa parata da circo e tuttavia non discuto le vostre abitudini, avrete i vostri motivi. Solo che non so voi, ma io è tutto il giorno che non tocco cibo perché ho lo stomaco triturato dall’ansia e, sì, se potessimo giungere in fretta a una conclusione e poi da novelli amiconi andare a mettere qualcosa sotto i denti confesso che non mi dispiacerebbe. Perciò vediamo di fare il punto della situazione: tu sei morto, lei non se l’aspettava ed è stata sopraffatta dal dolore, tu torni sotto forma di spirito per consolarla e... io sono la sensitiva che è in grado di vederti? Carino, quando arriva la scena del tornio con la musica in sottofondo?”*
Kiba scoppia a ridere.
Ma la testa di Neji ruotata in sua direzione a scatti, nonché l’angolo destro del labbro superiore inarcato a mimare il più autentico disgusto, gli fanno intuire che non c’è nulla da ridere, così come il capo abbassato, le mani incrociate all’altezza del ventre e l’espressione mesta di Hinata; le quali cose, oltre a piantargli una ginocchiata virtuale tra le costole e a farlo sentire l’essere più schifoso della storia passata, presente e futura, introiettano in lui l’agghiacciante consapevolezza che, per la miseria! Quei due non scherzano affatto!
“Voi” e la mimica facciale non deve essere delle più felici “siete seri?”
“Dieci minuti buoni per recepire l’ovvio” Neji finge di scrutare un immaginario orologio da polso, prima di portare le sue iridi glaciali all’altezza di quelle di Kiba “deve trattarsi di un record, per te.”
“Com’è che alla fine si rifà sempre vivo il desiderio di maciullargli la faccia?”, quesiti che perennemente ritornano e che hanno il sapore della tautologia.
“Sì, siamo seri” Ancora Neji, implacabile. “Sono morto otto mesi fa e Hinata è crollata, sono tornato per lei. Sono uno spirito e tu puoi fare la sensitiva, se ci tieni tanto.” Una risata quasi sentita, quasi umana, una di quelle cose che accostate a un tipo come Neji fanno sempre un certo effetto e il minuto dopo non riesci a capire se ci sono state o se si è trattato degli effetti collaterali dei pasti oltremodo abbondanti. “Comunque sia non ha importanza. Non posso permettere che si faccia del male, che tu le faccia del male. E’ ancora troppo debole, troppo stanca...”
“No” Una voce melliflua e al contempo decisa, le inattese, piacevoli antinomie nella voce di Hinata. “No, Neji, io sto bene. Sto bene da un po’. Tu non sei più qui per me, sei qui per te. Perché hai paura.”
A Kiba sembra di trovarsi in uno di quei film dai dialoghi assurdi che tuttavia dalla bocca degli attori paiono perfettamente comprensibili, degli autentici capolavori, peccato che quella sia la realtà e che nessuno di loro stia seguendo un copione - consapevolezza che amplifica in maniera esponenziale il surrealismo nonsense della situazione, ma deve trattenere l’ilarità. O la disperazione, non sa ancora a quale delle due emozioni concedere il sopravvento. E del resto Hinata rimarrebbe ad ascoltarla anche qualora dalle sue labbra fuoriuscisse qualcosa come “Carta di pane strusciata sul tetto di raso”, il che in effetti non si discosta troppo dalle attuali circostanze. Perciò lascia che prosegua, anche perché lei sembra orientarsi meglio di tutti loro nei territori dell’irrazionale - non ha ancora deciso se ciò sia un bene o un male, la priorità è venire fuori da quella sottospecie di carnevale fuori stagione.
“Hai paura che ti perda, Neji, non che perda me stessa. Hai paura che ti dimentichi. E mi dispiace di non averlo capito prima.”
Quella voce, quella voce mista allo sguardo in linea retta, ai gesti misurati, alla posa raccolta e comunque fiera... come può ciò essere sbagliato? Tutto sprigiona una tale limpidezza! Sono considerazioni che fanno ritenere a Kiba di essersi completamente rimbecillito. E lo stesso deve valere per Neji, dal momento che l’unica cosa che riesce a controbattere è “Io... non...”
“Non ti dimenticherò, Neji. Come potrei? Ti ho...” Le gote di lei assumono una sfumatura rosata, fa fatica a proseguire, evidentemente non usa a questo genere di conversazioni. “Ti ho amato come si ama un fratello, di quell’amore che comunica attraverso le esperienze condivise; un amore che forse non parla ma che si sente, si comprende nelle occhiate fuggevoli, negli aneddoti di famiglia a tavola dopo pranzo, quando si rimane in due o tre e ne conseguono lunghe chiacchierate, sempre le stesse e sempre diverse, e lunghe risate, o amare considerazioni.” Quando è arrivata così vicino a Neji? Quando, di preciso, le sue mani hanno avvolto le mani del cugino? “Sii libero, Neji, come hai sempre sognato. Io” e la testa si volge verso Kiba, il cui stomaco si contrae, scoppia, sbuffa, va in mille pezzi e si ricompone tutto a soqquadro, come diamine è possibile che un minimo spostamento d’aria provochi un tale scompiglio? Ah, ma l’ha capito da un po’ che il punto non è lo spostamento d’aria, il punto è la testa peculiare che quello spostamento lo provoca! Esiste un termine per indicare lo stare da schifo e il sentirsi una meraviglia a un tempo? Perché se non c’è da oggi in poi potrebbe essere ‘Kiba Inuzuka’, il paradigma dell’avvilimento a spasso tra le nuvole, un nuovo obbrobrio da mitologia. “Non sono sola. E a rendermene certa è la stessa parte di me che non mi ha mai fatto sentire sola finora, quella in cui tu sei presente come realtà quotidiana, oltre la vita e la sua fine. Non è un passaggio del testimone, è... una corsa a tre. E chissà che non si aggiunga altra gente lungo il percorso. Puoi fidarti, se quella parte di me in cui sei così presente può farlo.”
Neji socchiude le palpebre in maniera lentissima, probabilmente in balia di una lotta interiore che Kiba immagina come una battaglia furiosa e sanguinolenta tra l’istinto di ridurre in polvere ogni cosa e la riflessione ragionevole e ragionata condotta sulle parole di Hinata. Quando le riapre, per fortuna la riflessione sembra aver avuto la meglio.
“Va bene, Hinata. Mi fido.” O Kiba ha le allucinazioni, o sulla bocca di Neji è appena comparso un sorriso quasi rassicurante, quasi cordiale.  “Ma” un momento: da dove gli spunta quel secondo paio di braccia? “giusto per essere chiari: starò sempre all’erta. Queste fungeranno da valida motivazione al rispetto di determinate regole da parte del nostro caro, terzo corridore.”
E l’enorme paio di cesoie da giardiniere che Neji brandisce verso di lui con fare a metà tra il minaccioso e il sadico (cesoie trattenute da due mani che gli fuoriescono dall’arcata epigastrica!) rappresenta, per Kiba, il colpo di grazia.





E’ notte fonda quando Kiba si sveglia di soprassalto, in preda alla tachicardia.
Enormi gocce di sudore gli imperlano la fronte, gli ricadono sul profilo del naso e lungo la spina dorsale, mentre con le mani fa leva sul suolo, fino a portarsi in posizione seduta.
Che diavolo...?
Shino dorme con gli occhiali sul viso, immobile come un morto, inquietante come quelle icone cimiteriali che dovunque ti volti sembrano seguirti con lo sguardo. In un’altra occasione Kiba proverebbe a scostarglieli con la massima discrezione per allontanare la strizza dell’essere costantemente sotto osservazione, nel mirino di uno squilibrato omicida, ma al momento è occupato a riprendersi dal sogno, incubo, o che accidenti era che gli ha scombussolato il cervello, spingendolo a un risveglio oltremodo traumatico.
Caffè, strade dall’insolita conformazione, numeri e lettere mescolati in tomi colossali dall’aspetto improponibile, una casa stramba dal mobilio altrettanto strambo, Hinata e Neji, Akamaru dal fetore nauseante, braccia che spuntano da punti inusitati del corpo e cesoie dall’inquietantissimo clangore metallico... kami, cos’ha bevuto? Non ricorda di esserci andato giù pesante - che in effetti è un’amnesia del tutto normale per chiunque ci sia andato giù pesante. Kurenai sensei ha un pargolo in grembo quindi niente missioni comunitarie e per fortuna niente sakè, ogni volta che Shino o Hinata ne vengono erroneamente in contatto gli esiti sono devastanti! Kiba ricorda ancora un paio di boxer puntellati di riproduzioni di insetti e un’Hinata dai capelli a caschetto che proclama l’intento di far vedere i suoi, di boxer, di gran lunga migliori rispetto a quelli di Shino, mentre lui tenta di immobilizzarla lottando contro un calore porporino che prende possesso delle sue guance - dannate bottiglie di sakè anonime e dannate sensei sbadate, predisposte a cadere in stato catatonico subito dopo la prima goccia! A lui è toccato mandare avanti la baracca. Avverte ancora il panico immobilizzante nell’accompagnare Hinata a casa, il giorno dopo, un po’ intontita ma con in volto la placida serenità di chi ha il cervello sgombro, l’orrorifico vacillare della speranza contro le perforanti occhiate del capofamiglia, il sollievo alla sua muta approvazione ignara dei segnali dell’ordine infranto; tuttavia il sospetto di Neji, l’intramontabile sospetto di Neji. Quelle sopracciglia aggrottate che avrebbero seguito Kiba negli anni a venire e durante tutto il corso della guerra. Ah, Neji, ti sei fatto ammazzare in guerra! Dopo le lotte fianco a fianco, i momenti in cui il cipiglio severo era sostituito dall’orgoglio dei combattimenti insieme, in compagnia degli amici, in difesa degli amici. E poi l’hai salvata, e non sai quanto le hai portato via.
Kiba volge la testa verso Hinata, alla sua destra, i capelli sparsi sul futon come tanti fili di una ragnatela d’ebano e il corpo raggomitolato su se stesso, il respiro sommesso: gli si stringe il cuore, lo avverte davvero attorcigliarsi e venire privato del liquido dei giorni felici, se ripensa ai mesi precedenti. Alla devastazione della guerra e alle innumerevoli perdite, ai cadaveri che non avrebbero voluto contare, alle macerie che non avrebbero voluto dover spostare; alla frenesia postbellica, ai viaggi di paese in paese per rinsaldare alleanze, risollevarsi sostenendosi a vicenda, ciascuno con un braccio attorno alle spalle dell’altro; alle continue missioni, alle separazioni prolungate dai compagni fortuitamente ritrovati, ai pianti repressi, agli strazianti tentativi di consolazione reciproci. E Hinata ha pianto, ha pianto a lungo, per grazia dei kami ancora sulle spalle sue e di Shino, qualcuno li ha voluti salvi e uniti, Hinata ha esaurito la riserva acquosa anche tra il folto pelo di Akamaru e infine si è ripresa, passo dopo passo. Un mattino è uscito dalla tenda e l’ha trovata immersa nei tenui raggi dell’alba, il viso sollevato e le labbra inarcate: “Non trovi che sia una giornata stupenda?”
Lo era. Da quel giorno Hinata ha guadagnato una ruga di concentrazione sul lato sinistro della fronte, nei momenti di silenzio, ma non ha più versato lacrime. Un giorno indelebile.
E adesso, a otto mesi esatti dalla morte di Neji, dall’interno di una tenda di infime dimensioni, tali che Akamaru ha dovuto essere lasciato fuori per consentire a tutti loro di respirare, Kiba non si spiega perché un sogno tanto assurdo lo abbia dovuto tormentare.
“Oh, andiamo, guarda che così mi viene davvero il sospetto che sia tu, a non volerla lasciare andare!” E i sussurri concitati sono indirizzati a un’entità impercettibile ma presente oltre la tenda, oltre le stelle, oltre la notte e contemporaneamente commista a ciascuna di esse - è convinta, Hinata, che sia così, e Kiba non vuole essere da meno. “Lei sta bene. E non ti dimentica, tranquillo” Se le occhiate potessero accarezzare, Hinata sarebbe rivestita di una coltre di lievissime carezze. “Sei la ruga sulla sua tempia sinistra! Ti porta sempre con sé” Kiba ridacchia, prima di ricomporsi nuovamente. “Sul serio, Neji, fidati di lei: è più in gamba di quanto pensiamo, e il livello della nostra stima è già abbastanza alto. Che poi oh, al diavolo, perché dovrei star qui a fornirti spiegazioni? Mi hai appena fatto fare un terrificante incubo, sono sicuro che in qualche modo tu sia coinvolto!” Uno sbuffo d’impazienza, le braccia conserte a mo’ di protesta. “Proprio oggi, eh? Il sogno sullo spettro dell’amato cugino, la ragazza in pena che ha imparato a rialzarsi, il tipo sciatto dall’aria odiosa che tuttavia è l’unica scelta, l’unico a cui poterla affidare, il monito finale dalle tinte macabre... commovente, davvero. Non ti facevo tanto melodrammaticamente teatrale. Tuttavia” sghignazzata repentina “i sogni non si possono controllare. Non puoi farlo nemmeno tu, caro il mio genio. Perciò capitano risvolti inattesi.” Pensiero ad una fantasia ben poco casta sulla propria compagna di team e un pizzico di pudore, ma non può darla vinta a quello sbruffone di Neji! Anche nell’aldilà deve strafare. Ulteriore risata: “Ricorda che sono comunque un uomo in crescita e, beh... questo non lo puoi gestire.”
Ma Neji - o perlomeno, Kiba è convinto che si tratti di Neji - pare dissentire. Perché all’improvviso Akamaru, fino a quel momento immobilizzato chissà dove sotto l’effetto di una placida quiete, prende a guaire disperato e si fionda a velocità indefinita all’interno della tenda, scardinandone i picchetti. Kiba non fa neanche in tempo ad imprecare che si trova il collo di Shino sotto il polpaccio sinistro, le chiappe di Akamaru ad altezza faccia e l’alito di Hinata appiccicato al collo. “Che succede?” Proclama lei, a metà tra il sonnacchioso e l’allarmato. “Niente” Risponde Kiba, tentando di scrollarsi di dosso il grosso deretano canino e di liberare gli arti da quella trappola mortale. “Solo che certa gente è stronza anche da morta e che è pericoloso provocare. Ouch” smorfia di disgusto nell’annusare l’aria “e che Akamaru ha appena sganciato. Aiutatemi a levarlo via, vi prego.”
Intorno è un prorompere di risate, di quelle cristalline che ti risuonano nella mente come campanelli di festa e che ti ripagano di ogni fatica, di ogni sconfitta.
“Giuro che quando ci vediamo questa me la paghi, bastardo.”
E Kiba non pensa neanche per un istante di essersela immaginata, la quarta risata decisamente più beffarda che si è levata da un punto imprecisato tra le fronde della foresta.






Note

* Richiamo al film “Ghost”, non era previsto ma arrivata a quel punto non sono riuscita a trattenermi dall’inserirlo XD







NdA: Sono 16 pagine di word. Io non riesco ancora a concepire di aver scritto 16 pagine di word, figurarsi l'idea che qualcuno possa arrivare a leggerle per intero. A parte la giudicia, che sarà condannata a farlo XD
Perciò ringrazio in anticipo qualunque temerario/a si imbarcherà nell'impresa, se un/a temerario/a ci sarà *inchino profondo, stupito e ammirato*
NejixHinataxKiba è qualcosa di cui ho sempre voluto scrivere, perciò ho colto la palla al balzo! La storia è, uhm, particolare? Diciamo così XD
E' che mi piace immaginare Kiba tutto tronfio e spavaldo che poi si riduce a un'ameba guardando negli occhi Hinata - le cose cretine che si fanno quando non ci si vede vivere, per fortuna, o non si vivrebbe più! Le cose cretine sono essenziali *sproloquia* Poi Neji è il Neji che mi piace estremizzare rendendolo morboso e un po' tanto stronzo con l'universomondo, ma è tutta apparenza, lo sa anche lui che è soltanto apparenza - chiedo perdono a chiunque sia stato disturbato da un tale modo di usufruire del personaggio. Hinata parla poco ma sempre prendendo la mira, e del resto a Kiba piacerebbe ascoltarla anche qualora si profondesse in scempiaggini - che poi dubito, tra i presenti, sia proprio lei la principale fonte di scempiaggini, una "data di matto" una volta ogni tanto io gliela concederei, proprio per questo motivo u.u"
Che altro? Loro sono un triangolo a modo mio. Hinata e Neji si amano dell'amore della famiglia, di quel legame inossidabile che ti senti dentro fin dalla nascita e che se coltivi (e vai oltre il migliaio di grane) diventa ancor più meraviglioso, Kiba e Hinata sono i compagni di team, l'amicizia che riconosci all'istante e che ti fa percepire al sicuro (anche se Kiba potrebbe benissimo provare qualcosa in più, ammetto ogni tanto di fantasticarci e di fantasticare su un possibile contraccambio di Hinata, ma qui ho voluto lasciare tutto incerto, tutto sospeso, tutto a metà) e Neji e Kiba... si odiano e si amano. Tengono alla stessa persona ognuno a modo suo e, inevitabilmente, finiscono per accettarsi. Quasi quasi per apprezzarsi. Nel caso presente, ovvio, che si apprezzino si capisce soltanto alla fine - direi che le cesoie non sono segno di apprezzamento, no XD Ma per fortuna continuano a punzecchiarsi!
E per fortuna "non ce ne si libera mai veramente", lo ripeto a oltranza.
Grazie a chiunque leggerà, a chi apprezzerà e a chi non apprezzerà, a chiunque ci dedicherà il suo tempo. Immensamente grazie *nuovo inchino*
A presto!


Edit del 30/07/2014: Niente, soltanto un immenso grazie alla giudicia. Per la puntualità, per le sue parole molto più che per la posizione... grazie. Sono positivamente incredula, e riconoscente, e contentissima *inchino profondo*
  
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