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Autore: Blackvirgo    25/08/2008    6 recensioni
Libera interpretazione del personaggio di Death Mask, dall’origine del suo nome al motivo per cui la Quarta Casa del Grande Tempio è tappezzata dai volti delle sue vittime. Ispirato alla serie classica.
Genere: Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Cancer DeathMask
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota introduttiva: Questa fan fiction si è classificata terza al concorso su “Il Mostro e il Mostruoso” indetto da Immaginaria e Phantastes. Considerando che per me la sfida è stata scriverla dato che questo non è il mio genere e Death Mask è un personaggio che non è mai stato nelle mie corde, il punteggio di 7.5 assegnatomi da entrambi i giudici (Galadwen e Shadriene) è stato per me motivo di grande soddisfazione.


MASCHERE

L’uomo appese la maschera al muro e si allontanò di qualche metro per osservarne l’effetto. Teneva il mento appoggiato a una mano, lo sguardo assorto nella contemplazione della sua ultima opera.

Si avvicinò di nuovo alla maschera, ruotandola un po’ verso destra: doveva trovare il posto in cui la luce perennemente soffusa l’accarezzasse, scivolasse sui lineamenti spaventati per poi perdersi nei gorghi delle orbite senza occhi, come risucchiata da un buio che non poteva essere rischiarato.

Per una attimo si chiese quale fosse stato il nome di quel ragazzo di sedici o forse diciassette anni a cui era appartenuta, che l´aveva indossata cambiando la sua espressione a ogni moto di stizza o gioia che la vita gli aveva regalato. Ora era immobile, costretta a indossare per l´eternità la stessa espressione di sconforto, di paura. Di disperazione.

Sorrise il cavaliere, pensando che il nome non era poi così importante.

Nel suo paese natale tutti avevano un soprannome unico e inconfondibile ed era con quello che ti conoscevano e ti chiamavano. Di certo più univoco e originale di un nome che veniva ereditato dall’ultimo defunto della famiglia. E, immancabilmente, dal santo del giorno.

Il soprannome – in qualche modo – te lo guadagnavi.

Dagli scherzi di Madre Natura nasceva lo Smilzo o il Mancino e dagli sberleffi degli uomini il Guercio o lo Scevola.

Lui non ne avuto uno per molto tempo.

Sin da piccolo era sempre stato speciale. Era più veloce dei suoi coetanei quando scappavano dopo aver combinato una marachella ed era il più forte quando si trattava di fare a pugni. In pratica era il capo della sua piccola banda, una carica ambita che lui aveva conquistato allo stesso modo degli antichi guerrieri: battendo, uno a uno, i suoi avversari.

Era speciale, gli avevano detto proprio così. Sei destinato a grandi cose, gli avevano augurato quando aveva lasciato per sempre la propria casa, seguendo un individuo che gli aveva promesso di farlo diventare uno degli uomini più forti al mondo.

“Diventerò il più forte,” aveva dichiarato il bambino, guardando dritto negli occhi lo sconosciuto con il suo sguardo spavaldo e un sorriso che gli piegava le labbra in un ghigno.

Quello che d’ora in poi sarebbe stato il suo maestro aveva appena increspato le labbra, con gli occhi socchiusi, senza rispondere.

Così erano cominciati gli anni dell’addestramento.

Aveva imparato molte cose in quel periodo.

In primo luogo a combattere nella maniera classica: a pugni, calci e anche a testate se fosse risultato necessario.

Poi gli avevano insegnato che esisteva una forza superiore chiamata cosmo, un’energia che permeava la materia e che permetteva, a chi era in grado di attingervi, di modificarla. O di distruggerla. A seconda del proprio talento. E gli avevano insegnato ad usarla, a richiamarla dalle proprie stelle – ancora sconosciute, ma pur sempre presenti nel cielo nero della notte – e a usarla. Per difendersi. Per attaccare. Per aprire le maglie dello spazio a proprio piacimento.

E c’era stata anche la parte noiosa, quella che riguardava la mitologia, racconti su antichi dei che il parroco del suo paesello avrebbe esorcizzato brandendo l’aspersorio a mo’ di spada e il crocefisso a mo’ di scudo. Invece quest’uomo diceva loro che esisteva una dea di nome Athena di cui tutti loro erano servitori. Che questa dea rappresentava la giustizia sulla terra e che combattere per difenderla era il più grande onore per un guerriero.

Il bambino ascoltava, assieme a tutti i suoi compagni. Una decina di ragazzini che si prendevano costantemente a pugni per vedere chi aveva maggior diritto a proclamarsi paladino della giustizia.

Ma quel bambino speciale non aveva dubbi sulla giustizia. Nella sua breve vita aveva imparato poche regole essenziali: la prima è che i forti comandano e che solo loro meritano obbedienza. La seconda che chi comanda decide cosa è giusto e cosa non lo è.

E a queste regole si attenne finché morte lo colse.

Le aveva messe in pratica quando viveva per strada, monello fra i monelli, disperazione dei genitori propri e altrui.

Le mise in pratica durante l’addestramento, durante quella difficile operazione per cui alcuni bambini scelti e prescelti dovevano trasformarsi in macchine da guerra.

Potevano blaterare sulla guerra giusta e sbagliata, sugli ideali con cui scendere in campo, ma sempre di guerra si trattava. E lo scopo ultimo era portare a casa la vittoria e la pelle. Curioso come allora pensasse a portare a casa la propria mentre successivamente si sarebbe più concentrato su quella degli altri.

Una volta ottenuta la vittoria, la giustizia diventava qualcosa di molto relativo. Anche questo lo aveva imparato sui libri di storia.

Durante l’addestramento c’era stata una sola persona più forte di lui: il suo Maestro. A lui aveva sempre mostrato rispetto, aveva obbedito, aveva seguito i suoi consigli, diventando ogni giorno più forte. Vincendo ogni duello che gli veniva offerto, senza risparmiarsi nella lotta, senza risparmiare l’avversario.

Avevano iniziato l’addestramento in undici. Poco prima della fine erano rimasti in due.

Quando venne richiamato in Grecia per vestire la Sacra Armatura di Cancer era rimasto da solo.

Era diventato più forte anche del suo Maestro.

“Interessante comportamento per essere guerrieri che combattono per la giustizia,” pensò ironicamente il giovane cavaliere quando, da poco arrivato al Grande Tempio, non si faceva che parlare del tradimento di tale Micene, Cavaliere d´Oro di Sagitter. Di colui che aveva rapito la dea bambina e sottratto una delle dodici Armature d’Oro.

Una dea che non aveva saputo difendersi dall’attacco di un mortale.

Il giovane cavaliere pensò agli insegnamenti del suo Maestro e alle proprie regole di vita: il solo fatto di essere lì, sotto il torrido sole ateniese, a disquisire di filosofia con se stesso aveva dato ragione alle proprie.

Fu in quei giorni che fece l’incontro che gli cambiò definitivamente l’esistenza. Non quello con i suoi pari, con gli altri Cavalieri d’Oro.

Quello con il Cavaliere d’Oro.

Il Grande Sacerdote, un uomo che irradiava potere, che ipnotizzava con la propria voce, un uomo davanti al quale inchinarsi era ancora poco.

Colui che aveva nascosto in larghe vesti scarlatte il corpo d’acciaio del guerriero e dietro una maschera la propria identità. Tutto questo solo per raggiungere i propri obiettivi.

Colui che aveva tolto quella stessa maschera di fronte a un giovane Cavaliere d’Oro e gli aveva chiesto fedeltà.

Il giovane Cancer giurò all’istante: obbedienza al più forte.

E da lì creò quel nome che tutti avevano paura di pronunciare, di sussurrare. Death Mask. Perché lui sapeva come portare morte e dedicava questo talento a un uomo che si celava dietro a una maschera. Finché quella maschera non fosse diventata un trofeo da appendere nella propria casa.

Aspettando quel glorioso giorno decise di prepararle una buona compagnia.

Ritornò col pensiero alla sua terra, agli insegnamenti che già gli aveva impartito. Patria di artisti e di scienziati, la bella e vecchia Italia.

Si ispirò a quello scultore che aveva detto che ogni blocco di marmo contiene già la propria forma, che bastava solo togliere la materia in eccesso.

E alle conoscenze di quei medici – quasi stregoni – che avevano passato la loro vita a cercare un modo per rendere incorruttibile il corpo dopo la morte.

Death Mask credeva che questo potesse valere per il marmo, non di certo per gli uomini. Gli sciocchi che si mettevano sulla sua strada avevano solo una cosa in eccesso: la propria anima. Che lui si premurava di eliminare definitivamente prima di occuparsi del corpo. Del volto. E di immortalarlo proprio nel momento in cui la Nebulosa di Presepe gli rubava la vita.

Fu così che le sue vittime diventarono le sue opere d’arte.

Volti di uomini, donne e bambini cominciarono a decorare le pareti della Quarta casa, estroflessioni dei muri stessi per quanto erano simili alla pietra, per quanto erano freddi ed immobili.

Maschere così diverse dalla propria, dalla Maschera di Morte che egli indossava. Che aveva posto sul proprio viso la prima volta che aveva espanso il suo cosmo fino alle stelle ed era giunto là dove i mortali non dovrebbero. Perché lì stava il suo potere: custodire la Bocca dell’Ade – così simile a quel vulcano che si stagliava contro il cielo azzurro della sua Sicilia – ivi accompagnare le anime dei defunti – delle proprie vittime – e poi tornare indietro.

Ancora una volta pronto a passare le mani su quei volti che vedevano l’Inferno da vivi, a scollarne la pelle e a immergerla prima nella formalina – per fissarla, così aveva letto, per “conservare inalterata la struttura” – e poi nella soluzione di silicato di potassio, per “conservare indefinitamente i corpi organici resi anidri e mineralizzati, e quindi non soggetti a corruzione” e per far sì che, alla fine, assumesse “un aspetto ed una consistenza lapidea”.

Questo era quanto aveva insegnato il dottor Spirito, ultimo di una serie di medici che aveva trovato il modo di conservare i cadaveri rendendoli simili alla pietra, unico a non aver portato il proprio segreto con sé, nella tomba.

Era un processo lungo e preciso, ma ogni momento segnava una tappa fondamentale.

Quella che il cavaliere preferiva in assoluto era il passaggio intermedio fra le due soluzioni.

Perché durante il combattimento aveva bisogno di concentrazione, di osservare l’avversario per precederlo, per colpirlo e, infine, per sconfiggerlo.

Invece durante quel particolare passaggio, mentre modellava quelle forme dalla consistenza gommosa, le fissava su legno e metallo, le cuciva per immobilizzarle nell’ultimo ghigno di chi guarda la propria Morte in faccia… in quel momento poteva rivivere quello che la sua vittima stava provando, poteva ricordare quelle espressioni che erano passate sul suo viso , emozioni di cui lui era la causa.

Mentre l’avversario prendeva in considerazione la fuga per poi scartarla – come fuggire se il tuo nemico si muove alla velocità della luce stessa? Più veloce dei tuoi stessi occhi?

Quando lo sfidante si apprestava al combattimento, con la stessa disperazione di un leone in cattività.

E quando, infine, la vittima si arrendeva di fronte alla porta dell’Inferno. Perché di fronte a esso non si può far niente e tutto perde improvvisamente di importanza.

Durante la sua permanenza in Grecia si era adeguato a chiamarlo Ade – Aldilà – ma nulla gli dava soddisfazione come l’immagine dei nove gironi infernali descritti da Dante – italico poeta! – con i peccatori sballottati nelle tempeste dei venti, divorati dalle fiamme o costretti a rosicchiare in eterno le ossa dei propri figli.

Persone, quelle che si premurava di inviare personalmente, che sarebbero rimaste anonime per l’eternità Perché il loro volto sarebbe sempre rimasto nella Quarta Casa di Atene.

E infine l’ultimo passaggio: l’olio di vasellina, per lucidare il nuovo pezzo da aggiungere alla propria collezione, ed una mano di vernice, per renderlo bianco, diafano, dello stessa cera dei fantasmi.

E quando tutto questo finiva poteva finalmente appenderla al muro e farla diventare un tutt’uno con esso.

Tra altre centinaia di visi doveva mantenere la propria individualità.

Doveva trovare il posto preciso in cui la luce, perennemente soffusa, l’accarezzasse, scivolasse sui lineamenti spaventati per poi perdersi nei gorghi delle orbite senza occhi.

Qualcuno aveva detto che gli occhi sono lo specchio dell’anima. E quei volti non avevano più un’anima. Solo il cosmo di cui tutto è permeato e che il cavaliere di Cancer poteva manipolare a suo piacimento per farle ancora contorcere o urlare. Per mostrare alle future maschere quale fosse il loro destino.

Solo uno spazio rimaneva vuoto al centro della parete: il posto d’onore.

Riservato.

Per il Cavaliere di Gemini e la sua Maschera.

Per coprire l’unica eredità che il suo predecessore gli aveva lasciato.

Una scritta sul muro.

Memento mori.



Nota dell’Autrice: il dottor Francesco Spirito è realmente vissuto ed è stato l´ultimo a tentare – e a riuscire – a pietrificare i cadaveri. Le frasi tra virgolette sono sue citazioni prese da una comunicazione tenuta presso l’Accademia dei Fisiocritici di Siena nel 1951. Suoi illustri predecessori in tale arte furono il dott. Paolo Gorini e il dott. Girolamo Segato . Quest´ultimo, in particolare, venne sepolto nella Chiesa di Santa Croce a Firenze di cui si riporta il famoso epitaffio: “Qui giace disfatto Girolamo Segato da Belluno che vedrebbesi intero pietrificato se l'arte sua non periva con lui”.

   
 
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