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Autore: yelle    04/07/2014    7 recensioni
[Olicity]
"Oliver Queen è un uomo grosso.
Felicity ricorda di aver pensato ad un animale possente, possente quanto un orso, la prima volta che l'ha visto. Forse ha a che vedere con il fatto che quella volta lei era seduta, e lui la sovrastava di un buon metro. O forse c'entra il fatto che, anche in piedi, lei è più bassa di lui. Se lo abbracciasse i loro corpi si incastrerebbero perfettamente, il mento di Oliver sul suo capo, come se entrambi fossero nati esclusivamente per quello: abbracciarsi.
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Genere: Commedia, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Felicity Smoak, John Diggle, Oliver Queen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: prima di leggere questa one-shot, è doverosa una piccola premessa. Ho iniziato a scriverla MESI fa (e con mesi, intendo quasi un anno XD). La seconda stagione era appena iniziata, e il rapporto fra Oliver e Felicity un po' diverso rispetto a quello che ci ha portato alla season finale. Non erano ancora intercorsi abbracci fra i due, e il mio bisogno di un abbraccio Olicity era tanto, perciò ecco perché è nata questa fanfic. Non so invece spiegare perché esattamente ci abbia messo qualcosa come nove mesi a scriverla, ma vabeh XD gioie e dolori dei fanwriter XD
Buona lettura!



 
*** ***



Oliver Queen è un uomo grosso.
Felicity ricorda di aver pensato ad un animale possente, possente quanto un orso, la prima volta che l'ha visto. Forse ha a che vedere con il fatto che quella volta lei era seduta, e lui la sovrastava di un buon metro. O forse c'entra il fatto che, anche in piedi, lei è più bassa di lui. Se lo abbracciasse i loro corpi si incastrerebbero perfettamente, il mento di Oliver sul suo capo, come se entrambi fossero nati esclusivamente per quello: abbracciarsi.
Ha immaginato spesso di farlo. Ci sono volte in cui Felicity si ferma a fissarlo e scopre di non riuscire a togliersi dalla mente l'immagine delle sue braccia intorno a sé. Non si spinge mai oltre, però. Rimane a fissarlo fino al momento in cui Oliver si volta a scoprirla, e lei volge lo sguardo a nascondere la faccia colorata d'imbarazzo.
È sicura di una cosa, però. Oliver dà dei bellissimi abbracci. Caldi, accoglienti. Glielo legge in volto, dietro il segreto di quegli occhi ermetici.
È un vero peccato che non sia mai riuscita a racimolare il coraggio sufficiente a chiedergliene uno.



 
-



Quando la sua nocca andò ad importunare il legno della porta d'ingresso della dimora dei Queen, Felicity sapeva già che avrebbe odiato ogni singolo istante di quella serata. Quella stessa mattina si era rigirata fra le coperte crogiolandosi nel tepore e nell'infelicità al pensiero di quello che avrebbe dovuto affrontare. Era riuscita ad alzarsi dal letto ben sapendo che rimanere sepolta in casa non era da lei, il solo pensiero la rendeva claustrofobica. Perciò aveva indossato il maglione di cashmere che aveva rubato a sua madre il Natale precedente e si era sforzata di apparire sorridente ed amabile agli occhi del mondo. E, ovviamente, a quelli di Oliver. Gli occhi che però trovò a fissarla da dietro la porta una volta aperta non erano quelli che si aspettava di vedere.
“Oh. Laurel, ciao! Io... uhm, non mi aspettavo di trovarti qui.”
Lo sguardo della donna era vuoto. “Scusami, tu saresti...?”
“Felicity!” rispose lei tentando di nascondere la delusione dietro un sorriso cordiale. Le porse la mano. “Un'amica di Oliver. A dir la verità ci siamo già incontrate un paio di volte, al Verdant.”
“Già, ora ricordo. Sei la segretaria!”
“Uhm, sì.... più o meno,” mugugnò a denti stretti.
“Cosa? Oh, perdonami, ti sto lasciando qui fuori sotto la neve. Vieni, entra.” Si scostò per lasciarle spazio, e Felicity venne accolta dal calore delle fiamme che provenivano dal camino in vista. Aveva piovuto tutta la notte, e ora i suoi stivali bagnati lasciavano impronte fredde e fangose sui pavimenti dell'ingresso e del salone.
Superata da Laurel che correva incontro ad una ragazza che non conosceva, Felicity vagò nella ressa assiepata nei salone senza rinunciare al calore del suo adorato parka rosso. Il suo sguardo vagò fra volti sconosciuti, e fra altri che conosceva solo di vista. Si sentiva un pesce fuor d'acqua, sperduta fra conversazioni ed occhiate che le scivolavano addosso senza lasciarle alcunché.
“Credi che Oliver abbia bisogno di aiuto?”
Felicity sobbalzò, presa alla sprovvista dalla voce di Diggle nell'orecchio sinistro. Non l'aveva sentito arrivare. Quando si voltò verso di lui lo vide indicare qualcosa; seguendo la direzione del dito che puntava verso un angolo della sala trovò Oliver. Le spalle addossate al muro, stava lasciando che una focosa mora vestita di uno striminzito fazzoletto di stoffa gli mangiasse la faccia.
“Credo che nessuno dei due abbia veramente bisogno di alcun tipo di aiuto,” replicò un po' piccata.
“Avanti, vieni.” John parve non badare minimamente alla sua espressione contrariata; le prese la mano e la trascinò con sé per tutta la sala. Le recriminazioni di lei passarono completamente inascoltate. Quando infine lo raggiunsero, la sconosciuta si stava ormai allontanando, non prima però di soffiargli un bacio sulle dita laccate di rosso.
Diggle dopotutto non sembrava aver avuto torto: Oliver sembrò parecchio sollevato del loro arrivo. Troppo sollevato.
“Grazie al cielo se n'è andata. Stavo iniziando a pensare di dover fuggire in Alaska.”
“Mi spiace, amico, ma credo che l'Alaska non sia abbastanza lontana, per una tipa come quella.”
“Strano, Oliver, non ti facevo un tipo tanto schizzinoso. Che aveva quella tipa, che non andava? Graffiava troppo?”
“Beh, Felicity, di certo una tipa come quella difficilmente è innocua.”
“Ti ringrazio, Diggle.”
“Certo che se non avessi voluto la sua lingua nella tua gola avresti anche potuto dirglielo. Grande e grosso come sei, hai paura di una donna piccola la metà di te?”
“Felicity,” intervenne John. “Devi capire che donne come quella hanno la straordinaria capacità di afferrarti le palle al primo sguardo, e in quei casi la forza esercitata dalle loro mani sarà inversamente proporzionale a quanto gentile tu sarai con loro.”
“E le donne come me?”
“Scusa?”
“Hai detto 'le donne come lei'. Le donne come me, invece, come sono?”
“Io... uhm, non credo di capire.”
“Oh, lascia stare. Perdonatemi, ho bevuto un bicchiere di troppo. Anzi, è meglio che vada a prendere un po' d'acqua.” E sparì prima che uno dei due potesse farle notare che era appena arrivata e che non aveva certamente avuto il tempo di prendere in mano un bicchiere, figurarsi berne il contenuto. Sgusciò tra il brillare di vestiti troppo eleganti e il calore di corpi che danzavano scomposti e annebbiati dall'alcool. Tentando di non badare al proprio cattivo umore cercò di integrarsi nell'ambiente, ma non riconobbe alcun viso amico da raggiungere, né fu esaltata dall'idea di gettarsi sulla pista da ballo, miseramente sola.
“Felicity.”
Conosceva la voce che la stava chiamando. Si voltò ad incontrare lo sguardo sereno del padrone di casa.
“Sei scappata così in fretta che non mi hai lasciato il tempo di dirti che sei bellissima, stasera.”
“Oh. Grazie. Tu invece sembri stanco.” Ed era vero. Ferito, anche, ma questo non glielo disse.
“Allora, sei venuta qui per ballare o per gironzolare senza meta per casa mia con quel muso lungo?”
“Io non ho il muso!”
“Vuol dire che non vuoi ballare?”
“Con te?”
“Certo,” rise lui.
“Beh, Oliver, devi ammettere che come invito lascia un po' a desiderare.”
“Ouch, mi hai ferito nell'orgoglio. Allora, vieni?” E senza lasciarle il tempo di dirgli che non aveva mai avuto l'intenzione di rifiutarlo, le strinse un braccio e la trascinò in pista.
Non sapeva ballare granché bene, perciò si lasciò guidare, il palmo in quello di lui, l'altra mano poggiata sull'ampio petto nascosto dalla stoffa di giacca e camicia.
“Temo, a questo punto, di doverti svelare un segreto,” le sussurrò, le labbra che quasi le sfioravano l'orecchio. “Io odio ballare.”
Felicity scoppiò in un'inaspettata risata. “La sai una cosa? Anche io.”
Qualcuno da dietro la spinse, facendole perdere l'equilibrio e costringendola ad aggrapparsi a lui. Il tessuto della sua camicia lasciava trapelare il calore della sua pelle. Quando cercò timidamente il suo sguardo, però, non lo trovò: era impegnato a vagare per la stanza. Seguendone la direzione Felicity scoprì che intorno a loro c'era la confusione più totale. Tutti si accalcavano verso la porta in una fiumana di gente che trascinava con sé ogni detrito, ogni esistenza.
Oliver si mosse insieme a loro e trascinò Felicity con sé, per poi fermarsi appena raggiunta l'ingresso.
“Aspetta,” le disse, allungando la mano verso il proprio cappotto ed estraendola stringendo un pezzo di stoffa, che Felicity si ritrovò stretto al collo prima di rendersene conto. “Tieni. Meglio che ti copri, fa freddo fuori.”
“Ma cosa stiamo andando a vedere?”
“La neve, Felicity.” sorrise. “La neve!”
Le prese di nuovo la mano e la trascinò fuori, sotto le sferzate di ghiaccio e di vento gelido che le artigliarono i polmoni. Eppure, con il respiro prigioniero di quella morsa di freddo, la sua mente fu presa dal pezzo di lana che le circondava il collo.
La sciarpa di Oliver. Il profumo mascolino di lui le riempiva le narici ed acuiva ogni altro suo senso.
Il suo dannato profumo.
Non era vestita nel modo più appropriato possibile, e presto il freddo penetrò gli strati di vestiti fino a raggiungere la pelle nuda. Ma quando Oliver mollò la presa dalla sua mano ed iniziò ad avanzare lasciandola indietro, il freddo raggiunse il suo cuore.
Rimase da sola ad osservare i fiocchi cadere ed accarezzarle la pelle infreddolita e ruvida. Persone che non aveva mai visto prima la superavano incespicando nella sua ombra, sfiorandola come se non fosse in piedi nel bel mezzo della notte. Lambita dalla loro indifferenza, Felicity si scoprì a desiderare di trovarsi altrove. Esattamente come aveva previsto di sentirsi quando aveva varcato la porta di quella casa.
D'impulso iniziò a camminare nella direzione opposta a quella in cui era sparito Oliver; percorse il lato destro della magione e sparì nel giardino retrostante, dove apparentemente nessuno era ancora arrivato a disturbare la quiete della sera.



Erano brividi quelli che scendevano lungo la sua spina dorsale.
Era freddo quello che le inzaccherava il cuore e le raffreddava le dita, costringendola a bloccarle nella stretta delle proprie stesse mani, invano.
Era il buio ciò che i suoi pensieri temevano. Il buio sconosciuto della notte e della solitudine, così pesante da rallentarle la mente.
Cos'era venuta a fare lì, esattamente? Non era nella disposizione d'animo adatta a circondarsi di gente agli antipodi da lei, né di rimanere a guardarlo flirtare con ragazze così diverse da ciò che lei mai sarebbe stata. Eppure eccola lì, ovviamente sola. Perché era venuta? Difficile dirlo. Avrebbe potuto rispondere a sé stessa, dirsi che probabilmente aveva solo bisogno di provare a fare un tentativo con ciò che aveva a disposizione. La verità, però, era un'altra.
Il suo cuore la conosceva. La sua mente la rifuggiva.
Tutto quello che cercava e che necessitava era Oliver Queen. La compagnia del suo sorriso triste e sfuggevole. Quella dei suoi occhi silenziosi e sempre vigili. Quegli occhi che desiderava su di sé più di qualsiasi altro tocco. Perché quello di Oliver era uno sguardo che sapeva parlare, che sapeva arrivare dove le parole di molti fallivano.
La verità era che a volte scappava dalla profondità di quei pozzi chiari, consapevole di non essere i grado di arrivare fino in fondo e sperare di riuscire a risalirne la china. Altre volte si perdeva invece senza remore negli sconosciuti meandri di quelle venature color del cielo, poiché quella era l'unica cosa che desiderava. Perdersi.
L'eco dei suoi passi si smarrì nella soffice neve che aveva cominciato a coprire l'erba ed imbiancare il paesaggio. Era sola. Intorno a lei non c'era nessuno, solo il riverbero di suoni ormai lontani.
Una fitta di delusione la bloccò sul posto. Che senso aveva rimanere? L'unica persona per la quale era venuta aveva chiaramente di meglio da fare che condividere con lei il proprio spazio vitale per più di cinque minuti. Eppure non riusciva a decidersi ad andarsene.
Con il cuore appesantito da quella verità, contò i passi amareggiati con cui si addentrò nella natura. I fiocchi continuavano a cadere, soffici, ovattando la realtà in cui stava affondando.
A quanto sembrava, anche il suo piede stava affondando, più precisamente in un cumulo di neve che nascondeva una buca nel terreno. Felicity continuò ad andare a fondo fino a che non cadde a testa in giù in un avvallamento di qualche metro, rotolando fino a terminare la sua corsa contro qualcosa di duro e che profumava d'inverno: il tronco di un albero. Avvertì qualcosa di altrettanto duro precipitare dall'alto e colpirla in testa. Sentì la terra e la neve farle da cuscino mentre la notte le scivolava dalle dita e la lasciava inerte ed incosciente riversa al suolo.



 
-



Riaperti gli occhi, il mondo le sembrò più buio di come l'aveva lasciato. La testa le martellava, la nebbia l'avvolgeva e la forza di mille soli la legava al terreno impedendole ogni movimento. Rimase sdraiata a fissare la neve cadere, lasciandosi ricoprire dal suo silenzio. Il mondo visto da quella angolazione sembrava volerle rovinare addosso, schiacciarla con il proprio peso. Felicity cercò di sfuggire a quella sensazione rotolando sul fianco destro, ma a quel punto il martellare della testa divenne tanto feroce da ritrovarsi a vomitare nella neve e nel fango freschi. Quando i conati si calmarono il suo udito venne riempito da un suono acuto e regolare: il trillo di un cellulare. A qualche metro da lei, la borsa vibrava, incuneata com'era nel terreno. Si trascinò dolorante fino ad afferrare con dita tremanti la tracolla rottasi in un qualche momento compreso tra l'uscita dalla casa e la sua caduta sgraziata. Trovò al tatto il telefono, che nel frattempo aveva smesso di squillare, e digitò nel buio il numero che conosceva a memoria.
“Felicity!” gracchiò Oliver. “Dove sei finita? È mezz'ora che ti stiamo cercando!”
“Sono sul retro.” Il sibilo della sua voce venne seguito da accesi colpi di tosse.
“Sul retro? Felicity, non capisco.”
“Sono dietro la casa!” Avrebbe voluto urlare, ma la sua voce sembrava essere fuori uso. “Sono caduta. Il cielo è così... scuro. Hai visto quanto sangue?”
“Sangue? Cos-... Felicity, che diavolo stai dicendo?”
“Le stelle ruotano, e girano...” La sua voce si fece gradatamente più flebile mentre il braccio cadeva senza vita nel ghiaccio e nella melma. Mormorava frasi ormai inudibili per Oliver. Rimase lì distesa per un lasso di tempo incalcolabile. Lasciò che il freddo penetrasse i vestiti, la pelle, il cuore. Lasciò che la cortina della notte la coprisse nuovamente, e la privasse della sua coscienza, lasciandola abbandonata nella neve senza più occhi per guardare, né orecchie per ascoltare.



 
-



Quando si svegliò, stava volando sospesa a mezz'aria.
“Felicity? Mi senti? Sono Oliver.”
Lei scosse la testa, confusa. Aveva freddo e non sentiva più le dita dei piedi. Le gambe, dal canto loro, erano così rigide che dubitava le sarebbero state di una qualsiasi utilità nel futuro più prossimo. E perché la faccia di Oliver fluttuava fra nubi soffici e bianche?
“Felicity, cerca di svegliarti!”
Il suo tono era urgente, esigente. Oliver era sempre esigente. Sul serio, gli risultava così difficile utilizzare un 'per favore' o un 'grazie', ogni tanto? Dannati miliardari.
“Vai via. Voglio dormire,” gemette. Percepì le dita di lui frugarle sotto i vestiti. Cercò di contorcersi, di allontanarsi dal suo tocco indesiderato, ma il suo corpo traditore era intirizzito dal freddo pungente, e bloccato dalla morsa delle braccia di lui. Chiuse gli occhi.
“Felicity, ho bisogno di capire quanto sei fredda, smettila di dimenarti.”
“Lasciami stare.”
“Non posso. Sul serio, devo sapere a che temperatura è sceso il tuo corpo. Chi è il presidente degli Stati Uniti?”
“Cosa? Oliver, sono io ad aver sbattuto la testa, non tu.”
“Dammi corda,” la esortò. “Rispondi alla domanda.”
“Ho freddo.”
“Lo so. Fa molto freddo qui fuori. È per questo che sto tentando di riscaldarti. Andiamo, ti porto a casa.”
“Mi piace casa mia. Ho un bel divano rosso. Tu ce l'hai un divano rosso? Scommetto di no. Sei troppo serio per avere un divano rosso.”
“Temo tu abbia ragione. E temo anche che non sia la tua, la casa in cui intendo portarti.”
“Oh, no, Oliver, non a casa tua, ti prego. Non mi piace, c'è troppa gente.”
“Non credo di avere molta scelta. Hai bisogno di essere immediatamente riscaldata, e casa mia è il luogo più vicino.”
Nonostante la nebbia che le avvolgeva il cervello, Felicity percepì lo sforzo nella voce di Oliver mentre camminava stringendosela al petto. Tremò, ma non seppe se a causa del freddo o del cuore di Oliver che batteva forte nel suo orecchio. Ondeggiavano a ritmo dei passi di lui sul terreno irregolare, reso scivoloso dalla neve e dal fango. Eppure, nonostante il peso che gli gravava addosso, non sembrava arrancare minimamente.
“Felicity, non addormentarti!”
“Non lo stavo facendo,” mentì. In realtà gli occhi non riuscivano a stare aperti. Il buio che l'attendeva oltre le palpebre chiuse era decisamente invitante.
“Felicity, rispondi alla domanda.”
“Quale domanda?”
“Il presidente degli Stati Uniti. Dimmelo, per piacere. Fallo per me.”
“Obama! Adesso vattene!”
“Non posso. Sei ipotermica. Devo portarti dentro e trovare il modo di riscaldarti. Non ti lascerò in pace. A meno che tu non preferisca morire qui fuori.”
Il suo fiato caldo le arrivava sul viso, mischiandosi alla brezza gelida che le impregnava i vestiti. Sopra di lei, le stelle ruotavano e il cielo sobbalzava al ritmo dei loro passi.
“Felicity?”
“Sì?”
“Sai contare all'indietro partendo da cento?”
“Che domanda stupida, Oliver, lo sai bene che sono uscita dal mio corso di laur-...”
“Allora fallo.”
“No.”
“Perché no?”
Lei fece un risolino. “Sei buffo, lo sai? E sei anche sudato. Come fai ad essere così attraente anche quando sei sudato? È terribilmente ingiusto, io di solito non faccio altro che sudare e puzzare come una muc-...”
“Felicity, ti prego, conta.”
“Perché?”
“Perché se ci riesci...” si bloccò mentre riposizionava il corpo di lei contro di sé. “Se ci riesci è un buon segno. All'indietro partendo da cento. Novantanove... dai, continua.”
Riprese a camminare, le ginocchia alte ad ogni passo nella neve, il cui scricchiolare era rincuorante alle orecchie ubriache di Felicity.
“Ma è ridicolo, Oliver.”
“Tu fallo. Novantotto... avanti.”
L'aria fredda le pungeva le guance mentre iniziava a contare. “Novantasette, novantasei.... oh, santo cielo.”
“Vai avanti.”
“Siamo arrivati.”
“Non ancora. Ti eri allontanata un bel po'. Dove diavolo stavi andando?”
“Lontano.”
“Da cosa?”
“Non da cosa, Oliver, da chi.”
Il silenzio intrise quelle parole di un significato pesante.
“Okay, allora. Lontano da chi?”
“Da te, ovviamente.”
“Certo. Da me. Ovvio.”
Avevano ormai raggiunto la casa. Le luci colpirono Felicity con una violenza eccessiva per i suoi occhi stanchi. Si nascose nel petto caldo di Oliver.
“Continua a contare,” mormorò lui.
La voce con cui gli rispose era smorzata dalla lana calda e pesante della giacca di lui. “Ho perso il conto.”
“Novantacinque.”
“Novantasei, novantasette...”
“No, a ritroso. Novantaquattro.”
“Novantatré, novantadue...” la sua voce di affievoliva man mano che si avvicinavano all'ingresso. Intorno a loro, facce sorprese li guardavano scivolare fra luci e ombre lungo i muri segnati dal tempo e dalle intemperie.
“Felicity? Vai avanti.”
Perché?”
“Perché così mi fai contento. Ottantanove.”
“Sono così stanca, Oliver. E ho freddo.”
“Lo so, ma siamo arrivati. Fra poco sarai al caldo. Starai bene.”
La testa le ricadde improvvisamente sulla spalla. Gli occhi ancora aperti fissi sul volto di lui, senza espressione. Una terza voce la costrinse a fissare la propria attenzione sul suo proprietario. Diggle.
“John, tu ce l'hai un divano rosso?”
“No, temo di non possederne uno.”
“Un vero peccato. Vuoi che te lo compri? Tutti dovrebbero avere qualcosa di rosso.”
“Magari per Natale. Come sta, Oliver?”
“Credo sia ipotermica. Non so per quanto tempo esattamente sia rimasta a dormire nella neve.”
“Io non stavo dormendo,” pigolò lei.
“Certo che no. Diggle, per piacere, faresti gli onori di casa?”
“Vuoi che faccia piazza pulita?”
“Sì, grazie. Mia madre e Thea non sono ancora rientrate, non saprei a chi altro chiedere. Io intanto la porto di sopra, in camera mia.”
“Certo, amico, vai pure.”
“John, mi presteresti il tuo naso? Ho perso il mio, non lo sento più.”
“Mi dispiace, Felicity, ma credo di non poterne proprio fare a meno. Se vuoi vado a vedere se riesco a trovartene uno nuovo.”
“Grazie, John. Tu sì che sei gentile. Oliver invece mi tratta sempre male. Ma non dirglielo, ti prego.”
“Non ti preoccupare. Il tuo segreto è al sicuro.”
Lei si addormentò brevemente fra le braccia di Oliver, e mancò di notare il sorriso che illuminò il volto di Diggle.



 
-



Il camino nella stanza era acceso. Il calore soffocò i movimenti di Oliver, avvolgendolo con la pesantezza di una coperta mentre entrava nella camera.. Sudato per lo sforzo e per l'improvvisa calura, mise Felicity a sedere sul letto, ancora fasciata nel suo cappotto. Si inginocchiò davanti a lei e la prese per le spalle per aiutarla a rimanere in posizione eretta.
“Felicity, ascoltami,” le disse alzando la voce per farsi sentire al di sopra del battito dei suoi denti. “Devo riscaldarti in fretta. Devi toglierti i vestiti inzuppati; jeans, maglione, tutto quanto. Non ti guardo, promesso.”
Prima di voltarsi, gli si impresse nella mente l'immagine di lei che slacciava la cerniera dei pantaloni con movimenti goffi e mal calibrati. Si allungò a raccogliere l'indumento che giaceva ben piegato su una delle poltrone nella stanza. “Posso darti alcuni miei vestiti, per rimpiazzare i tuoi. Oppure... c'è un modo più veloce per scaldarti, se me lo permetti.”
La udì mormorare parole incomprensibili, disturbate dal battito dei suoi denti.
“Posso scaldarti molto più rapidamente con la mia pelle,” continuò, sentendosi inspiegabilmente a disagio. “Se per te va bene.”
“Non capisco. Che cosa vuol dire?”
“Vuol dire che posso stendermi sotto le coperte insieme a te, e darti calore con il mio corpo. Sono la cosa più calda che abbiamo a disposizione. E dopo averti portata in braccio, sono molto caldo.”
“Non capisco. Oliver... che cosa è successo? Dove sono?”
Udendo il tono spaventato, si voltò repentino. Lo guardava con occhi vitrei, ed impauriti. Andò a chinarlesi di fronte. “Non piangere. Sei a casa mia, ti ricordi della festa? Sei caduta e sei rimasta qualche tempo sdraiata nella neve. Sei ipotermica e confusa, probabilmente a causa di una botta in testa, ma ora ti farò stare meglio.”
Con l'impressione di giocare con una bambola, le sfilò il parka dalla testa. Lei lo spinse via con un movimento che non sarebbe riuscito a smuovere un bambino, poi iniziò a litigare con il maglione. Alla fine rinunciò. “La mia testa è inceppata,” piagnucolò. “Le mie mani sono fuori uso!”
“Lascia fare a me.”
Le alzò le braccia e le tolse il maglione, rigido del ghiaccio di cui si era impregnato. Lei si lasciò manipolare, lo sguardo basso e triste. La aiutò ad infilarsi sotto al piumone, dove giacque supina, tremando violentemente. Continuò a guardare mentre si toglieva i vestiti fino a rimanere con i soli pantaloni indosso, e andò a sdraiarlesi accanto. Sollevò il piumone, e Felicity sentì il materasso infossarsi sotto al peso di lui.
Il corpo di Oliver era estremamente caldo contro il suo, e nel momento in cui andò a rannicchiarglisi addosso, i tremori aumentarono d'intensità.
“Felicity,” sussurrò lui. “Voglio che ti metti sul fianco, con il viso rivolto verso di me.”
Lei si mosse seguendo le sue istruzioni, e mentre spostava il peso del proprio corpo sul lato percepì il braccio di lui attorno alla vita e l'altra mano, gentile, sulle reni. “Adesso voglio che ti schiacci contro di me.” Lei obbedì. Quando furono petto contro petto, lui sussultò. “Dannazione, Felicity, sei gelata! Stringiti a me. Così va bene. Ti scalderò in fretta, non preoccuparti.”
Chiusa nel caldo abbraccio della sua pelle, stretta a quel petto ampio e segnato dalle cicatrici, lei non si preoccupò. Si sentiva al sicuro, tanto che le venne voglia di chiudere gli occhi e dormire in quella posizione, fino al momento in cui la morte fosse venuta a fare richiesta della sua anima. Le mani calde di Oliver sulla sua schiena le pizzicavano la pelle ghiacciata. Si sentiva così comoda che avrebbe mugolato di piacere, se solo non avesse pensato fosse fuori luogo.
Oltre le palpebre chiuse, l'oscurità si fece più densa.
“Felicity?”
“Mmm-mh?”
“Apri gli occhi. Per favore.”
Lei li aprì.
“Sei comoda?”
Rispose annuendo.
“Forse saresti più comoda se appoggiassi la guancia sul mio petto. Gira la testa. Meglio?”
“Hmm... non dovrei muovermi, però?” chiese, con voce assonnata. “Per... uhm, per riattivare la circolazione?”
“No. Devi riscaldarti in modo graduale. Sei molto fredda, in questo momento il tuo corpo lotta per preservare quel poco calore che gli è rimasto. Non dobbiamo sottrarre inutilmente sangue agli organi interni.”
Felicity voleva chiedergli qualcosa, ma i pensieri nella sua mente erano come immersi in una vasca gelatinosa, troppo vaghi e pesanti per lottare e riuscire a rimanere in superficie. Il secondo successivo già non ricordava più la domanda.
Oliver mosse gentilmente la mano sulla sua pelle gelata. “La tua schiena è davvero fredda. Girati, proviamo un'altra posizione.”
Lei ubbidì con un sospiro stanco. “È come il kamasutra.”
Oliver sorrise. “Quello sì che ti riattiverebbe la circolazione. Tira su le ginocchia.” La circondò con le braccia, lasciando che i loro corpi aderissero alla perfezione. Rimasero fermi in quella posizione, fino a che i loro respiri si sincronizzarono, formando un unico, gentile suono che riempì la stanza vuota e spoglia insieme al crepitio delle fiamme.
“Perché ti sei allontanata?” le chiese gentilmente, spezzando la sinfonia di suoni che stavano aiutandola a cadere nel limbo di sogni caldi e confortevoli. Si costrinse ad aprire gli occhi e a tornare in quella stanza.
“Cosa?”
“Quando siamo usciti in giardino. Perché all'improvviso te ne sei andata?”
Lei si mosse nel suo abbraccio, ma era così debole che lui non registrò nemmeno il suo movimento. “Io, uhm... ho visto che eri occupato..:”
Oliver sorrise dell'incertezza nella sua voce. “Occupato? Felicity... sono uscito in giardino trascinandoti a forza dietro di me, e ad un certo punto mi sono voltato e tu non c'eri. Sei semplicemente sparita. Ho fatto qualcosa di sbagliato?”
Felicity scosse debolmente la testa, ed Oliver avvertì quel flebile movimento nell'incavo del proprio braccio. Flebile quanto lo sfarfallio di una farfalla, lo fece sorridere di un sorriso dolce ed invisibile agli occhi chiusi di lei.
“Mi sono sentita sola.”
“E per questo te ne sei andata da sola in giro per la tenuta?”
Nel silenzio che seguì carico d'attesa, le parole di Felicity furono frecce impregnate di amarezza. “Almeno quella solitudine è stata una mia scelta.”
Le sue mani la strinsero, “Felicity, non capisco. Perché non me l'hai semplicemente detto? Sei mia ospite, era mio dovere accertarmi che tu non ti sentissi a disagio.”
Lei sbuffò, ma non rispose. Stretta in quell'abbraccio caldo, la sua mente vorticava per la stanza insieme a pensieri che non le davano pace.
“Felicity? Non dormire. Devi restare sveglia.”
“Sono caduta nella neve.”
“Ho visto. È stata una bella caduta.”
“È stata una caduta sgraziata. Mi fa male il sedere.”
“Domani ti farà male molto più del sedere.”
Sotto il suo sguardo, il volto di lei si raggrinzì, la sua fronte si aggrottò di preoccupazione. “Oliver, che cosa succede? Non ricordo dove sono...”
Lui, con estrema delicatezza, le carezzò le guance con le dita, e le trovò umide. “Non piangere. Felicity, starai bene. Te lo prometto.”
“Ho freddo,” piagnucolò. “La mia testa è inceppata. Le mie mani sono fuori uso.”
Lui si mosse sotto di lei, il braccio allungato verso il comodino a cercare qualcosa, e Felicity si lasciò cullare dal suo petto con un gemito di fastidio. L'attimo successivo avvertì qualcosa di caldo e pesante calarle sul volto fino a impedirle la vista della stanza in cui si trovavano.
“Che cosa stai facendo?” gli chiese.
“Ti metto un berretto. Mantenere calda la testa ti aiuterà a riscaldarti più in fretta.”
“Devo proprio sembrare un'idiota,” sbuffò.
“Se ti può far sentire meglio, tra poco sarai un'idiota calda.”
Rimasero in silenzio per interminabili minuti, racchiusi nel tepore dei loro reciproci corpi seminudi. Fino al momento in cui Felicity mugolò di piacere e si mosse all'interno dell'abbraccio. Oliver rispose immediatamente, stringendo la presa mentre chiamava il suo nome. “Stai bene? Felicity? Parlami.”
Lei sospirò, di un sospiro lungo e – con grande sollievo di Oliver – caldo. “Credo sia molto divertente il fatto che mi sia dovuta congelare nella neve per riuscire a ricevere un abbraccio da te.”
Oliver ridacchiò, e la risata si riverberò nella sua cassa toracica fino all'orecchio di Felicity poggiato sul suo petto. “Avresti potuto chiedermelo.”
“Non ero sicura me lo avresti concesso.” La sua voce suonava amara, frustrata.
“Felicity, c'è davvero poco che non ti concederei.”
“Allora la prossima volta che vado in ipotermia o mi sbronzo, ricordami di chiederti quello che non avrei il coraggio di chiederti da sobria.”
“Ad esempio?”
Ma la domanda di Oliver cadde in un vuoto senza risposta. Almeno fino al momento in cui Felicity lo riempì con la propria voce assonnata. “Oliver?”
“Sì?”
“Io, uhm... ho dei guanti sui piedi?”
Nelle sue parole si udì il sorriso che gli rilassò il viso. “Ho dovuto improvvisare.”
La risata di Felicity si unì alla sua.

 
   
 
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