-Oh, sei pronta?
-Ci sono! Sono qui! Dammi un secondo, eh? Un secondo solo.
Aurora cercò di stendere l’eye liner meglio che
poteva, ma,
presa dalla fretta, fece una piccola sbavatura. Sbarrò gli
occhi. Non poteva
correggerla in macchina, anche perché guidava lei; doveva
per forza sistemarla
adesso, e Daisy le stava mettendo fretta. E
va bene, pensò. La
saliva è il
miglior detergente; si bagnò la palpebra,
l’asciugò alla bell’e meglio,
diede un’altra passata.
-Già meglio – mormorò tra sé
e sé.
Si concesse un attimo per guardarsi nello specchio grande
dell’entrata.
Quella sera si piaceva: era proprio nel suo stile. A lei
piacevano gli anni Sessanta, Elvis Presley, i Beach Boys, i caschetti,
i pois,
gli abitini, il doo-wop, il bianco e nero, i sassofoni e le voci
languide. O
almeno, questa era l’idea che si era fatta lei.
Daisy – che non si chiamava Daisy ma aveva riadattato allo
scopo il suo cognome, Dainese – aveva tentato di spiegarle
che a quel tempo
c’erano anche Jimi Hendrix, i Beatles, i Rolling Stones, John
Coltrane, che
stava addirittura nascendo il reggae; e che forse, ma forse, aveva
esagerato
con Grease, e che si era vista qualche film d’epoca di troppo.
Niente da fare.
Aurora continuava ad adorare le pin-up, a tagliare i bei
riccioli neri corti come Betty Boop, e a portarsi in giro la fida borsa
di
Audrey Hepburn, perché lei si sentiva un po’ Holly
e un po’ Gatto, diceva.
Così Daisy finì per lasciarla vivere nella sua
idea di anni
Sessanta, che lei confondeva un po’ con i Trenta, un
po’ con i Quaranta, un po’
con i Cinquanta e un po’ con le tendenze di
quell’estate, che avevano riportato
in voga qualcosa di vagamente simile a quegli anni.
-Ok! Prontissima! Si va?
-Eh, se ti muovi, si va.
-Ow – s’imbronciò Aurora, facendo
sporgere il labbro
inferiore. Quelle belle labbra rosse, piene, piccole, un cuoricino di
caramella
al posto della bocca: le perdonavi anche quell’atteggiarsi a
pubblicità
americana di metà secolo.
… sì, ma perché, quella volta, a
Cristina Aguilera era venuto in mente di far
uscire il video di Candyman? Aveva
creato un mostro.
Daisy sospirò, pensando che, oltretutto, a Mestre qualche
idiota aveva avuto la splendida idea di aprire un negozio di Betty
Boop, dove
Aurora potesse trovare tutte le culottes,
le ciliege e i pois di cui aveva bisogno. Lei e la commessa, manco a
dirlo,
erano amiche per la pelle, non per niente Aurora le stava pagando il
mutuo
della macchina.
Sentì ticchettare; era lei, con i suoi dieci centimetri di
tacco in vernice rossa, che correva a passettini leggeri verso la porta.
-Dai, che ci aspettano. Dobbiamo ancora tirare fuori i
sedili posteriori.
-Ops! – esclamò Aurora, mettendo una mano davanti
alla bocca
ad ‘o’ – Come facciamo?
-Eh, a questo punto, non facciamo. Aspettiamo di trovarci
con gli altri e gli chiediamo se ci danno una mano loro. Basta che ti
muovi,
però.
-Scusami!
All’andata, fece guidare Daisy. Non le piaceva quella
monovolume; a lei piaceva
Si trovarono con gli altri; amici di Daisy, gente che la sua
coinquilina frequentava, gente che Aurora cercava di farsi stare
simpatica
senza riuscirci assolutamente.
E come poteva?
Lei era tutta gambe accavallate, esclamazioni con tono
frivolo, e vestitini da non sporcare; loro erano creste colorate,
borchie e
birra rovesciata sul pavimento. Ma non erano queste, le cose che le
impedivano
di farseli andar giù; perché Daisy aveva i
capelli metà rosa e metà azzurri, e
quella sera indossava un kilt sulle calze strappate e un paio di anfibi
da
militare, ma ci andava d’accordo lo stesso.
Scesero dalla macchina.
-Ciao Daisy! Come stai?!
-Ohi, Daisy.
-Daisy! Quanto tempo, cazzo.
-Ciao Daisy, com’è andato l’esame?
Poi, uno di loro sembrò ricordarsi di Aurora. Un tipo. Le
fece un cenno con la testa.
Lei sfoggiò il suo miglior sorriso, ma lui si era
già
voltato a dire qualcosa a qualcun altro.
E siccome le chiacchiere con Daisy erano già partite,
nessuno si preoccupò di fare ciao con la mano ad Aurora, che
se ne stava dietro
alla sua amica, fuori dal cerchio di persone, a guardare tutti
sorridendo nella
speranza che uno di loro la notasse e le rivolgesse la parola.
Eppure, si era messa quel vestitino apposta. Era uno dei
suoi preferiti; rosso, con i pois bianchi, un fiocco sul petto e un
nastro in
vita; ampio, con un volant di velo che le accarezzava le gambe. Le
piaceva
l’idea di avere stile, di essere particolare, di catturare
l’attenzione e
destare una qualche curiosità: lei, se si fosse vista per
strada, si sarebbe
girata a guardarsi.
Ma loro no. A quanto pare, non aveva nessuna importanza, lì,
il modo in cui ti vestivi, anche se in effetti loro erano tutti vestiti
uguali,
il che poteva significare che in realtà la faccenda non era
di così poco conto.
Sospirò. Ma cosa le era venuto in mente, di andare a
studiare alla Ca’ Foscari? Perché le era venuta
quell’idea? Padova era una città
così bella, l’università era la
più rinomata d’Italia, perché aveva
voluto
andare a Venezia, trasferirsi, cambiare città?
Certo: era felice di aver trovato una coinquilina come
Daisy, e Venezia le piaceva, e anche l’università;
si trovava bene. Ma era stata
costretta a cambiare giri, trovare una nuova compagnia. Daisy aveva
pensato che
potesse integrarsi nella sua; l’aveva, ingenuamente, pensato
anche Aurora.
Solo che non era andata così. Quello che per Daisy era un
gruppo meraviglioso di amici del cuore, fidati, leali, sempre presenti,
si era
rivelato un manipolo di persone chiuse nel loro gruppetto esclusivo,
dove non
c’era spazio per nessun altro, perché i ruoli, i
legami, le amicizie, erano già
consolidati da anni. E Aurora era soltanto una ragazzina fissata con la
moda
che era lì per caso, per una sera o due, una che potevano
anche ignorare,
perché non era destinata a rimanere.
Mentre Aurora, beh, Aurora aveva in progetto di rimanere,
invece, almeno per qualche anno, almeno fino alla conclusione della
triennale.
-Ragazzi, per cortesia, ci date una mano a tirare fuori i
sedili? La macchina dell’Aurora ha sette posti, ma non
abbiamo fatto in tempo a
metterli su.
-Sì – fece un ragazzo, deciso – dove
sono questi posti?
-Sotto il bagagliaio – intervenne Aurora, ma lui non la
sentì, perché si era rivolto a Daisy.
-Sono sotto il bagagliaio – ripeté Daisy, e
guardò Aurora –
fagli vedere dove sono.
Annuì e guardò questo ragazzo, Stefano si
chiamava, per
accertarsi che si fosse accorto di lei. Quando fu sicura che la stava
seguendo,
proseguì fino alla macchina, ma a metà strada non
sentì più i suoi passi dietro
di lei; si voltò e vide che si era fermato a discutere con
un altro tipo di
qualcosa.
Aspettò, guardando prima la macchina, pezzo per pezzo, poi
l’asfalto, poi il cielo, poi i palazzi, e poi si
voltò verso di lui; Stefano la
stava sorpassando e si dirigeva verso la macchina con passo spedito. Si
affrettò a seguirlo.
-Ecco, vedi, adesso bisognerebbe togliere questi due pezzi
qui, e poi i sedili vanno tirati su da sotto –
spiegò, felice di essere utile,
indispensabile, di poter essere la sola a dare quelle informazioni.
-Ok – annuì questo, guardando nel bagagliaio
– va bene.
Marco! – gridò, rivolto verso il tipo di prima
– Vieni a darmi una mano con
‘sti sedili.
‘sti sedili,
Aurora assaporò il gusto amaro di quelle parole. I sedili
erano stati il suo
momento di attenzione, l’unica cosa di cui lei poteva
parlare, il solo apporto
che lei aveva dato alla serata. Per lei erano importanti, ‘sti sedili, le erano serviti
per non essere invisibile. Per loro,
invece, erano solo una faccenda da sbrigare il più presto
possibile.
In un paio di minuti riuscirono a montarli, e tutto ciò che
le dissero fu “mi tieni questo un attimo, per
favore?”. Poi arrivarono gli
altri, gridando, ridendo, abbracciandosi.
Stavano andando a vedere i fuochi del Redentore a Venezia,
in piazza San Marco, e poi sarebbero andati al Lido a ballare,
perché c’erano
le feste sulla spiaggia e alle sei, o almeno così dicevano,
c’era la colazione
gratis. Una bellissima idea, pensava Aurora, se sei con degli amici. Ma
se sei
con gente che si ostina a non considerarti, le ore possono sembrare
lunghe.
Daisy si sedette dietro con la sua migliore amica, Veronica,
con la minigonna cortissima e le autoreggenti coi teschi. Scherzavano,
si
raccontavano le ultime cose, cazzate sui compagni
d’università, sui genitori,
sulla musica che avevano scaricato; argomenti accessibili a chiunque,
in
effetti... a patto che avessero modo di entrare nella conversazione. Le
altre
persone presenti si inserivano a intermittenza quando volevano, ma lei,
che
nemmeno era stata salutata, come poteva infilare una parola?
-Aurora, possiamo aprire i finestrini? – disse ridendo
Marco, che stava sorseggiando una birra; avrebbe sporcato la macchina,
ma non
osava dirglielo, non osava rovinargli il buonumore per paura di essere
ignorata
ancora di più – Li possiamo aprire tutti?
-Certo! Nessun problema – fece allegramente, come se fosse
stata una di loro, come se fosse stata parte di quel momento fatto di
risate,
birra, finestrini spalancati a centocinquanta all’ora; ma le
bastò guardarlo,
vedere che si era già rivolto a qualcun altro, per capire
che non c’entrava
niente. Che non c’era mai entrata niente.
Per fortuna poteva guidare; almeno quello, per ora, era
qualcosa da fare. Si concentrò sulla strada, e sulle canzoni
per radio; in
realtà non le sentiva nemmeno, perché tutto quel
vento faceva un frastuono
terribile, ma erano meglio di niente. Meglio che ascoltare chiacchiere
sulle
quali non avrebbe mai potuto dire nulla, meglio che ascoltare il
silenzio che
la circondava.
Ogni tanto, qualche frammento di dialogo la raggiungeva.
-No perché poi Gio era marcio e si è fatto
-Sì no ma perché poi cioè alla fine io
faccio quello che
voglio, ti sto bene, ok, non ti sto bene..
-Mi spaccano i coglioni perché ho mollato e non lavoro, ma
ormai aspetto il prossimo anno accademico e cambio,
perché…
-E quindi la scorsa settimana, vi siete visti?
Aurora taceva. Guardava Daisy che si spintonava con
Veronica, dicendole ‘cretina’ e
quell’altra che rideva, vide Marco e Stefano
passarsi la bottiglia, e Serena, la tipa seduta davanti assieme a lei,
perennemente girata verso quelli dietro.
Li conosceva appena, non le piacevano, ma erano nella sua
macchina a divertirsi senza darle retta.
Sospirò di nuovo. Sarebbe finita, quella serata. Anche le
altre serate, poi, finivano. Aveva i suoi metodi, per accelerare, e
quella sera
al Lido li avrebbe messi in pratica.
-Aurora, metti su sto CD? – le chiese Daisy, sorridente,
divertita.
-Certo! – replicò, mettendo su un’aria
felice, come se non
aspettasse altro che mettere su quel cd pieno di roba che le faceva
schifo.
Partì Anarchy in the
U.K. e tutti impazzirono; si levarono le cinture, si
sventolarono fuori dal
finestrino, si rovesciarono le lattine addosso. Rischiava il ritiro
della
patente, una multa e che suo padre l’ammazzasse per come si
stava riducendo la
macchina. Trasalì e Serena notò che li stava
guardando, così chiamò i due
ragazzi seduti dietro.
-Oh, ragazzi, la macchina è dell’Aurora! Cercate
di non
smerdargliela.
-Hai ragione!
-Scusa, Aurora! – Marco alzò una mano in segno di
scuse, ed
entrambi misero giù la birra; ma continuarono a ridere per i
cazzi loro, già
mezzi ubriachi, mentre cantavano I wanna
be anarchist a pieni polmoni.
-Tranquilli – disse, ma non si accorsero di lei, persi nelle
loro sghignazzate. Nemmeno Serena fece più caso a lei, e
continuò a chiacchierare
con Daisy e Veronica.
Arrivarono a piazzale Roma: chiaramente, era pieno. Non
c’erano neanche venti centimetri, non ci entrava
più neanche un triciclo.
L’unico posto disponibile era dal benzinaio, davanti a un
passo carraio, e tra
l’altro abbastanza distante dal piazzale.
-Che facciamo? – chiese Veronica guardando i suoi amici,
quando in realtà era Aurora che guidava, ed era di Aurora la
macchina.
-E vabè, la mettiamo qui – propose Marco
– tanto, vuoi che
controllino proprio stasera?
-Sì, vabè, ma sai te... metti che poi ce la
portano via e ci
ritroviamo a piedi?
Aurora pensava che spettava anche a lei decidere dove
metterla, e che se loro si ritrovavano a piedi non gliene fregava un
cazzo, a
lei interessava TENERSI
-E se proviamo a metterla nel parcheggio residenti? –
suggerì Stefano – Ok, è sempre in
divieto, ma meglio che davanti a un’uscita...
-Sì, ma sai che multa? – intervenne Daisy. Poi si
rivolse ad
Aurora – Te cosa dici? La macchina è tua.
Si ritrovò tutti gli sguardi puntati addosso. Si
guardò
attorno, imbarazzata.
-Ah... – il cervello aveva deciso di non collaborare
più.
Proprio adesso. – Beh,
preferirei che
non stesse in divieto...
-Così, però, ci tocca tornare fino a Mestre, e
trovare altro
parcheggio, e poi prendere il treno – sbuffò
Lucia; Aurora sussultò ed arrossì,
perché l’unica volta che si era permessa di
parlare, era stato per creare
problemi. Ma Lucia non la stava nemmeno guardando. Si rivolgeva agli
altri.
-E quindi, cosa volete fare? – fece Daisy –
Cioè, non è che
l’Aurora può rimetterci la macchina, o i punti
della patente.
Era grata a Daisy perché cercava di coinvolgerla, di
difenderla, di far notare che c’era anche lei; ma stava
soltanto sottolineando
quanto, per l’ennesima volta, lei fosse solamente un impiccio.
-Ma sì – butto lì allora Aurora, con
aria spensierata, come
se avesse partecipato davvero a quello spirito avventuroso –
per una volta!
Dai, è la sera del Redentore, e poi altrimenti sai che
storie riportarla a
Mestre? La lasciamo qui, dai.
Tutti tacquero, guardandosi con aria preoccupata.
Ma come, non andava bene nemmeno così?
-Sì ma non è che possiamo lasciarla qua alla
leggera –
affermò Lucia – cioè, se ce la
rimuovono, siamo a piedi.
-Mh – confermò Stefano – non conviene.
Gli altri sembrarono d’accordo.
Aurora arrossì. Ma se era stata proprio Lucia a lamentarsi
che era uno sbattimento!
Anche se, in realtà, aveva solo detto che era una noia. Non
che ci avrebbe rimesso la macchina, pur di non prendere il treno.
Perché doveva fraintendere, farsi trascinare, buttarsi solo
per compiacerli? Loro non si preoccupavano di compiacerla. Aveva
pronunciato sì
e no due frasi, e tutte e due le volte l’avevano
contraddetta. Perché loro
avevano quel potere?
-Quindi? – Serena alzò gli occhi al cielo.
-Quindi boh – fece Marco.
Aurora abbassò gli occhi. Anche se in realtà lei
aveva fatto
loro un favore, si sentì come se fosse stata colpa sua.
Colpa sua, se non c’era
parcheggio. Colpa della sua macchina, se ora erano impicciati.
-Proviamo dai residenti? – azzardò Stefano.
-Poi arriva la multa.
-La paghiamo tutti assieme, no?
Chissà se l’avrebbero fatto davvero. Ne dubitava
molto.
Nemmeno li conosceva, nemmeno ci parlava, come avrebbe fatto a chiedere
loro
dei soldi?
-Aurora, a te va bene se la lasciamo dai residenti? – Daisy
le toccò un braccio – Poi se arriva la multa la
dividiamo.
-Ok. Per me va bene.
-Perfetto – Daisy sorrise, le mise un braccio attorno alle
spalle – dai, io e te andiamo a parcheggiare, voi aspettateci
qui.
-Guarda lì,
c’è un buco. Come te la cavi col parcheggio a S?
-Me la cavo.
-Attenta, che c’è la bici!
-Cazzo – mormorò nervosa Aurora, e Daisy la
guardò.
Quand’era con loro, con quelle persone che, per quanto
cercasse di tirarla in mezzo, la mettevano a disagio, Aurora cambiava.
Perdeva
il suo fascino, non era più personaggio. Non esclamava
più “wow!”, non
accavallava le gambe, non si metteva un dito ai lati della bocca quando
pensava. Smetteva di essere Susanna Tutta Panna, accarezzata dal vento
in una
decappottabile del Dopoguerra, per diventare una diciannovenne
qualsiasi, che
diceva ‘cazzo’ e metteva musica punk a palla in una
monovolume.
Riuscì a infilare la macchina in quel poco spazio, Daisy si
congratulò, tornarono dagli altri, disse che Aurora
l’aveva infilata in un
posto impossibile, che era stata bravissima.
-Grazie di averci portati – sorrise Serena, e anche gli
altri la ringraziarono.
Aurora fece sbocciare un sorriso raggiante, li guardò tutti
in viso, ma stavano già incamminandosi verso Piazza San
Marco, perché, in
effetti, da un ‘grazie’ non può nascere
nessuna conversazione.
*
Per tutto il tempo in cui avevano
camminato verso la piazza,
Daisy parlò quasi solo con lei. In realtà avevano
ben poco da dirsi, dato che
abitavano assieme e che più o meno le novità le
sapevano già tutte; parlarono
di cose di cui avevano già discusso, e che, nonostante a
casa fossero
interessanti e potessero portare il discorso altrove, lì
sembrarono solo
discorsi trascinati.
-E quindi, col tipo?
-Eh, siamo rimasti come ti dicevo. Forse stasera viene.
-Sì, me lo avevi detto – annuì Daisy
– speriamo che ci sia,
dai.
-Spero, se non ce la faccio stavolta, con lui, mai più, mi
sa.
Quello stesso pomeriggio, la scena era stata diversa; Aurora
era entrata con un gridolino in salotto per annunciare che Lui sarebbe
venuto
al Lido, che forse l’avrebbe incontrato, e Daisy aveva
pontificato che forse
avrebbero fatto una passeggiata al chiaro di luna in riva al mare.
Avevano
riso, fantasticato, esplorato tutte le possibilità, e si
erano divertite. Ma
l’argomento era esaurito. Riesumarlo quella sera non aveva
portato da nessuna
parte.
E Veronica era lì vicino e avrebbero potuto parlargliene,
tanto per aggiungere un nuovo parere all’intera faccenda, ma
se non si
conoscevano, con che faccia parlarle di lui, di quell’Andrea
stronzo che non si
capiva se la cagava o no?
Fu così che Veronica attaccò bottone con Daisy,
loro non si
vedevano da due settimane, avevano tanto da dirsi, cose nuove, cose
eccitanti,
ed erano migliori amiche e avevano voglia di divertirsi. Aurora si
rassegnò ad
ascoltare le vicissitudini di quella ragazza che pure le stava
abbastanza
antipatica, non perché fosse antipatica davvero, ma
perché non le aveva mai
rivolto la parola.
Per fortuna, Venezia era gremita, e lo sforzo di rimanere
compattata col gruppo richiese buona parte delle sue energie, motivo
per cui,
anche se non aveva aperto bocca per quasi venti minuti, almeno ebbe
qualcosa di
cui occuparsi. Arrivarono appena in tempo per vedere i fuochi; gli
altri erano
tutti abbracciati, a coppie, anche se erano coppie di amici, mentre lei
era lì,
in piedi, con le gambe che le facevano male, senza nessuno vicino.
Daisy a un certo
punto si accorse di lei e la prese sottobraccio, ma era diverso;
è diverso
essere con gente che ti vuol bene, con gente che parla la tua lingua,
gente per
la quale è una gioia passare quella sera con te, davanti a
quello spettacolo
meraviglioso.
I fuochi furono bellissimi. C’erano cascate di luce,
ragnatele dorate, quadrifogli colorati, e addirittura pianeti e cuori.
Quando
arrivarono i cuori pensò: ecco,
questi li
hanno progettati per gli innamorati. Una coppia davanti a lei
si scambiò un
bacio. Pensò ad Andrea, alle zero probabilità che
aveva di trovarlo, perché
quelli con cui era venuta non avrebbero di certo cambiato i loro piani
per lei.
Che senso ha?,
pensò. Colori, esplosioni, meraviglia, cielo stellato... e
che senso aveva? Che
senso ha quando avrebbe voluto essere altrove, chiusa in una stanza,
addossata
alle pareti, rinchiusa da qualche parte dove sentirsi coperta da un
guscio, di
modo da non vedere nessuno e da non essere vista a sua volta?
Sentì un bruciore in gola, fortissimo. Poi sentì
un bruciore
più piccolo agli occhi. Ma scesero solo un paio di lacrime,
non più di un paio
di lacrime per alleggerirle quella massa densa e invasiva dentro la
gola.
Quella massa rimase lì a toglierle il respiro.
Si guardò attorno, nessuno si era accorto di lei. Forse
l’avrebbe preferito. Si asciugò lentamente gli
occhi, ma nessuno la stava
guardando, perciò non si accorsero di quel gesto. E poi,
anche se l’avessero
vista, cosa ci avrebbe guadagnato? Assolutamente niente. Il tipo
d’attenzione
sbagliata.
Alla fine dello spettacolo applaudì come tutti gli altri.
Poi si spostò assieme agli altri, sempre senza parlare, e
con gli altri prese
l’ultimo traghetto per il Lido, su cui riuscirono a salire
per pura fortuna.
Durante il tragitto, non fece che guardare l’acqua. Il Canal
Grande era pieno di gondole e barche, piene di persone sorridenti, che
probabilmente erano lì assieme perché si stavano
simpatiche. Un tempo, Venezia
doveva essere straordinaria. Chissà se, duecento anni fa,
qualcuno, in
quell’angolo di canale, si era sentito come si sentiva lei.
Probabilmente no, perché all’epoca le cose erano
diverse.
All’epoca dovevi essere cortese e affabile con tutti, non
potevi permetterti di
mostrare tanto apertamente il tuo disinteresse verso una persona.
Sì, forse
c’era meno libertà, e nessuna
sincerità, ma... avrebbe preferito un’ipocrisia
obbligata, al passare una serata pressoché in silenzio.
Quando scesero, si diressero automaticamente verso le
spiagge. La musica si sentiva per tutta l’isola; gli altri
erano sempre più
eccitati. Si erano comprati qualche lattina di birra in un bar. Aurora,
invece, aveva in borsa una
bottiglia di vodka.
Se l’era portata da casa, prima di partire. Perché
sapeva
che altrimenti non ce l’avrebbe fatta, che non avrebbe potuto
passare un’intera
notte con loro senza almeno una bottiglia di vodka. Aveva messo in
conto di far
guidare qualcun altro al ritorno, o anche, perché no, di
guidare ubriaca e
portarli tutti a schiantarsi contro un guard rail, magari il tutto
seguito da
una plateale caduta nel mare.
Sorrise. Sapeva come cavarsela. Qualunque cosa fosse
successa, c’era la bottiglia, e a ogni sorso il suo cervello
avrebbe ricevuto
un ulteriore colpo, e sempre più stordimento, e alla fine
non avrebbe capito
più niente e lei sarebbe stata salva.
La prima tappa fu il bar. Avevano le birre, ma se c’era un
bar, perché non prendere qualcosa di meglio? Aurora
ordinò uno sherry, che le
faceva tanto stile, ma non ce l’avevano.
-Spritz, se vuoi, Bellini, Caipirinha, Caipiroska, Gin
Lemon, Mojito e Cuba Libre – la informò la ragazza
bionda, gentile.
Non ce n’era nessuno che le sembrasse adatto a lei,
perciò
ordinò un Gin Lemon che almeno era più alcolico
degli altri. La barista le
sorrise, e le preparò il drink velocemente. Nel frattempo
Aurora si sbrigò a tirare
fuori i soldi, perché, grata com’era di quel
sorriso, non voleva farle perdere
tempo.
Si incamminarono verso il cuore della festa e Aurora stava
cercando di decidere se era meglio mandare giù subito il
Gin, e ubriacarsi per
bene, o sorseggiarlo lentamente di modo da avere qualcosa da fare, ma
così
l’effetto sarebbe stato minore.
Al diavolo, aveva la sua bottiglia. Sollevò il bicchiere,
gettò indietro i riccioli neri e in pochi secondi ne
inghiottì tutto il
contenuto. Il Gin scivolò in gola raschiando come carta
vetrata. Sentì caldo;
era a stomaco vuoto, si era tenuta a stomaco vuoto apposta.
-Allora dove le lasciamo le borse? Come facciamo?
-Boh, tipo facciamo che un po’ di noi stanno seduti e le
tengono d’occhio, poi ci diamo il cambio...?
-Eh, sì, ma che palle però...
-Eh ma sennò come facciamo?
-Chiediamo alla barista se ce le tiene?
-Sì, ma se tutti fanno così, sai che confusione?
Non ci
lascerà mai.
-Ok, però io non la lascio per terra, la borsa,
là dentro ho
tutto, soldi, documenti...
-E quindi?
-Dai, proviamo a chiedere alla barista.
Li seguì. Per il momento, si sentiva ancora abbastanza
lucida, ma sarebbe durato molto poco. Stomaco vuoto e buttare
giù un Gin Lemon
così, che era un passo dall’essere liscio,
significava al massimo cinque o
dieci minuti di autonomia. E poi avrebbe perso il controllo.
Sorprendentemente la barista acconsentì: c’era uno
spazio
apposta dove avevano raccolto diverse borse, anche se non se ne
prendevano la
responsabilità. Erano tutti abbastanza su di giri da
decidere che non
importava, e, in fondo, erano sufficientemente ricchi da fregarsene se
sparivano cinquanta euro e una tascapane con le toppe attaccate. Aurora
s’inginocchiò elegantemente e sistemò
la sua borsina di Audrey dritta in piedi;
la aprì con delicatezza e ne estrasse la bottiglia di
Keglevich. Fragola. Se ci
fosse stata la ciliegia, avrebbe sicuramente preso quella.
Daisy la guardò. Anche lei non era esattamente sobria,
perché aveva mandato giù diverse lattine di
birra. Le corse incontro.
-Auroraaaa! La vodka! Ma sei la migliore!
-Sì – si illuminò – vuoi un
po’?
-Ma chiaro che ne voglio un po’!
-Dai, non urlare. Ce la teniamo tutta per noi, ok?
-Certamente! – approvò Daisy. La stapparono, la
bevvero a
turno. Entrambe sorrisero. – Ottima – riprese Daisy
– ah, che delizia, scende
giù per la gola come acqua e zucchero.
Aurora chiuse gli occhi e attaccò le belle labbra lucide al
collo della bottiglia. Bruciava, ma poi sarebbe stata meglio.
-Andiamo a ballare, dai – propose Daisy, e Aurora la
seguì
felice.
Nell’aria c’era Great
DJ, e le due si lanciarono in un ballo sfrenato. Veronica e
Lucia le
raggiunsero e iniziarono a ballare con loro; si abbracciarono, si
avvicinarono,
inventarono passi assieme. Aurora rimaneva per conto suo, ma sapeva che
era
solo questione di tempo; continuò a muoversi e si impose di
non pensarci,
altrimenti non sarebbe mai arrivata.
E poi, all’improvviso, se ne accorse. Aveva chinato la testa
per controllare se la sabbia avesse graffiato la vernice rossa delle
scarpe,
quando sentì che ce l’aveva fatta: un forte
capogiro la tenne immobile per
qualche secondo.
Tacque, guardandosi le scarpe con occhi sbarrati.
Poi sollevò la testa e sentì che le veniva da
ridere. Guardò
Daisy, e rise. Daisy rise con lei, le afferrò il braccio, se
la trascinò addosso,
iniziarono a muoversi vicinissime, i seni che si toccavano, allo stesso
ritmo.
Ma poi gliela rubarono e si ritrovò di nuovo sola, allora
chiuse gli occhi, e
si disse che bastava lasciarla salire; ad un tratto la stecca
salì velocissima,
le gambe iniziarono a pesare, le braccia pesavano anche loro, e la
testa, per
l’amor del cielo, sembrava fatta di piombo e la trascinava
verso terra.
Chiamò Daisy, fregandosene delle altre due.
-Cado! – le disse, e si accorse che la sua voce era diversa,
che strascicava le parole – Daisy vedi, ho la testa che mi
trascina verso
terra. Non riesco a star dritta! La testa va prima verso
destra… poi verso
sinistra… e io non riesco a tenerla su!
-Sei ubriaca? – rise lei.
-Forse! – replicò allegra, e poi pensò,
sono ubriaca!, e capì che
non doveva più preoccuparsi di niente.
Bastava tenere gli occhi rigorosamente chiusi, non guardare, ballare e
cercare
di reggersi sulle gambe. Sentì che la sua presa sulla
bottiglia a volte si
allentava, e allora si imponeva di stringere quelle dita; ma ogni tanto
il suo
corpo dimenticava come si faceva a impartire ordini dal cervello ai
muscoli.
La tua testa oscillava, se ne rendeva conto. Non riusciva a
tenerla dritta, neanche impegnandosi; c’erano quelle ondate
di piacevolissimo
calore che le sballottavano la testa e la costringevano a ondeggiare
qua e là.
Sollevare le braccia era diventato difficile. Riaprì gli
occhi, tanto per
rendersi conto di dove stava andando, perché aveva
l’impressione di non essere
rimasta ferma nello stesso posto.
Infatti era così: Daisy e le altre non si vedevano
più. Non
aveva il coraggio di chinare la testa in avanti per controllare cosa
succedeva
dalla vita in giù, ma realizzò che stava
accavallando le gambe l’una sull’altra
nel tentativo di non crollare a terra. L’intenzione era
quella di camminare, ma
le gambe non trovavano la posizione adatta, continuavano ad appoggiarsi
troppo
in là o troppo in avanti, e lei non riusciva a ricordarsi
come si faceva a
conservare l’equilibrio. Le ondate di vodka e i giramenti non
erano più solo in
testa; si sentiva trascinata da una corrente densa e carezzevole, ma
terribilmente violenta, fatta di ondate improvvise e destabilizzanti.
Doveva aggrapparsi a qualcosa. Gli occhi, ormai, si
chiudevano senza che lo volesse. Li sentiva lucidi e roventi. Faticava
a
mettere a fuoco. Gli arti sembravano pesare quintali, e non riusciva a
capire
qual era la parte giusta, la gradazione giusta, per riuscire a
proseguire
dritta. Di stare ferma, ovviamente, non c’era nemmeno da
sperarne.
Tentò di ballare, perché almeno, muovendosi, non
avrebbe
dovuto cercare di mantenere un equilibrio che assolutamente non aveva.
Funzionava. Ma tenne gli occhi aperti, perché altrimenti non
sarebbe riuscita a
stare in piedi. Sbatté le palpebre diverse volte.
Un’ondata la spinse in
avanti. Sbarrò gli occhi e si spinse verso indietro,
sperando di recuperare una
posizione vagamente eretta. Ma poi un’altra ondata la spinse
verso sinistra,
poi sentì le gambe farsi d’acqua per qualche
secondo. Poi tornarono di carne, e
ci fu un attimo in cui si sentì di nuovo intera. Ma poi
arrivò un altro
capogiro e sentì un maremoto abbattersi su di lei e
spingerla verso terra, e
pensò, qualcuno venga qui e mi
tenga su,
perché non si sentiva in grado di reggersi in piedi.
Ma non c’era nessuno. Sconosciuti, tutti rivolti verso
qualcun altro, tutti impegnati con un’altra persona.
Sorrise, perché adesso non importava, si sentiva
così di
merda per via dell’alcool che non era importante essere sola,
perché in quel
momento la sua unica preoccupazione era quella di stare meglio, e non
aveva
certo il tempo di occuparsi di stupidaggini come la solitudine.
-Aurora?
Cercò di localizzare la voce. Veniva da dietro di lei.
Girarsi era un problema, perché voltare la testa avrebbe
comportato un tale
capogiro da sbatterla a terra nel giro di cinque secondi.
Perciò chiuse gli
occhi e lentamente piroettò sul piede destro.
Quando li riaprì, si ritrovò davanti Andrea.
Lui la guardava divertito.
-Ohi. Sempre ubriaca?
-Ma certo! Sempre! – si sentì ribattere con brio,
e poi fece
un sorriso esagerato – E tu? Quanti cannoni hai fumato
stasera?
-Neanche uno – rise lui – vieni con me? Fumo il
primo.
-Sììì, vengo – fece lei con
un gran sorriso – però mi devi
tenere su, perché vedi, adesso come adesso mi sembra di
avere le palle al piede
dei carcerati che ti tengono a terra, o un’ancora! O meglio
ancora, un filo che
impedisce al palloncino di alzarsi verso il cielo...
-Sì, sì, ok – fece lui con una certa
condiscendenza, comunque
le mise una mano sulla schiena e la guidò gentilmente fuori
dalla folla. Lei
chiuse gli occhi e assaporò quel tocco bellissimo,
così dolce che si sentì
sciogliere, come una camicetta di raso che ti accarezza la pelle.
Ma ad un tratto lui, pensando che fosse in grado di
proseguire da sola, scostò la mano, e lei riaprì
gli occhi; i quali,
disabituati al mondo circostante, vennero invasi da un bombardamento di
luce,
colori, frastuono, persone, voci, tutto mescolato e turbinante. Nel
frattempo
continuava a oscillare da un lato all’altro, e fu costretta a
strizzare gli
occhi a intermittenza per non franare a terra, mentre nello stomaco la
vodka
vorticava e la faceva sentire pesante e nauseata.
Non riuscì a chiamare Andrea, ma solo a sentire un nodo
nella gola. La gente continuava a muoversi. Avrebbe voluto chiamarli
uno per
uno e dire aiuto, ma non riusciva a
parlare, e quel briciolo di lucidità che le era rimasta le
bisbigliava di non
farlo. In quel momento, però, riuscire a non cadere era
più importante che fare
una figura di merda, in quel momento erano tutti buoni, tutti disposti
a
perdonarla, tanto a lei cosa gliene fregava? Era allegra, era
spensierata, che
importava?
-Andrea – biascicò, così piano che si
sentì a malapena.
Lui, comunque, dopo un po’ tornò indietro a
recuperarla,
guardandola con aria interrogativa.
-Oh, ce la fai?
Lei scoppiò a ridere, felice, perché lui era
tornato a
cercarla. L’abbracciò forte.
-Portami via da qui – gli mormorò in un orecchio.
-Va bene. Andiamo verso la riva, allora.
-La riva! Benissimo! Bellissimo! Non aspettavo altro!
Probabilmente lui pensò che fosse completamente andata, ma
non era così. Era vero che non aspettava altro. Che voleva
stare sola con lui
dove le onde ti sfiorano dolcemente i piedi, che voleva guardare con
lui
l’orizzonte e stupirsi di una stronzata come le stelle in
cielo.
Com’era bella la notte. Com’era bello il mondo, in
quel
momento. Così dolce, e leggero, e inoffensivo, e
così pieno e trascinante da catalizzare
tutta la sua attenzione, di modo da farle dimenticare
dov’era, e con chi era, e
cosa stava facendo.
Ma adesso, con lui... adesso non era il momento di essere
ubriaca, no? Adesso avrebbe voluto essere sobria, e parlare con lui di
cose
importanti, e dargli un pezzo di sé stessa e magari
ricevere, nella mano aperta
a coppa, anche un piccolissimo pezzettino di lui.
-Ce la fai a sederti?
-Ma sì, ma
scherzi? Vuoi che non riesca a sedermi? Guarda, ce la faccio benissimo,
guarda
– piegò le gambe, finì subito ginocchia
a terra. Lo spostamento le fece girare
la testa e lui dovette afferrarla prima che cadesse in avanti di
faccia. A quel
punto, lui la sorreggeva tenendole una mano sulla schiena e una sulla
pancia;
finalmente, qualcosa la teneva dritta e ferma, e lei si permise di
lasciarsi
andare.
-Oh, non buttarti! Sta’ attenta, guarda che ti faccio cadere
– fece lui, ridendo, e la posò piano piano sulla
sabbia.
-Nooo, non mi farai cadere – mormorò con una
vocina
dolcissima – dai, vieni qui vicino a me.
-Lasciami fumare ‘sta canna.
-NO, ti ho detto di venire vicino a me, brutto stronzo –
esclamò, mentre si rendeva conto che non riusciva
più a parlare con la solita
velocità, che le parole uscivano lente – sono
ubriaca, non vedi? Vuoi lasciare
sola un’ubriaca in queste condizioni?
-Il tempo di una canna, dai, ci metto cinque minuti.
-Ho aspettato per mesi! Non voglio i tuoi cinque minuti –
piagnucolò, mentre pensava a cos’altro dire, che
altre scemenze sparare, per
non pensare a cosa le era appena venuto fuori dalla bocca.
-Cosa...?
-Ma niente – fece lei, e si portò la bottiglia
alla bocca.
Sapeva che era una follia, ma buttò giù qualche
sorso, tanto per darsi un tono.
La testa e lo stomaco girarono così forte che
ringraziò il cielo di essere già
a terra.
Lui, nel frattempo, aveva già bruciato il fumo, preso il
tabacco e girato la cartina.
-Tieni – le disse, porgendole un biglietto
dell’autobus – renditi
utile, fammi un filtro.
Lei allungò la mano sottile, da pianista, verso il filtro, e
le loro dita si sfiorarono. Ebbe un brivido. Solo sfiorandogli le dita,
si
sentiva percorrere da una corrente deliziosa.
Tese le braccia sopra di sé e cercò di strappare
un pezzetto
di carta abbastanza piccolo. Ne uscì una cosina tutta
storta. Lo sistemò come
poteva ed iniziò ad arrotolarlo alla bell’e
meglio, poi lo scrutò, anche se in
realtà non lo vedeva molto bene, e infine allungò
un braccio alla sua destra,
dove stava Andrea, senza controllare dove andava a finire la sua mano.
Gli diede un colpetto sulla coscia col pugno chiuso. Lui
afferrò il filtro.
-Troppo sottile – considerò, con occhio esperto
– ma te non
fumi?
-No – replicò lei – ma vorrei avere un
lungo bocchino nero e
del tabacco sciolto.
-Bocchino che?!
-No, non quei
bocchini, cretino – disse, prima di ricordarsi che avrebbe
dovuto coprirsi la
mano con la bocca e spalancare gli occhioni in un’espressione
stupita – quelli
per fumare. Li usavano una volta.
-Boh – fu la risposta di Andrea, che stava dando i primi
tiri.
-Sai, a volte penso di essere nata nella metà sbagliata del
secolo. A me interessano le cose di una volta. Gli spettacoli davanti
ai
soldati, gli abiti rossi aderenti, i boccoli di Marylin e il suo
vestito
bianco; la musica suadente, le trombe, You
go to my head... la conosci?
-Cosa...
-You
go to my head.
-E cos’è?
-Una canzone stupenda. Mi fa venire in mente film in bianco
e nero, uomini in smoking e brillantina sui capelli, lo swing, il
twist, e
donne con vestitini attillati ed enormi cappelli di paglia in testa,
pieni di
fiori e nastri e frutti. Feste nei salotti, lampadari di cristallo,
magari un
pianoforte e una piccola orchestra... altri tempi...
-Uh – fece lui, che iniziava ad avvertire qualche effetto.
-Una volta era tutto così affascinante. Le donne erano
così
affascinanti. Innocenti e ammalianti allo stesso tempo. Mi gira tanto
la testa.
Vorrei essere una di loro. Sto male, Andrea, sai? Tu come ti senti?
-Mh – articolò lui – eh, dai, bene
– aggiunse; anche la sua
voce era cambiata.
-Vodka?
-No, non bevo. Da quando ho scoperto le meraviglie del fumo,
ho smesso di bere.
-Posso cantarti quella canzone?
-Vuoi cantare? – rise lui.
-La posso cantare? Eh?
-E canta – lo sentì esalare, prima che si gettasse
a stella
marina sulla sabbia assieme a lei.
-You
go to my head... – iniziò
con una vocina incerta – and you
linger like a haunting refrain...
and I find you spinning round in my brain... like the bubbles in a
glass of
champagne...
Lo guardò. Stava fissando il cielo, senza espressione. Continuò.
-The thrill of the thought that you might
give a thought to my plea cast a spell over me –
proseguì, più sicura – still
I say to myself, get a hold of
yourself... can’t you see that it never can be…
A quel punto si fermò, perché si sentiva triste,
perché in
realtà non era capace di trattenersi e prendersi cura di
sé stessa, e perché
lui non la voleva, preferiva fumare una canna piuttosto che scambiare
una
parola sensata con lei.
Ma poi Andrea allungò una mano e la posò
vicinissima alla
sua, e lei sussultò. Le loro dita si stavano toccando. Piano
piano, sfiorandosi
caute, quasi non volessero ammettere che stavano cercando di unirsi,
finirono
con l’intrecciarsi.
Aurora chiuse gli occhi, felice. Avrebbe voluto che l’alcool
non le pulsasse nel cervello, perché era felice.
-You
go to my head, with a smile that makes
my temperature rise... you intoxicate my soul with your eyes...
Sentì dei lievi strattoni alla mano. Si voltò
verso di lui,
che la stava guardando e sorrideva.
-Hai capito quello che ho cantato?
-Neanche una parola – ridacchiò – faccio
schifo in inglese.
-Io invece sono bravissima.
-Oh, lo sappiamo che tu sei un genio. Però...
La strattonò più forte. Lei rise e gli diede una
piccola
spinta. Lui gliela restituì, e lei cercò di
dargli qualche pugno sul petto, ma
lui riusciva sempre a bloccarla.
-Adoro la forza degli uomini – mormorò incantata
– il modo
in cui sapete fermarci se cerchiamo di colpirvi. Il fatto che arrivate
sempre a
quel libro in alto sullo scaffale che noi non riusciamo a prendere. E
quando ci
aprite quel tappo che sembra incollato alla bottiglia... siete
meravigliosi.
Lui si avvicinò, e, senza guardarla in viso, le
posò la mano
sulla linea del fianco che sbocciava. Aurora era orgogliosa di avere la
vita
stretta e le curve tonde delle donne di quegli anni. Si
sentì bellissima, e
sensuale, e si avvicinò a lui.
I loro nasi quasi si sfioravano, e loro continuavano a
fissare le reciproche labbra. Lui l’accarezzò
dalla vita fino all’altezza del
seno. Lei si sentì invadere dal piacere.
Fu il tempo di alzare il mento di qualche millimetro, e le
loro labbra si sfiorarono; erano morbide e sapevano di fragola e fumo.
Si
diedero un lento, caldo bacio. Aurora sentì il suo intero
corpo accendersi e
imperarle di avvicinarsi a lui; premette il seno e il bacino contro il
corpo di
Andrea. Lui le mise una mano sulla schiena e la strinse ancora a
sé. Il bacio
si fece più appassionato.
-Andrea – mormorò quando si staccarono –
poi rimarrai qui
con me, vero? Voglio dire, non mi lasci tornare da loro, vero?
Andrea la baciò ancora, di slancio, e il gesto la
agitò
talmente che si sentì impazzire; le sue mani schizzavano
sulla schiena di
Andrea, sulle sue spalle, sui suoi fianchi, le sue gambe.
-Ti amo – sussurrò – no, non lo so, non
sono sicura, ma in
questo momento, ti amo.
Lui le prese una mano e se la portò alla cintura. Lei
slacciò il bottone e tirò giù la
cerniera; gli infilò la mano nei boxer ed
iniziò a fargli quella sega che lui esigeva. Mentre muoveva
la mano su e giù,
lui aveva smesso di toccarla, e se ne stava teso, ad occhi chiusi, ad
aspettare
di venire; dipendeva dai suoi movimenti. Il pensiero che dipendesse da
lei la
stregava. Si chinò in avanti e lo prese in bocca; lui ebbe
un sussulto, e,
quando iniziò a leccarlo, lo sentì gemere.
Lei avrebbe voluto portare le cose fino in fondo, ma voleva
anche vederlo venire. Sollevò lo sguardo verso di lui
dall’altezza della
cintura, con le labbra rosso vivo strette attorno al suo sesso.
Quell’immagine
sembrò eccitarlo ulteriormente. Al che Aurora riprese il suo
lavoro, mentre lui
le stringeva le mani sulla testa; fu con la passione di una devota che
continuò
a farlo entrare fino in gola, noncurante del dolore alla mascella.
Alla fine, un attimo prima di venire, lui le staccò la
testa, ma lei voleva ingoiare, e così, a metà
strada, si ritrovò la bocca
lucida di sperma. Alcune gocce le colavano sul mento, e lei
guardò Andrea senza
batter ciglio, piegando la testa di lato.
Lui si era sdraiato sulla sabbia, ansimante, e aveva un
braccio posato sugli occhi. Aurora s’inginocchiò
vicino al mare e raccolse un
po’ d’acqua con le mani a coppa; si pulì
meglio che poteva, poi gattonò fino a
lui.
Si sentiva assonnata. L’alcool, ricordò, dopo
averti stordito,
ti mette un sonno terribile; lei in quel momento era nella fase di sono
terribile. Andrea non accennava a rialzarsi e lei aveva soltanto voglia
di
dormire un po’; quindi si appoggiò al suo petto e
chiuse gli occhi, sperando di
smaltire il gin e la vodka, sperando che smettessero di ribollirle
nello
stomaco e che quella sensazione di malessere passasse presto.
Ma non passava. Ci voleva un bel po’ prima che passasse,
almeno una nottata, e adesso doveva soltanto stare calma ed evitare di
alzarsi
in piedi, perché, giunti a quello stadio, fare qualcosa di
diverso dallo stare
accasciati a terra era assolutamente impensabile.
Ad un tratto, il telefono di Andrea squillò. Seppur a
fatica, lui riuscì a recuperarlo nella tasca anteriore, e
rispose in modo abbastanza
scazzato.
-Pronto – brontolò. – In spiaggia.
Sì. Adesso? Eh... sì, ok,
dai. Sì ma dammi un attimo. Va bene? Sì. Va bene.
Sì. Ciao, ciao.
Aurora sollevò gli occhi su di lui.
-Devo andare – le spiegò – i miei amici
vogliono tornare a
casa.
-Non andare – disse lei, angosciata – non voglio.
-Che hai?
-Non andare – ripeté, sempre più
concitata – per favore.
Rimani qui.
-Sì, ma devo andare – sorrise lui – mi
chiamano i miei
amici. Devo tornare con loro.
-Non è giusto – disse lei, e poi
sbadigliò – no... non è
giusto.
Lui sorrise ancora, ma iniziò ad alzarsi.
-Serve una mano? – le chiese – Ti riporto dagli
altri?
-No.
Adesso non ne aveva voglia. Adesso voleva solo dormire. Per
favore, lasciatemi dormire. Al resto
penserò dopo.
-Vuoi rimanere qui? – chiese lui ridendo – Guarda
che ti
stuprano.
-Figurati.
-Allora ciao. Non fare cazzate – le disse lui, con la sua
consueta aria divertita.
Lei chiuse gli occhi, serena. Amava quel modo che aveva lui
di essere sempre tranquillo e pronto allo scherzo. A ridere sempre,
anche se
non si stava scherzando. E anche quando le aveva raccontato che
l’avevano
cacciato di casa, che nessuno gli parlava nella sua famiglia, che non
gli
davano un soldo da mesi, che doveva tirare avanti vendendo fumo... lo
aveva
fatto sorridendo. Dicendo che, sì, beh, era un tipo
ottimista.
Quindi perché lei doveva crucciarsi tanto?
Era perché stava così ubriaca da non riuscire ad
alzarsi?
Perché era uscita con sei persone e nessuna di queste le
rivolgeva la parola?
Perché in mezz’ora che era stata via nessuno
l’aveva mai
cercata, nemmeno la sua coinquilina?
Perché il ragazzo che le piaceva l’aveva lasciata
sola su
una spiaggia di notte, senza il minimo pensiero?
O perché le parole ‘ti amo’ gli erano
scivolate addosso, e
perché, quando aveva provato a parlargli, lui le aveva
semplicemente fatto
cenno di far andare la mano?
Probabilmente per tutte. Non riusciva a piangere, no, non
voleva pensare che fosse tanto grave da piangere. Ma allora
perché stava sola
su una spiaggia sconosciuta, alle due di notte, con una bottiglia mezza
svuotata in una mano e residui di sperma rappreso sul viso?
Sospirò. Non poteva farci niente. Le cose stavano
così e
basta, indipendentemente da quanto la rendessero triste.
Ma prima o poi sarebbero cambiate, no? Prima o poi, le cose
sarebbero cambiate. Non poteva continuare così per sempre.
Continuò a vagare sul
lungomare per un po’.
Incontrò diverse persone: coppiette che, come lei, avevano
cercato un posto dove isolarsi un po’; spacciatori; stronzi
in cerca di
ragazzine da infastidire; amici che cantavano Albachiara
mentre uno suonava, malissimo, la chitarra; altri ancora
si erano lanciati in un coraggiosissimo tuffo nell’acqua
notturna. Lei li
guardava tutti: alcuni la ricambiavano, altri no. Nessuno di questi
attirò
particolarmente la sua attenzione.
Sperava che avrebbe trovato qualcuno di speciale, qualcuno
che si sarebbe accorto di lei, qualcuno che sarebbe stato conquistato
al primo
sguardo dal suo fascino un po’ retro;
qualcuno che la capisse. Non lo trovò. Continuò
semplicemente a camminare sulla
spiaggia, pensando che le persone speciali non sono sole, non sono sole
su una
spiaggia nel mezzo di una festa: sono in mezzo alle grandi compagnie,
fulcro di
risate, chiacchierate degne di un ricordo, da qualche parte a
scambiarsi baci
indimenticabili.
Le persone speciali non sono sole. Questo pensò.
Le venne in mente una canzone degli 883, Gli
Anni, che parlava di ricordi di
gioventù. Degli Anni, con la maiuscola e
l’articolo determinativo. Di quelli
che ci ripensi, ci sorridi e dici: ah, quegli
anni. Quanto mi sono divertito, a vent’anni.
L’Università. I primi viaggi
in macchina con la compagnia. Le marche di moda, provarci con le
ragazze. Le
figure di merda, continuò a pensare Aurora, e ridere, e
tentare, e fare cose
proibite, le prime scelte, rinunciare, perdere, soffrire, fare mattina,
fare
cazzate, e sentire che è impossibile che un momento simile
torni, perché è il
massimo. Raggiunto il picco, può esserci solo la discesa.
E poi il momento svanisce.
Sei adulto; ti rimangono solo i ricordi di quando le cose
erano facili, dorate, luminose.
Aurora pensò: non mi rimarranno nemmeno i ricordi.
Si sedette sulla spiaggia. Le gambe non la reggevano davvero
più; in quel momento realizzò che non le
importavano le conseguenze, ma aveva
bisogno di sdraiarsi, chiudere gli occhi, non ascoltare altri suoni se
non
quello delle onde e convincersi di essere morta: dove nessuno poteva
toccarla,
dove niente di male poteva succedere, dove il tempo era immobile e non
poteva
arrivare più niente a ferirla fino a questo punto.
Dio, se esisti,
aiutami. Fai che le cose cambino. Non lasciarmi così per
sempre.
Dio tacque con aria saggia. Le stelle le dissero:
c’è molto
altro al mondo.
Ma dove poteva andare? Dove, con quella sbornia terribile? Cosa
poteva fare lei, così piccola, così triste?
Non arrivò nessuno a consolarla. Nessuno le si sedette
accanto per chiederle cos’avesse, nessuno la
salvò. Aurora rimase lì, a pochi
metri da un gruppetto che beveva in allegria, ascoltò le
loro voci felici, si
addormentò.
Si svegliò quando qualcuno urlò un po’
troppo forte e,
temendo che fosse molto tardi, si costrinse ad alzarsi in piedi ed
andare a
cercare gli altri.
Alla fine dovette tornare in spiaggia, perché fu
lì che,
recuperate le borse, si trasferirono. Stranamente, nella sua
c’era ancora tutto;
in quella di alcuni altri no, ma nessuno se ne preoccupò
veramente. Lei si
appoggiò a Daisy e chiuse gli occhi, sempre più
stanca; dormire le andava
benissimo, perché tanto in quel tempo non avrebbe di certo
fatto niente di divertente,
perciò tanto valeva che si riposasse.
Nessuno la svegliò o le rivolse la parola in nessun modo.
Aurora si sentiva così tagliata fuori, così
invisibile, così inutile, che a un
certo punto uno strano pensiero le balenò in testa.
Se io non conto niente
per loro, e non mi devono nemmeno una parola di
cortesia…neanch’io allora devo
a loro niente. Tantomeno un passaggio in macchina!
O qualcosa del genere.
L’idea la allettava. Non era totalmente sicura di quel che
progettava di fare; d’altronde, questo avrebbe significato
tagliare
definitivamente i ponti con loro, e, probabilmente, trasferirsi a
Padova per
evitare brutte sorprese sul portone di casa.
Sbadigliò. Non trovava motivi abbastanza buoni per alzarsi.
Guardò le stelle, quella stronzata delle stelle. Quella
stronzata delle stelle.
*
Aurora rideva mentre la radio mandava a tutto volume uno dei suoi CD, e adesso c’era Rama Lama Ding Dong, e lei adorava fare la doppia voce. Si stava divertendo. Stava guidando un po’ male, ma tutto era a posto, lei era felice, si sentiva bene con l’aria che entrava dal finestrino e le accarezzava dolcemente la guancia, mantenendola sveglia. Accennò qualche mossa, cantò a squarciagola. Pensò che il panorama di Venezia che si allontana era bellissimo, che il vento tiepido sul viso era bellissimo, che il mare era bellissimo e luccicante perfino a quell’ora.
(Nda: che parto!
In realtà questa storia è stata scritta in due
tempi, e
questo perché ero indecisa: finale figo ma surreale, o
finale amaro ma
verosimile? Ho scelto ‘amaro ma verosimile’, anche
se poi ho voluto darci un
goccino di ottimismo alla fine. Gli stronzi sono rimasti a piedi XD.
Nel
progetto iniziale finiva peggio :P.
Questa canzone è nata ascoltando Giorni
a Perdere e Aurora
Sogna, due canzoni dei Subsonica, le uniche che io riesca ad
ascoltare di questo gruppo. Anzi,
la seconda nemmeno mi piace. In pratica, siccome entrambe parlano
più o meno
della stessa cosa, volevo dipingere una ragazza che per trascinarsi
attraverso
i giorni si distrugge ogni notte a furia di alcool e droga. La volevo
una
discotecara tossicodipendente, possibilmente affetta da un disturbo
dell’alimentazione,
poiché è di questo che parla Aurora
Sogna.
Ma in realtà era sulle sensazioni di Giorni
a Perdere che mi volevo concentrare, e così ho
fatto: niente discotecare,
niente droga e niente disordini alimentari. Solo alcool, notti che non
finiscono mai e sesso vuoto.
Non so cosa pensare di com’è venuta fuori questa
storia. X_x
mi piacerebbe sapere se ha trasmesso qualcosa, oppure se è
meglio che mi
dedichi ad altro XD.
Grazie comunque di aver letto. ^^)