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Autore: The Corpse Bride    25/08/2008    4 recensioni
"Stanca, sembri solo stanca nella notte bianca d’indifferenza che
parla, mentre guida parla,
seguitando parla, fa il grande ed offre lui… e il giorno non c’è più.
Radio, voci tra i rumori, pausa idrocarburi
e cessi luridi, e bere
fondi di piacere in polvere e partire… è in vena ed offre lui.
Giorni a perdere per notti a far finta che sai vivere, sciogliere scorie nel vuoto che c'è senza guardare mai sotto di te.
Luci, gente indifferente vortica nel niente, puoi sempre ridere; e stare, non ci vuoi più stare, forse vomitare che in fondo è facile… che è sempre facile.
Mani, chiede le tue mani, i tuoi discorsi strani non gli interessano; mani, tra le gambe mani, forse è già domani... o è un altro attimo.
Fuori, scappi ed esci fuori, fuori dai rumori; è notte limpida
di stelle, tra le insegne stelle, di bambina stelle indifferenti... e scoppi a piangere."
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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-Oh, sei pronta?
-Ci sono! Sono qui! Dammi un secondo, eh? Un secondo solo.
Aurora cercò di stendere l’eye liner meglio che poteva, ma, presa dalla fretta, fece una piccola sbavatura. Sbarrò gli occhi. Non poteva correggerla in macchina, anche perché guidava lei; doveva per forza sistemarla adesso, e Daisy le stava mettendo fretta. E va bene, pensò. La saliva è il miglior detergente; si bagnò la palpebra, l’asciugò alla bell’e meglio, diede un’altra passata.
-Già meglio – mormorò tra sé e sé.
Si concesse un attimo per guardarsi nello specchio grande dell’entrata.
Quella sera si piaceva: era proprio nel suo stile. A lei piacevano gli anni Sessanta, Elvis Presley, i Beach Boys, i caschetti, i pois, gli abitini, il doo-wop, il bianco e nero, i sassofoni e le voci languide. O almeno, questa era l’idea che si era fatta lei.
Daisy – che non si chiamava Daisy ma aveva riadattato allo scopo il suo cognome, Dainese – aveva tentato di spiegarle che a quel tempo c’erano anche Jimi Hendrix, i Beatles, i Rolling Stones, John Coltrane, che stava addirittura nascendo il reggae; e che forse, ma forse, aveva esagerato con Grease, e che si era vista qualche film d’epoca di troppo.
Niente da fare.
Aurora continuava ad adorare le pin-up, a tagliare i bei riccioli neri corti come Betty Boop, e a portarsi in giro la fida borsa di Audrey Hepburn, perché lei si sentiva un po’ Holly e un po’ Gatto, diceva.
Così Daisy finì per lasciarla vivere nella sua idea di anni Sessanta, che lei confondeva un po’ con i Trenta, un po’ con i Quaranta, un po’ con i Cinquanta e un po’ con le tendenze di quell’estate, che avevano riportato in voga qualcosa di vagamente simile a quegli anni.
-Ok! Prontissima! Si va?
-Eh, se ti muovi, si va.
-Ow – s’imbronciò Aurora, facendo sporgere il labbro inferiore. Quelle belle labbra rosse, piene, piccole, un cuoricino di caramella al posto della bocca: le perdonavi anche quell’atteggiarsi a pubblicità americana di metà secolo.
… sì, ma perché, quella volta, a Cristina Aguilera era venuto in mente di far uscire il video di Candyman? Aveva creato un mostro.
Daisy sospirò, pensando che, oltretutto, a Mestre qualche idiota aveva avuto la splendida idea di aprire un negozio di Betty Boop, dove Aurora potesse trovare tutte le culottes, le ciliege e i pois di cui aveva bisogno. Lei e la commessa, manco a dirlo, erano amiche per la pelle, non per niente Aurora le stava pagando il mutuo della macchina.
Sentì ticchettare; era lei, con i suoi dieci centimetri di tacco in vernice rossa, che correva a passettini leggeri verso la porta.
-Dai, che ci aspettano. Dobbiamo ancora tirare fuori i sedili posteriori.
-Ops! – esclamò Aurora, mettendo una mano davanti alla bocca ad ‘o’ – Come facciamo?
-Eh, a questo punto, non facciamo. Aspettiamo di trovarci con gli altri e gli chiediamo se ci danno una mano loro. Basta che ti muovi, però.
-Scusami!
All’andata, fece guidare Daisy. Non le piaceva quella monovolume; a lei piaceva la Mini Cooper, l’unica macchina in circolazione che avesse un minimo di gusto vintage. Non potendo permettersi qualche macchinone d’epoca come nei film con Sofia Loren, si sarebbe accontentata… ma costava trentamila euro, accidenti se costa essere fashion.
Si trovarono con gli altri; amici di Daisy, gente che la sua coinquilina frequentava, gente che Aurora cercava di farsi stare simpatica senza riuscirci assolutamente.
E come poteva?
Lei era tutta gambe accavallate, esclamazioni con tono frivolo, e vestitini da non sporcare; loro erano creste colorate, borchie e birra rovesciata sul pavimento. Ma non erano queste, le cose che le impedivano di farseli andar giù; perché Daisy aveva i capelli metà rosa e metà azzurri, e quella sera indossava un kilt sulle calze strappate e un paio di anfibi da militare, ma ci andava d’accordo lo stesso.
Scesero dalla macchina.
-Ciao Daisy! Come stai?!
-Ohi, Daisy.
-Daisy! Quanto tempo, cazzo.
-Ciao Daisy, com’è andato l’esame?
Poi, uno di loro sembrò ricordarsi di Aurora. Un tipo. Le fece un cenno con la testa.
Lei sfoggiò il suo miglior sorriso, ma lui si era già voltato a dire qualcosa a qualcun altro.
E siccome le chiacchiere con Daisy erano già partite, nessuno si preoccupò di fare ciao con la mano ad Aurora, che se ne stava dietro alla sua amica, fuori dal cerchio di persone, a guardare tutti sorridendo nella speranza che uno di loro la notasse e le rivolgesse la parola.
Eppure, si era messa quel vestitino apposta. Era uno dei suoi preferiti; rosso, con i pois bianchi, un fiocco sul petto e un nastro in vita; ampio, con un volant di velo che le accarezzava le gambe. Le piaceva l’idea di avere stile, di essere particolare, di catturare l’attenzione e destare una qualche curiosità: lei, se si fosse vista per strada, si sarebbe girata a guardarsi.
Ma loro no. A quanto pare, non aveva nessuna importanza, lì, il modo in cui ti vestivi, anche se in effetti loro erano tutti vestiti uguali, il che poteva significare che in realtà la faccenda non era di così poco conto.
Sospirò. Ma cosa le era venuto in mente, di andare a studiare alla Ca’ Foscari? Perché le era venuta quell’idea? Padova era una città così bella, l’università era la più rinomata d’Italia, perché aveva voluto andare a Venezia, trasferirsi, cambiare città?
Certo: era felice di aver trovato una coinquilina come Daisy, e Venezia le piaceva, e anche l’università; si trovava bene. Ma era stata costretta a cambiare giri, trovare una nuova compagnia. Daisy aveva pensato che potesse integrarsi nella sua; l’aveva, ingenuamente, pensato anche Aurora.
Solo che non era andata così. Quello che per Daisy era un gruppo meraviglioso di amici del cuore, fidati, leali, sempre presenti, si era rivelato un manipolo di persone chiuse nel loro gruppetto esclusivo, dove non c’era spazio per nessun altro, perché i ruoli, i legami, le amicizie, erano già consolidati da anni. E Aurora era soltanto una ragazzina fissata con la moda che era lì per caso, per una sera o due, una che potevano anche ignorare, perché non era destinata a rimanere.
Mentre Aurora, beh, Aurora aveva in progetto di rimanere, invece, almeno per qualche anno, almeno fino alla conclusione della triennale.
-Ragazzi, per cortesia, ci date una mano a tirare fuori i sedili? La macchina dell’Aurora ha sette posti, ma non abbiamo fatto in tempo a metterli su.
-Sì – fece un ragazzo, deciso – dove sono questi posti?
-Sotto il bagagliaio – intervenne Aurora, ma lui non la sentì, perché si era rivolto a Daisy.
-Sono sotto il bagagliaio – ripeté Daisy, e guardò Aurora – fagli vedere dove sono.
Annuì e guardò questo ragazzo, Stefano si chiamava, per accertarsi che si fosse accorto di lei. Quando fu sicura che la stava seguendo, proseguì fino alla macchina, ma a metà strada non sentì più i suoi passi dietro di lei; si voltò e vide che si era fermato a discutere con un altro tipo di qualcosa.
Aspettò, guardando prima la macchina, pezzo per pezzo, poi l’asfalto, poi il cielo, poi i palazzi, e poi si voltò verso di lui; Stefano la stava sorpassando e si dirigeva verso la macchina con passo spedito. Si affrettò a seguirlo.
-Ecco, vedi, adesso bisognerebbe togliere questi due pezzi qui, e poi i sedili vanno tirati su da sotto – spiegò, felice di essere utile, indispensabile, di poter essere la sola a dare quelle informazioni.
-Ok – annuì questo, guardando nel bagagliaio – va bene. Marco! – gridò, rivolto verso il tipo di prima – Vieni a darmi una mano con ‘sti sedili.
‘sti sedili, Aurora assaporò il gusto amaro di quelle parole. I sedili erano stati il suo momento di attenzione, l’unica cosa di cui lei poteva parlare, il solo apporto che lei aveva dato alla serata. Per lei erano importanti, ‘sti sedili, le erano serviti per non essere invisibile. Per loro, invece, erano solo una faccenda da sbrigare il più presto possibile.
In un paio di minuti riuscirono a montarli, e tutto ciò che le dissero fu “mi tieni questo un attimo, per favore?”. Poi arrivarono gli altri, gridando, ridendo, abbracciandosi.
Stavano andando a vedere i fuochi del Redentore a Venezia, in piazza San Marco, e poi sarebbero andati al Lido a ballare, perché c’erano le feste sulla spiaggia e alle sei, o almeno così dicevano, c’era la colazione gratis. Una bellissima idea, pensava Aurora, se sei con degli amici. Ma se sei con gente che si ostina a non considerarti, le ore possono sembrare lunghe.
Daisy si sedette dietro con la sua migliore amica, Veronica, con la minigonna cortissima e le autoreggenti coi teschi. Scherzavano, si raccontavano le ultime cose, cazzate sui compagni d’università, sui genitori, sulla musica che avevano scaricato; argomenti accessibili a chiunque, in effetti... a patto che avessero modo di entrare nella conversazione. Le altre persone presenti si inserivano a intermittenza quando volevano, ma lei, che nemmeno era stata salutata, come poteva infilare una parola?
-Aurora, possiamo aprire i finestrini? – disse ridendo Marco, che stava sorseggiando una birra; avrebbe sporcato la macchina, ma non osava dirglielo, non osava rovinargli il buonumore per paura di essere ignorata ancora di più – Li possiamo aprire tutti?
-Certo! Nessun problema – fece allegramente, come se fosse stata una di loro, come se fosse stata parte di quel momento fatto di risate, birra, finestrini spalancati a centocinquanta all’ora; ma le bastò guardarlo, vedere che si era già rivolto a qualcun altro, per capire che non c’entrava niente. Che non c’era mai entrata niente.
Per fortuna poteva guidare; almeno quello, per ora, era qualcosa da fare. Si concentrò sulla strada, e sulle canzoni per radio; in realtà non le sentiva nemmeno, perché tutto quel vento faceva un frastuono terribile, ma erano meglio di niente. Meglio che ascoltare chiacchiere sulle quali non avrebbe mai potuto dire nulla, meglio che ascoltare il silenzio che la circondava.
Ogni tanto, qualche frammento di dialogo la raggiungeva.
-No perché poi Gio era marcio e si è fatto la Sissi, e tipo sai che lui stava assieme alla Giulia, no? Ma tipo avevano bevuto non so quanti litri di birra…
-Sì no ma perché poi cioè alla fine io faccio quello che voglio, ti sto bene, ok, non ti sto bene..
-Mi spaccano i coglioni perché ho mollato e non lavoro, ma ormai aspetto il prossimo anno accademico e cambio, perché…
-E quindi la scorsa settimana, vi siete visti?
Aurora taceva. Guardava Daisy che si spintonava con Veronica, dicendole ‘cretina’ e quell’altra che rideva, vide Marco e Stefano passarsi la bottiglia, e Serena, la tipa seduta davanti assieme a lei, perennemente girata verso quelli dietro.
Li conosceva appena, non le piacevano, ma erano nella sua macchina a divertirsi senza darle retta.
Sospirò di nuovo. Sarebbe finita, quella serata. Anche le altre serate, poi, finivano. Aveva i suoi metodi, per accelerare, e quella sera al Lido li avrebbe messi in pratica.
-Aurora, metti su sto CD? – le chiese Daisy, sorridente, divertita.
-Certo! – replicò, mettendo su un’aria felice, come se non aspettasse altro che mettere su quel cd pieno di roba che le faceva schifo.
Partì Anarchy in the U.K. e tutti impazzirono; si levarono le cinture, si sventolarono fuori dal finestrino, si rovesciarono le lattine addosso. Rischiava il ritiro della patente, una multa e che suo padre l’ammazzasse per come si stava riducendo la macchina. Trasalì e Serena notò che li stava guardando, così chiamò i due ragazzi seduti dietro.
-Oh, ragazzi, la macchina è dell’Aurora! Cercate di non smerdargliela.
-Hai ragione!
-Scusa, Aurora! – Marco alzò una mano in segno di scuse, ed entrambi misero giù la birra; ma continuarono a ridere per i cazzi loro, già mezzi ubriachi, mentre cantavano I wanna be anarchist a pieni polmoni.
-Tranquilli – disse, ma non si accorsero di lei, persi nelle loro sghignazzate. Nemmeno Serena fece più caso a lei, e continuò a chiacchierare con Daisy e Veronica.
Arrivarono a piazzale Roma: chiaramente, era pieno. Non c’erano neanche venti centimetri, non ci entrava più neanche un triciclo. L’unico posto disponibile era dal benzinaio, davanti a un passo carraio, e tra l’altro abbastanza distante dal piazzale.
-Che facciamo? – chiese Veronica guardando i suoi amici, quando in realtà era Aurora che guidava, ed era di Aurora la macchina.
-E vabè, la mettiamo qui – propose Marco – tanto, vuoi che controllino proprio stasera?
-Sì, vabè, ma sai te... metti che poi ce la portano via e ci ritroviamo a piedi?
Aurora pensava che spettava anche a lei decidere dove metterla, e che se loro si ritrovavano a piedi non gliene fregava un cazzo, a lei interessava TENERSI LA SUA MACCHINA, accidenti anche a loro. Ma non disse nulla e continuò a guardare gli altri parlare, con aria partecipe, come se la cosa non la riguardasse direttamente.
-E se proviamo a metterla nel parcheggio residenti? – suggerì Stefano – Ok, è sempre in divieto, ma meglio che davanti a un’uscita...
-Sì, ma sai che multa? – intervenne Daisy. Poi si rivolse ad Aurora – Te cosa dici? La macchina è tua.
Si ritrovò tutti gli sguardi puntati addosso. Si guardò attorno, imbarazzata.
-Ah... – il cervello aveva deciso di non collaborare più. Proprio adesso. – Beh, preferirei che non stesse in divieto...
-Così, però, ci tocca tornare fino a Mestre, e trovare altro parcheggio, e poi prendere il treno – sbuffò Lucia; Aurora sussultò ed arrossì, perché l’unica volta che si era permessa di parlare, era stato per creare problemi. Ma Lucia non la stava nemmeno guardando. Si rivolgeva agli altri.
-E quindi, cosa volete fare? – fece Daisy – Cioè, non è che l’Aurora può rimetterci la macchina, o i punti della patente.
Era grata a Daisy perché cercava di coinvolgerla, di difenderla, di far notare che c’era anche lei; ma stava soltanto sottolineando quanto, per l’ennesima volta, lei fosse solamente un impiccio.
-Ma sì – butto lì allora Aurora, con aria spensierata, come se avesse partecipato davvero a quello spirito avventuroso – per una volta! Dai, è la sera del Redentore, e poi altrimenti sai che storie riportarla a Mestre? La lasciamo qui, dai.
Tutti tacquero, guardandosi con aria preoccupata.
Ma come, non andava bene nemmeno così?
-Sì ma non è che possiamo lasciarla qua alla leggera – affermò Lucia – cioè, se ce la rimuovono, siamo a piedi.
-Mh – confermò Stefano – non conviene.
Gli altri sembrarono d’accordo.
Aurora arrossì. Ma se era stata proprio Lucia a lamentarsi che era uno sbattimento!
Anche se, in realtà, aveva solo detto che era una noia. Non che ci avrebbe rimesso la macchina, pur di non prendere il treno.
Perché doveva fraintendere, farsi trascinare, buttarsi solo per compiacerli? Loro non si preoccupavano di compiacerla. Aveva pronunciato sì e no due frasi, e tutte e due le volte l’avevano contraddetta. Perché loro avevano quel potere?
-Quindi? – Serena alzò gli occhi al cielo.
-Quindi boh – fece Marco.
Aurora abbassò gli occhi. Anche se in realtà lei aveva fatto loro un favore, si sentì come se fosse stata colpa sua. Colpa sua, se non c’era parcheggio. Colpa della sua macchina, se ora erano impicciati.
-Proviamo dai residenti? – azzardò Stefano.
-Poi arriva la multa.
-La paghiamo tutti assieme, no?
Chissà se l’avrebbero fatto davvero. Ne dubitava molto. Nemmeno li conosceva, nemmeno ci parlava, come avrebbe fatto a chiedere loro dei soldi?
-Aurora, a te va bene se la lasciamo dai residenti? – Daisy le toccò un braccio – Poi se arriva la multa la dividiamo.
-Ok. Per me va bene.
-Perfetto – Daisy sorrise, le mise un braccio attorno alle spalle – dai, io e te andiamo a parcheggiare, voi aspettateci qui.

-Guarda lì, c’è un buco. Come te la cavi col parcheggio a S?
-Me la cavo.
-Attenta, che c’è la bici!
-Cazzo – mormorò nervosa Aurora, e Daisy la guardò.
Quand’era con loro, con quelle persone che, per quanto cercasse di tirarla in mezzo, la mettevano a disagio, Aurora cambiava. Perdeva il suo fascino, non era più personaggio. Non esclamava più “wow!”, non accavallava le gambe, non si metteva un dito ai lati della bocca quando pensava. Smetteva di essere Susanna Tutta Panna, accarezzata dal vento in una decappottabile del Dopoguerra, per diventare una diciannovenne qualsiasi, che diceva ‘cazzo’ e metteva musica punk a palla in una monovolume.
Riuscì a infilare la macchina in quel poco spazio, Daisy si congratulò, tornarono dagli altri, disse che Aurora l’aveva infilata in un posto impossibile, che era stata bravissima.
-Grazie di averci portati – sorrise Serena, e anche gli altri la ringraziarono.
Aurora fece sbocciare un sorriso raggiante, li guardò tutti in viso, ma stavano già incamminandosi verso Piazza San Marco, perché, in effetti, da un ‘grazie’ non può nascere nessuna conversazione.

*

Per tutto il tempo in cui avevano camminato verso la piazza, Daisy parlò quasi solo con lei. In realtà avevano ben poco da dirsi, dato che abitavano assieme e che più o meno le novità le sapevano già tutte; parlarono di cose di cui avevano già discusso, e che, nonostante a casa fossero interessanti e potessero portare il discorso altrove, lì sembrarono solo discorsi trascinati.
-E quindi, col tipo?
-Eh, siamo rimasti come ti dicevo. Forse stasera viene.
-Sì, me lo avevi detto – annuì Daisy – speriamo che ci sia, dai.
-Spero, se non ce la faccio stavolta, con lui, mai più, mi sa.
Quello stesso pomeriggio, la scena era stata diversa; Aurora era entrata con un gridolino in salotto per annunciare che Lui sarebbe venuto al Lido, che forse l’avrebbe incontrato, e Daisy aveva pontificato che forse avrebbero fatto una passeggiata al chiaro di luna in riva al mare. Avevano riso, fantasticato, esplorato tutte le possibilità, e si erano divertite. Ma l’argomento era esaurito. Riesumarlo quella sera non aveva portato da nessuna parte.
E Veronica era lì vicino e avrebbero potuto parlargliene, tanto per aggiungere un nuovo parere all’intera faccenda, ma se non si conoscevano, con che faccia parlarle di lui, di quell’Andrea stronzo che non si capiva se la cagava o no?
Fu così che Veronica attaccò bottone con Daisy, loro non si vedevano da due settimane, avevano tanto da dirsi, cose nuove, cose eccitanti, ed erano migliori amiche e avevano voglia di divertirsi. Aurora si rassegnò ad ascoltare le vicissitudini di quella ragazza che pure le stava abbastanza antipatica, non perché fosse antipatica davvero, ma perché non le aveva mai rivolto la parola.
Per fortuna, Venezia era gremita, e lo sforzo di rimanere compattata col gruppo richiese buona parte delle sue energie, motivo per cui, anche se non aveva aperto bocca per quasi venti minuti, almeno ebbe qualcosa di cui occuparsi. Arrivarono appena in tempo per vedere i fuochi; gli altri erano tutti abbracciati, a coppie, anche se erano coppie di amici, mentre lei era lì, in piedi, con le gambe che le facevano male, senza nessuno vicino. Daisy a un certo punto si accorse di lei e la prese sottobraccio, ma era diverso; è diverso essere con gente che ti vuol bene, con gente che parla la tua lingua, gente per la quale è una gioia passare quella sera con te, davanti a quello spettacolo meraviglioso.
I fuochi furono bellissimi. C’erano cascate di luce, ragnatele dorate, quadrifogli colorati, e addirittura pianeti e cuori. Quando arrivarono i cuori pensò: ecco, questi li hanno progettati per gli innamorati. Una coppia davanti a lei si scambiò un bacio. Pensò ad Andrea, alle zero probabilità che aveva di trovarlo, perché quelli con cui era venuta non avrebbero di certo cambiato i loro piani per lei.
Che senso ha?, pensò. Colori, esplosioni, meraviglia, cielo stellato... e che senso aveva? Che senso ha quando avrebbe voluto essere altrove, chiusa in una stanza, addossata alle pareti, rinchiusa da qualche parte dove sentirsi coperta da un guscio, di modo da non vedere nessuno e da non essere vista a sua volta?
Sentì un bruciore in gola, fortissimo. Poi sentì un bruciore più piccolo agli occhi. Ma scesero solo un paio di lacrime, non più di un paio di lacrime per alleggerirle quella massa densa e invasiva dentro la gola. Quella massa rimase lì a toglierle il respiro.
Si guardò attorno, nessuno si era accorto di lei. Forse l’avrebbe preferito. Si asciugò lentamente gli occhi, ma nessuno la stava guardando, perciò non si accorsero di quel gesto. E poi, anche se l’avessero vista, cosa ci avrebbe guadagnato? Assolutamente niente. Il tipo d’attenzione sbagliata.
Alla fine dello spettacolo applaudì come tutti gli altri. Poi si spostò assieme agli altri, sempre senza parlare, e con gli altri prese l’ultimo traghetto per il Lido, su cui riuscirono a salire per pura fortuna.
Durante il tragitto, non fece che guardare l’acqua. Il Canal Grande era pieno di gondole e barche, piene di persone sorridenti, che probabilmente erano lì assieme perché si stavano simpatiche. Un tempo, Venezia doveva essere straordinaria. Chissà se, duecento anni fa, qualcuno, in quell’angolo di canale, si era sentito come si sentiva lei.
Probabilmente no, perché all’epoca le cose erano diverse. All’epoca dovevi essere cortese e affabile con tutti, non potevi permetterti di mostrare tanto apertamente il tuo disinteresse verso una persona. Sì, forse c’era meno libertà, e nessuna sincerità, ma... avrebbe preferito un’ipocrisia obbligata, al passare una serata pressoché in silenzio.
Quando scesero, si diressero automaticamente verso le spiagge. La musica si sentiva per tutta l’isola; gli altri erano sempre più eccitati. Si erano comprati qualche lattina di birra in un bar. Aurora, invece, aveva in borsa una bottiglia di vodka.
Se l’era portata da casa, prima di partire. Perché sapeva che altrimenti non ce l’avrebbe fatta, che non avrebbe potuto passare un’intera notte con loro senza almeno una bottiglia di vodka. Aveva messo in conto di far guidare qualcun altro al ritorno, o anche, perché no, di guidare ubriaca e portarli tutti a schiantarsi contro un guard rail, magari il tutto seguito da una plateale caduta nel mare.
Sorrise. Sapeva come cavarsela. Qualunque cosa fosse successa, c’era la bottiglia, e a ogni sorso il suo cervello avrebbe ricevuto un ulteriore colpo, e sempre più stordimento, e alla fine non avrebbe capito più niente e lei sarebbe stata salva.
La prima tappa fu il bar. Avevano le birre, ma se c’era un bar, perché non prendere qualcosa di meglio? Aurora ordinò uno sherry, che le faceva tanto stile, ma non ce l’avevano.
-Spritz, se vuoi, Bellini, Caipirinha, Caipiroska, Gin Lemon, Mojito e Cuba Libre – la informò la ragazza bionda, gentile.
Non ce n’era nessuno che le sembrasse adatto a lei, perciò ordinò un Gin Lemon che almeno era più alcolico degli altri. La barista le sorrise, e le preparò il drink velocemente. Nel frattempo Aurora si sbrigò a tirare fuori i soldi, perché, grata com’era di quel sorriso, non voleva farle perdere tempo.
Si incamminarono verso il cuore della festa e Aurora stava cercando di decidere se era meglio mandare giù subito il Gin, e ubriacarsi per bene, o sorseggiarlo lentamente di modo da avere qualcosa da fare, ma così l’effetto sarebbe stato minore.
Al diavolo, aveva la sua bottiglia. Sollevò il bicchiere, gettò indietro i riccioli neri e in pochi secondi ne inghiottì tutto il contenuto. Il Gin scivolò in gola raschiando come carta vetrata. Sentì caldo; era a stomaco vuoto, si era tenuta a stomaco vuoto apposta.
-Allora dove le lasciamo le borse? Come facciamo?
-Boh, tipo facciamo che un po’ di noi stanno seduti e le tengono d’occhio, poi ci diamo il cambio...?
-Eh, sì, ma che palle però...
-Eh ma sennò come facciamo?
-Chiediamo alla barista se ce le tiene?
-Sì, ma se tutti fanno così, sai che confusione? Non ci lascerà mai.
-Ok, però io non la lascio per terra, la borsa, là dentro ho tutto, soldi, documenti...

-E quindi?
-Dai, proviamo a chiedere alla barista.
Li seguì. Per il momento, si sentiva ancora abbastanza lucida, ma sarebbe durato molto poco. Stomaco vuoto e buttare giù un Gin Lemon così, che era un passo dall’essere liscio, significava al massimo cinque o dieci minuti di autonomia. E poi avrebbe perso il controllo.
Sorprendentemente la barista acconsentì: c’era uno spazio apposta dove avevano raccolto diverse borse, anche se non se ne prendevano la responsabilità. Erano tutti abbastanza su di giri da decidere che non importava, e, in fondo, erano sufficientemente ricchi da fregarsene se sparivano cinquanta euro e una tascapane con le toppe attaccate. Aurora s’inginocchiò elegantemente e sistemò la sua borsina di Audrey dritta in piedi; la aprì con delicatezza e ne estrasse la bottiglia di Keglevich. Fragola. Se ci fosse stata la ciliegia, avrebbe sicuramente preso quella.
Daisy la guardò. Anche lei non era esattamente sobria, perché aveva mandato giù diverse lattine di birra. Le corse incontro.
-Auroraaaa! La vodka! Ma sei la migliore!
-Sì – si illuminò – vuoi un po’?
-Ma chiaro che ne voglio un po’!
-Dai, non urlare. Ce la teniamo tutta per noi, ok?
-Certamente! – approvò Daisy. La stapparono, la bevvero a turno. Entrambe sorrisero. – Ottima – riprese Daisy – ah, che delizia, scende giù per la gola come acqua e zucchero.
Aurora chiuse gli occhi e attaccò le belle labbra lucide al collo della bottiglia. Bruciava, ma poi sarebbe stata meglio.
-Andiamo a ballare, dai – propose Daisy, e Aurora la seguì felice.
Nell’aria c’era Great DJ, e le due si lanciarono in un ballo sfrenato. Veronica e Lucia le raggiunsero e iniziarono a ballare con loro; si abbracciarono, si avvicinarono, inventarono passi assieme. Aurora rimaneva per conto suo, ma sapeva che era solo questione di tempo; continuò a muoversi e si impose di non pensarci, altrimenti non sarebbe mai arrivata.
E poi, all’improvviso, se ne accorse. Aveva chinato la testa per controllare se la sabbia avesse graffiato la vernice rossa delle scarpe, quando sentì che ce l’aveva fatta: un forte capogiro la tenne immobile per qualche secondo.
Tacque, guardandosi le scarpe con occhi sbarrati.
Poi sollevò la testa e sentì che le veniva da ridere. Guardò Daisy, e rise. Daisy rise con lei, le afferrò il braccio, se la trascinò addosso, iniziarono a muoversi vicinissime, i seni che si toccavano, allo stesso ritmo. Ma poi gliela rubarono e si ritrovò di nuovo sola, allora chiuse gli occhi, e si disse che bastava lasciarla salire; ad un tratto la stecca salì velocissima, le gambe iniziarono a pesare, le braccia pesavano anche loro, e la testa, per l’amor del cielo, sembrava fatta di piombo e la trascinava verso terra.
Chiamò Daisy, fregandosene delle altre due.
-Cado! – le disse, e si accorse che la sua voce era diversa, che strascicava le parole – Daisy vedi, ho la testa che mi trascina verso terra. Non riesco a star dritta! La testa va prima verso destra… poi verso sinistra… e io non riesco a tenerla su!
-Sei ubriaca? – rise lei.
-Forse! – replicò allegra, e poi pensò, sono ubriaca!, e capì che non doveva più preoccuparsi di niente. Bastava tenere gli occhi rigorosamente chiusi, non guardare, ballare e cercare di reggersi sulle gambe. Sentì che la sua presa sulla bottiglia a volte si allentava, e allora si imponeva di stringere quelle dita; ma ogni tanto il suo corpo dimenticava come si faceva a impartire ordini dal cervello ai muscoli.
La tua testa oscillava, se ne rendeva conto. Non riusciva a tenerla dritta, neanche impegnandosi; c’erano quelle ondate di piacevolissimo calore che le sballottavano la testa e la costringevano a ondeggiare qua e là. Sollevare le braccia era diventato difficile. Riaprì gli occhi, tanto per rendersi conto di dove stava andando, perché aveva l’impressione di non essere rimasta ferma nello stesso posto.
Infatti era così: Daisy e le altre non si vedevano più. Non aveva il coraggio di chinare la testa in avanti per controllare cosa succedeva dalla vita in giù, ma realizzò che stava accavallando le gambe l’una sull’altra nel tentativo di non crollare a terra. L’intenzione era quella di camminare, ma le gambe non trovavano la posizione adatta, continuavano ad appoggiarsi troppo in là o troppo in avanti, e lei non riusciva a ricordarsi come si faceva a conservare l’equilibrio. Le ondate di vodka e i giramenti non erano più solo in testa; si sentiva trascinata da una corrente densa e carezzevole, ma terribilmente violenta, fatta di ondate improvvise e destabilizzanti.
Doveva aggrapparsi a qualcosa. Gli occhi, ormai, si chiudevano senza che lo volesse. Li sentiva lucidi e roventi. Faticava a mettere a fuoco. Gli arti sembravano pesare quintali, e non riusciva a capire qual era la parte giusta, la gradazione giusta, per riuscire a proseguire dritta. Di stare ferma, ovviamente, non c’era nemmeno da sperarne.
Tentò di ballare, perché almeno, muovendosi, non avrebbe dovuto cercare di mantenere un equilibrio che assolutamente non aveva. Funzionava. Ma tenne gli occhi aperti, perché altrimenti non sarebbe riuscita a stare in piedi. Sbatté le palpebre diverse volte. Un’ondata la spinse in avanti. Sbarrò gli occhi e si spinse verso indietro, sperando di recuperare una posizione vagamente eretta. Ma poi un’altra ondata la spinse verso sinistra, poi sentì le gambe farsi d’acqua per qualche secondo. Poi tornarono di carne, e ci fu un attimo in cui si sentì di nuovo intera. Ma poi arrivò un altro capogiro e sentì un maremoto abbattersi su di lei e spingerla verso terra, e pensò, qualcuno venga qui e mi tenga su, perché non si sentiva in grado di reggersi in piedi.
Ma non c’era nessuno. Sconosciuti, tutti rivolti verso qualcun altro, tutti impegnati con un’altra persona.
Sorrise, perché adesso non importava, si sentiva così di merda per via dell’alcool che non era importante essere sola, perché in quel momento la sua unica preoccupazione era quella di stare meglio, e non aveva certo il tempo di occuparsi di stupidaggini come la solitudine.
-Aurora?
Cercò di localizzare la voce. Veniva da dietro di lei. Girarsi era un problema, perché voltare la testa avrebbe comportato un tale capogiro da sbatterla a terra nel giro di cinque secondi. Perciò chiuse gli occhi e lentamente piroettò sul piede destro.
Quando li riaprì, si ritrovò davanti Andrea.
Lui la guardava divertito.
-Ohi. Sempre ubriaca?
-Ma certo! Sempre! – si sentì ribattere con brio, e poi fece un sorriso esagerato – E tu? Quanti cannoni hai fumato stasera?
-Neanche uno – rise lui – vieni con me? Fumo il primo.
-Sììì, vengo – fece lei con un gran sorriso – però mi devi tenere su, perché vedi, adesso come adesso mi sembra di avere le palle al piede dei carcerati che ti tengono a terra, o un’ancora! O meglio ancora, un filo che impedisce al palloncino di alzarsi verso il cielo...
-Sì, sì, ok – fece lui con una certa condiscendenza, comunque le mise una mano sulla schiena e la guidò gentilmente fuori dalla folla. Lei chiuse gli occhi e assaporò quel tocco bellissimo, così dolce che si sentì sciogliere, come una camicetta di raso che ti accarezza la pelle.
Ma ad un tratto lui, pensando che fosse in grado di proseguire da sola, scostò la mano, e lei riaprì gli occhi; i quali, disabituati al mondo circostante, vennero invasi da un bombardamento di luce, colori, frastuono, persone, voci, tutto mescolato e turbinante. Nel frattempo continuava a oscillare da un lato all’altro, e fu costretta a strizzare gli occhi a intermittenza per non franare a terra, mentre nello stomaco la vodka vorticava e la faceva sentire pesante e nauseata.
Non riuscì a chiamare Andrea, ma solo a sentire un nodo nella gola. La gente continuava a muoversi. Avrebbe voluto chiamarli uno per uno e dire aiuto, ma non riusciva a parlare, e quel briciolo di lucidità che le era rimasta le bisbigliava di non farlo. In quel momento, però, riuscire a non cadere era più importante che fare una figura di merda, in quel momento erano tutti buoni, tutti disposti a perdonarla, tanto a lei cosa gliene fregava? Era allegra, era spensierata, che importava?
-Andrea – biascicò, così piano che si sentì a malapena.
Lui, comunque, dopo un po’ tornò indietro a recuperarla, guardandola con aria interrogativa.
-Oh, ce la fai?
Lei scoppiò a ridere, felice, perché lui era tornato a cercarla. L’abbracciò forte.
-Portami via da qui – gli mormorò in un orecchio.
-Va bene. Andiamo verso la riva, allora.
-La riva! Benissimo! Bellissimo! Non aspettavo altro!
Probabilmente lui pensò che fosse completamente andata, ma non era così. Era vero che non aspettava altro. Che voleva stare sola con lui dove le onde ti sfiorano dolcemente i piedi, che voleva guardare con lui l’orizzonte e stupirsi di una stronzata come le stelle in cielo.
Com’era bella la notte. Com’era bello il mondo, in quel momento. Così dolce, e leggero, e inoffensivo, e così pieno e trascinante da catalizzare tutta la sua attenzione, di modo da farle dimenticare dov’era, e con chi era, e cosa stava facendo.
Ma adesso, con lui... adesso non era il momento di essere ubriaca, no? Adesso avrebbe voluto essere sobria, e parlare con lui di cose importanti, e dargli un pezzo di sé stessa e magari ricevere, nella mano aperta a coppa, anche un piccolissimo pezzettino di lui.
-Ce la fai a sederti?
-Ma , ma scherzi? Vuoi che non riesca a sedermi? Guarda, ce la faccio benissimo, guarda – piegò le gambe, finì subito ginocchia a terra. Lo spostamento le fece girare la testa e lui dovette afferrarla prima che cadesse in avanti di faccia. A quel punto, lui la sorreggeva tenendole una mano sulla schiena e una sulla pancia; finalmente, qualcosa la teneva dritta e ferma, e lei si permise di lasciarsi andare.
-Oh, non buttarti! Sta’ attenta, guarda che ti faccio cadere – fece lui, ridendo, e la posò piano piano sulla sabbia.
-Nooo, non mi farai cadere – mormorò con una vocina dolcissima – dai, vieni qui vicino a me.
-Lasciami fumare ‘sta canna.
-NO, ti ho detto di venire vicino a me, brutto stronzo – esclamò, mentre si rendeva conto che non riusciva più a parlare con la solita velocità, che le parole uscivano lente – sono ubriaca, non vedi? Vuoi lasciare sola un’ubriaca in queste condizioni?
-Il tempo di una canna, dai, ci metto cinque minuti.
-Ho aspettato per mesi! Non voglio i tuoi cinque minuti – piagnucolò, mentre pensava a cos’altro dire, che altre scemenze sparare, per non pensare a cosa le era appena venuto fuori dalla bocca.
-Cosa...?
-Ma niente – fece lei, e si portò la bottiglia alla bocca. Sapeva che era una follia, ma buttò giù qualche sorso, tanto per darsi un tono. La testa e lo stomaco girarono così forte che ringraziò il cielo di essere già a terra.
Lui, nel frattempo, aveva già bruciato il fumo, preso il tabacco e girato la cartina.
-Tieni – le disse, porgendole un biglietto dell’autobus – renditi utile, fammi un filtro.
Lei allungò la mano sottile, da pianista, verso il filtro, e le loro dita si sfiorarono. Ebbe un brivido. Solo sfiorandogli le dita, si sentiva percorrere da una corrente deliziosa.
Tese le braccia sopra di sé e cercò di strappare un pezzetto di carta abbastanza piccolo. Ne uscì una cosina tutta storta. Lo sistemò come poteva ed iniziò ad arrotolarlo alla bell’e meglio, poi lo scrutò, anche se in realtà non lo vedeva molto bene, e infine allungò un braccio alla sua destra, dove stava Andrea, senza controllare dove andava a finire la sua mano.
Gli diede un colpetto sulla coscia col pugno chiuso. Lui afferrò il filtro.
-Troppo sottile – considerò, con occhio esperto – ma te non fumi?
-No – replicò lei – ma vorrei avere un lungo bocchino nero e del tabacco sciolto.
-Bocchino che?!
-No, non quei bocchini, cretino – disse, prima di ricordarsi che avrebbe dovuto coprirsi la mano con la bocca e spalancare gli occhioni in un’espressione stupita – quelli per fumare. Li usavano una volta.
-Boh – fu la risposta di Andrea, che stava dando i primi tiri.
-Sai, a volte penso di essere nata nella metà sbagliata del secolo. A me interessano le cose di una volta. Gli spettacoli davanti ai soldati, gli abiti rossi aderenti, i boccoli di Marylin e il suo vestito bianco; la musica suadente, le trombe, You go to my head... la conosci?
-Cosa...
-You go to my head.
-E cos’è?
-Una canzone stupenda. Mi fa venire in mente film in bianco e nero, uomini in smoking e brillantina sui capelli, lo swing, il twist, e donne con vestitini attillati ed enormi cappelli di paglia in testa, pieni di fiori e nastri e frutti. Feste nei salotti, lampadari di cristallo, magari un pianoforte e una piccola orchestra... altri tempi...
-Uh – fece lui, che iniziava ad avvertire qualche effetto.
-Una volta era tutto così affascinante. Le donne erano così affascinanti. Innocenti e ammalianti allo stesso tempo. Mi gira tanto la testa. Vorrei essere una di loro. Sto male, Andrea, sai? Tu come ti senti?
-Mh – articolò lui – eh, dai, bene – aggiunse; anche la sua voce era cambiata.
-Vodka?
-No, non bevo. Da quando ho scoperto le meraviglie del fumo, ho smesso di bere.
-Posso cantarti quella canzone?
-Vuoi cantare? – rise lui.
-La posso cantare? Eh?
-E canta – lo sentì esalare, prima che si gettasse a stella marina sulla sabbia assieme a lei.
-You go to my head... –  iniziò con una vocina incerta – and you linger like a haunting refrain... and I find you spinning round in my brain... like the bubbles in a glass of champagne...
Lo guardò. Stava fissando il cielo, senza espressione. Continuò.
-The thrill of the thought that you might give a thought to my plea cast a spell over me – proseguì, più sicura – still I say to myself, get a hold of yourself... can’t you see that it never can be…

A quel punto si fermò, perché si sentiva triste, perché in realtà non era capace di trattenersi e prendersi cura di sé stessa, e perché lui non la voleva, preferiva fumare una canna piuttosto che scambiare una parola sensata con lei.
Ma poi Andrea allungò una mano e la posò vicinissima alla sua, e lei sussultò. Le loro dita si stavano toccando. Piano piano, sfiorandosi caute, quasi non volessero ammettere che stavano cercando di unirsi, finirono con l’intrecciarsi.
Aurora chiuse gli occhi, felice. Avrebbe voluto che l’alcool non le pulsasse nel cervello, perché era felice.
-You go to my head, with a smile that makes my temperature rise... you intoxicate my soul with your eyes...
Sentì dei lievi strattoni alla mano. Si voltò verso di lui, che la stava guardando e sorrideva.
-Hai capito quello che ho cantato?
-Neanche una parola – ridacchiò – faccio schifo in inglese.
-Io invece sono bravissima.
-Oh, lo sappiamo che tu sei un genio. Però...
La strattonò più forte. Lei rise e gli diede una piccola spinta. Lui gliela restituì, e lei cercò di dargli qualche pugno sul petto, ma lui riusciva sempre a bloccarla.
-Adoro la forza degli uomini – mormorò incantata – il modo in cui sapete fermarci se cerchiamo di colpirvi. Il fatto che arrivate sempre a quel libro in alto sullo scaffale che noi non riusciamo a prendere. E quando ci aprite quel tappo che sembra incollato alla bottiglia... siete meravigliosi.
Lui si avvicinò, e, senza guardarla in viso, le posò la mano sulla linea del fianco che sbocciava. Aurora era orgogliosa di avere la vita stretta e le curve tonde delle donne di quegli anni. Si sentì bellissima, e sensuale, e si avvicinò a lui.
I loro nasi quasi si sfioravano, e loro continuavano a fissare le reciproche labbra. Lui l’accarezzò dalla vita fino all’altezza del seno. Lei si sentì invadere dal piacere.
Fu il tempo di alzare il mento di qualche millimetro, e le loro labbra si sfiorarono; erano morbide e sapevano di fragola e fumo. Si diedero un lento, caldo bacio. Aurora sentì il suo intero corpo accendersi e imperarle di avvicinarsi a lui; premette il seno e il bacino contro il corpo di Andrea. Lui le mise una mano sulla schiena e la strinse ancora a sé. Il bacio si fece più appassionato.
-Andrea – mormorò quando si staccarono – poi rimarrai qui con me, vero? Voglio dire, non mi lasci tornare da loro, vero?
Andrea la baciò ancora, di slancio, e il gesto la agitò talmente che si sentì impazzire; le sue mani schizzavano sulla schiena di Andrea, sulle sue spalle, sui suoi fianchi, le sue gambe.
-Ti amo – sussurrò – no, non lo so, non sono sicura, ma in questo momento, ti amo.
Lui le prese una mano e se la portò alla cintura. Lei slacciò il bottone e tirò giù la cerniera; gli infilò la mano nei boxer ed iniziò a fargli quella sega che lui esigeva. Mentre muoveva la mano su e giù, lui aveva smesso di toccarla, e se ne stava teso, ad occhi chiusi, ad aspettare di venire; dipendeva dai suoi movimenti. Il pensiero che dipendesse da lei la stregava. Si chinò in avanti e lo prese in bocca; lui ebbe un sussulto, e, quando iniziò a leccarlo, lo sentì gemere.
Lei avrebbe voluto portare le cose fino in fondo, ma voleva anche vederlo venire. Sollevò lo sguardo verso di lui dall’altezza della cintura, con le labbra rosso vivo strette attorno al suo sesso. Quell’immagine sembrò eccitarlo ulteriormente. Al che Aurora riprese il suo lavoro, mentre lui le stringeva le mani sulla testa; fu con la passione di una devota che continuò a farlo entrare fino in gola, noncurante del dolore alla mascella.
Alla fine, un attimo prima di venire, lui le staccò la testa, ma lei voleva ingoiare, e così, a metà strada, si ritrovò la bocca lucida di sperma. Alcune gocce le colavano sul mento, e lei guardò Andrea senza batter ciglio, piegando la testa di lato.
Lui si era sdraiato sulla sabbia, ansimante, e aveva un braccio posato sugli occhi. Aurora s’inginocchiò vicino al mare e raccolse un po’ d’acqua con le mani a coppa; si pulì meglio che poteva, poi gattonò fino a lui.
Si sentiva assonnata. L’alcool, ricordò, dopo averti stordito, ti mette un sonno terribile; lei in quel momento era nella fase di sono terribile. Andrea non accennava a rialzarsi e lei aveva soltanto voglia di dormire un po’; quindi si appoggiò al suo petto e chiuse gli occhi, sperando di smaltire il gin e la vodka, sperando che smettessero di ribollirle nello stomaco e che quella sensazione di malessere passasse presto.
Ma non passava. Ci voleva un bel po’ prima che passasse, almeno una nottata, e adesso doveva soltanto stare calma ed evitare di alzarsi in piedi, perché, giunti a quello stadio, fare qualcosa di diverso dallo stare accasciati a terra era assolutamente impensabile.
Ad un tratto, il telefono di Andrea squillò. Seppur a fatica, lui riuscì a recuperarlo nella tasca anteriore, e rispose in modo abbastanza scazzato.
-Pronto – brontolò. – In spiaggia. Sì. Adesso? Eh... sì, ok, dai. Sì ma dammi un attimo. Va bene? Sì. Va bene. Sì. Ciao, ciao.
Aurora sollevò gli occhi su di lui.
-Devo andare – le spiegò – i miei amici vogliono tornare a casa.
-Non andare – disse lei, angosciata – non voglio.
-Che hai?
-Non andare – ripeté, sempre più concitata – per favore. Rimani qui.
-Sì, ma devo andare – sorrise lui – mi chiamano i miei amici. Devo tornare con loro.
-Non è giusto – disse lei, e poi sbadigliò – no... non è giusto.
Lui sorrise ancora, ma iniziò ad alzarsi.
-Serve una mano? – le chiese – Ti riporto dagli altri?
-No.
Adesso non ne aveva voglia. Adesso voleva solo dormire. Per favore, lasciatemi dormire. Al resto penserò dopo.
-Vuoi rimanere qui? – chiese lui ridendo – Guarda che ti stuprano.
-Figurati.
-Allora ciao. Non fare cazzate – le disse lui, con la sua consueta aria divertita.
Lei chiuse gli occhi, serena. Amava quel modo che aveva lui di essere sempre tranquillo e pronto allo scherzo. A ridere sempre, anche se non si stava scherzando. E anche quando le aveva raccontato che l’avevano cacciato di casa, che nessuno gli parlava nella sua famiglia, che non gli davano un soldo da mesi, che doveva tirare avanti vendendo fumo... lo aveva fatto sorridendo. Dicendo che, sì, beh, era un tipo ottimista.
Quindi perché lei doveva crucciarsi tanto?
Era perché stava così ubriaca da non riuscire ad alzarsi?
Perché era uscita con sei persone e nessuna di queste le rivolgeva la parola?
Perché in mezz’ora che era stata via nessuno l’aveva mai cercata, nemmeno la sua coinquilina?
Perché il ragazzo che le piaceva l’aveva lasciata sola su una spiaggia di notte, senza il minimo pensiero?
O perché le parole ‘ti amo’ gli erano scivolate addosso, e perché, quando aveva provato a parlargli, lui le aveva semplicemente fatto cenno di far andare la mano?
Probabilmente per tutte. Non riusciva a piangere, no, non voleva pensare che fosse tanto grave da piangere. Ma allora perché stava sola su una spiaggia sconosciuta, alle due di notte, con una bottiglia mezza svuotata in una mano e residui di sperma rappreso sul viso?
Sospirò. Non poteva farci niente. Le cose stavano così e basta, indipendentemente da quanto la rendessero triste.
Ma prima o poi sarebbero cambiate, no? Prima o poi, le cose sarebbero cambiate. Non poteva continuare così per sempre.

Continuò a vagare sul lungomare per un po’.
Incontrò diverse persone: coppiette che, come lei, avevano cercato un posto dove isolarsi un po’; spacciatori; stronzi in cerca di ragazzine da infastidire; amici che cantavano Albachiara mentre uno suonava, malissimo, la chitarra; altri ancora si erano lanciati in un coraggiosissimo tuffo nell’acqua notturna. Lei li guardava tutti: alcuni la ricambiavano, altri no. Nessuno di questi attirò particolarmente la sua attenzione.
Sperava che avrebbe trovato qualcuno di speciale, qualcuno che si sarebbe accorto di lei, qualcuno che sarebbe stato conquistato al primo sguardo dal suo fascino un po’ retro; qualcuno che la capisse. Non lo trovò. Continuò semplicemente a camminare sulla spiaggia, pensando che le persone speciali non sono sole, non sono sole su una spiaggia nel mezzo di una festa: sono in mezzo alle grandi compagnie, fulcro di risate, chiacchierate degne di un ricordo, da qualche parte a scambiarsi baci indimenticabili.
Le persone speciali non sono sole. Questo pensò.
Le venne in mente una canzone degli 883, Gli Anni, che parlava di ricordi di gioventù. Degli Anni, con la maiuscola e l’articolo determinativo. Di quelli che ci ripensi, ci sorridi e dici: ah, quegli anni. Quanto mi sono divertito, a vent’anni. L’Università. I primi viaggi in macchina con la compagnia. Le marche di moda, provarci con le ragazze. Le figure di merda, continuò a pensare Aurora, e ridere, e tentare, e fare cose proibite, le prime scelte, rinunciare, perdere, soffrire, fare mattina, fare cazzate, e sentire che è impossibile che un momento simile torni, perché è il massimo. Raggiunto il picco, può esserci solo la discesa.
E poi il momento svanisce.
Sei adulto; ti rimangono solo i ricordi di quando le cose erano facili, dorate, luminose.
Aurora pensò: non mi rimarranno nemmeno i ricordi.
Si sedette sulla spiaggia. Le gambe non la reggevano davvero più; in quel momento realizzò che non le importavano le conseguenze, ma aveva bisogno di sdraiarsi, chiudere gli occhi, non ascoltare altri suoni se non quello delle onde e convincersi di essere morta: dove nessuno poteva toccarla, dove niente di male poteva succedere, dove il tempo era immobile e non poteva arrivare più niente a ferirla fino a questo punto.
Dio, se esisti, aiutami. Fai che le cose cambino. Non lasciarmi così per sempre.
Dio tacque con aria saggia. Le stelle le dissero: c’è molto altro al mondo.
Ma dove poteva andare? Dove, con quella sbornia terribile? Cosa poteva fare lei, così piccola, così triste?
Non arrivò nessuno a consolarla. Nessuno le si sedette accanto per chiederle cos’avesse, nessuno la salvò. Aurora rimase lì, a pochi metri da un gruppetto che beveva in allegria, ascoltò le loro voci felici, si addormentò.
Si svegliò quando qualcuno urlò un po’ troppo forte e, temendo che fosse molto tardi, si costrinse ad alzarsi in piedi ed andare a cercare gli altri.

In realtà, scoprì poco dopo, aveva dormito appena un quarto d’ora, e gli altri erano ancora a ballare e a far casino. Erano quasi tutti ubriachi marci, e quelli che non lo erano cercavano di convincere gli altri che era il momento di prendersi una pausa.
Alla fine dovette tornare in spiaggia, perché fu lì che, recuperate le borse, si trasferirono. Stranamente, nella sua c’era ancora tutto; in quella di alcuni altri no, ma nessuno se ne preoccupò veramente. Lei si appoggiò a Daisy e chiuse gli occhi, sempre più stanca; dormire le andava benissimo, perché tanto in quel tempo non avrebbe di certo fatto niente di divertente, perciò tanto valeva che si riposasse.
Nessuno la svegliò o le rivolse la parola in nessun modo. Aurora si sentiva così tagliata fuori, così invisibile, così inutile, che a un certo punto uno strano pensiero le balenò in testa.
Se io non conto niente per loro, e non mi devono nemmeno una parola di cortesia…neanch’io allora devo a loro niente. Tantomeno un passaggio in macchina!
O qualcosa del genere.
L’idea la allettava. Non era totalmente sicura di quel che progettava di fare; d’altronde, questo avrebbe significato tagliare definitivamente i ponti con loro, e, probabilmente, trasferirsi a Padova per evitare brutte sorprese sul portone di casa.
Sbadigliò. Non trovava motivi abbastanza buoni per alzarsi.
Guardò le stelle, quella stronzata delle stelle. Quella stronzata delle stelle.

*

Aurora rideva mentre la radio mandava a tutto volume uno dei suoi CD, e adesso c’era Rama Lama Ding Dong, e lei adorava fare la doppia voce. Si stava divertendo. Stava guidando un po’ male, ma tutto era a posto, lei era felice, si sentiva bene con l’aria che entrava dal finestrino e le accarezzava dolcemente la guancia, mantenendola sveglia. Accennò qualche mossa, cantò a squarciagola. Pensò che il panorama di Venezia che si allontana era bellissimo, che il vento tiepido sul viso era bellissimo, che il mare era bellissimo e luccicante perfino a quell’ora.

 Che guidare da sola nella notte era quanto di più inebriante avesse mai provato.

 

 

 

 

(Nda: che parto!
In realtà questa storia è stata scritta in due tempi, e questo perché ero indecisa: finale figo ma surreale, o finale amaro ma verosimile? Ho scelto ‘amaro ma verosimile’, anche se poi ho voluto darci un goccino di ottimismo alla fine. Gli stronzi sono rimasti a piedi XD. Nel progetto iniziale finiva peggio :P.
Questa canzone è nata ascoltando Giorni a Perdere e Aurora Sogna, due canzoni dei Subsonica, le uniche che io riesca ad ascoltare di questo gruppo. Anzi, la seconda nemmeno mi piace. In pratica, siccome entrambe parlano più o meno della stessa cosa, volevo dipingere una ragazza che per trascinarsi attraverso i giorni si distrugge ogni notte a furia di alcool e droga. La volevo una discotecara tossicodipendente, possibilmente affetta da un disturbo dell’alimentazione, poiché è di questo che parla Aurora Sogna. Ma in realtà era sulle sensazioni di Giorni a Perdere che mi volevo concentrare, e così ho fatto: niente discotecare, niente droga e niente disordini alimentari. Solo alcool, notti che non finiscono mai e sesso vuoto.
Non so cosa pensare di com’è venuta fuori questa storia. X_x mi piacerebbe sapere se ha trasmesso qualcosa, oppure se è meglio che mi dedichi ad altro XD.
Grazie comunque di aver letto. ^^)

  
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