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Autore: Egomet    26/08/2008    4 recensioni
Aveva letto in un sondaggio sul Corriere della Sera che quasi il cinquanta per cento degli intervistati, alla domanda ‘Chi vorresti essere?’ aveva risposto due semplici parole. Me stesso
Genere: Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Si sentiva in imbarazzo, ogni stramaledetta volta che facevano quella domanda.
Non aveva il coraggio di rispondere, di alzarsi e dire ‘sì’.
E si sentiva in conflitto con se stesso, quasi si vergognava.
Perché era così difficile mostrarsi per quello che si è?
Quando si è adolescenti ci si guarda allo specchio e si scoprono una miriade di difetti, di cui poi magari alle persone non importa un fico secco.
Quando poi si cresce si comincia ad accettarsi per quello che sì è.
E per quello che si è fatto in passato.
Aveva letto in un sondaggio sul Corriere della Sera che quasi il cinquanta per cento degli intervistati, alla domanda ‘Chi vorresti essere?’ aveva risposto due semplici parole.
Me stesso.
E non è mica una cosa facile ammetterlo. Essere se stessi, con i difetti e i pregi.
Lui non riusciva a vederne, di pregi.
Vedeva solo i difetti, e gli sembravano troppo grandi da mostrare.
Gli sembrava di essere l’unico sulla faccia della terra ad avere quei difetti.
Si svalutava.
Era cattolico. Credente e fervente, seguendo la sua famiglia.
Credeva in Gesù Cristo, morto per noi sulla croce.
Di questo non aveva paura.
Non aveva paura di dire ‘sì, io sono cristiano. Prego, vado in chiesa e mi confesso’ davanti agli altri.
E aveva scoperto che non era un handicap ammetterlo.
Era l’unica cosa che gli piaceva, essere riuscito a testimoniare con i fatti la sua fede.
Ma non voleva sentirsi superbo.
No, questo mai.
E così si prendeva sempre in giro, pensava di essere un niente.

“Non c’è amore più grande di chi dona la vita per i propri amici”.

Questa frase lo aveva colpito parecchio. E meditava sul significato molto spesso.
Specie dopo quello che era successo.


Era una mattinata di maggio, e lui stava andando a scuola in compagnia di un suo amico.
Il liceo era poco distante da un fruttivendolo e da un tabacchino.
Per arrivare ci si doveva passare davanti.
Alcuni ragazzi chiacchieravano, camminavano davanti a loro in una miriade di colori e di parole.
Era un posto abbastanza tranquillo.
Decisero di svoltare per una scorciatoia.
E così si trovarono a passare davanti a quel fruttivendolo.
Stavano discutendo di una lezione di algebra, quando si fermarono tutti e due.
Il suo amico gli indicò una macchia per terra, sull’asfalto; lui si fermò e si chinò per osservarla meglio.
Non ci voleva credere all’inizio, cercava una scappatoia; ma era inequivocabilmente sangue quello.
Si rialzò preoccupato.
Il suo amico lo rassicurò, scherzando disse che probabilmente era uno gioco.
Ma lui non si sentiva così tranquillo.
Facendo finta di nulla, o provandoci almeno, ripresero a camminare.
Accanto a loro, su quella stradina, c’erano ragazzi che andavano e venivano; e anche alcuni uomini su delle Api sfasciate andavano a guadagnarsi il pane per le loro famiglie.
Non era una stradina isolata.
Nessuno avrebbe mai potuto pensare che potesse succedere………….. quello.
Camminarono un altro po’, erano circa le otto e dieci.
Per la scuola c’era tempo.
Ad un tratto, entrambi si bloccarono sentendo un urlo.
Un urlo dalla strada laterale, proprio dietro quel fruttivendolo.
Lui ebbe paura, indietreggiò.
Il suo amico, più spavaldo, cercò di vedere cosa era successo.

Poi fu un momento.

Sentirono uno sparo.
Un colpo di pistola sferzò l’aria, gelando il sangue nelle vene ad entrambi.
Un altro urlo, e rumore di passi.
I ragazzi che camminavano per quella strada non c’erano più ora.
Ora erano soli.
Cercò di muoversi, invitando l’amico ad andar via, ma altri tre colpi ripetuti li bloccarono.
Quasi fossero indirizzati a loro.
Erano solo due liceali del quarto anno.
Che potevano fare?

Niente.
Non ebbero tempo di fare nulla.
Un uomo, coperto da un passamontagna, sfrecciò correndo dalla stradina.
Aveva in mano una pistola. Puntò un ragazzino che passava.
Poi ne uscirono altri due, sempre a volto coperto.
Corsero per la strada, poi uno li notò.
Lui si scansò velocemente, ma l’altro non fu abbastanza rapido.
Urlò qualcosa a quello che aveva la rivoltella contro il ragazzino, tipo un ‘lascialo stare’.
Ci fu un altro colpo di pistola.




E cosa significa, cosa si deve pensare, quando vorresti correre, andartene, urlare ma rimani bloccato e le parole non ti escono dalla bocca?
Quando vedi una persona un momento prima parlare, poi succube di una pallottola fermarsi, diventare pallida e cadere a terra?
E cosa significa allora guardare impotente mentre la schiena del tuo amico, coperta solo da uno zaino, inizia a bagnarsi?
E cadere anche tu a terra, girare il corpo e osservare ancora il volto pallido.
Guardare la maglietta e trovare un buco.
E sentire il sangue caldo bagnarti le mani, e avere voglia di urlare, di correre, di salvarlo.

Ma non puoi fare niente. Puoi solo rimanere immobile mentre tutto intorno a te si muove e non capisci neanche cosa succede.
Avere le mani bagnate di sangue, di sangue rosso.
E poi le grida, l’ambulanza, la gente intorno.
E tu rimani lì, impotente, tra le mani lo zaino rosso anche lui.
Con dentro un compito di algebra che non avrà mai un voto.

E li aveva sentiti, lui.
Aveva sentito le lacrime scendere inarrestabili sul volto, solo due ore dopo, quando finalmente cominci a renderti conto di quello che è successo.
Scoprire che il fruttivendolo era stato sparato anche lui davanti alla moglie.
E quei tre avevano fatto il loro dovere in un orario inammissibile.
Avrebbero potuto colpire degli innocenti.

Ma grazie a quella pallottola in più, lo spavento era stato tale da farli fuggire via. Senza lasciare altre vittime.
Cosa significa tutto il discorso sul perdonare, quando vedi la madre del tuo amico impazzita di dolore stringerti e piangerti sulla maglia, chiedendoti le ultime parole di suo figlio?
E vedere la tomba bianca passarti davanti, avere voglia di aprirla di scuotere quel corpo e di sentirlo ridere un’altra volta.
Avere voglia di tornare indietro nel tempo, di non farlo ripetere, di prendere lui il posto nella tomba.

Si vergognava. Non era stato capace di fare niente.
Se prima si considerava un niente, ora ne era certo.
Lo era, un niente.



Tante volte avevano fatto quella domanda, avevano discusso dell’omicidio tante volte a scuola, a casa.
Non aveva il coraggio di ammettere che era morto.
Che lui l’aveva lasciato morire.
Che non era stato capace di difenderlo, di prendere il suo posto.
E quei fiori, quelle dediche sulla lapide per lui non significavano nulla.
Avrebbe dovuto esserci la sua foto lì.
E sua madre a piangere sulla tomba.
Avrebbe certamente dato un senso a tutto; sarebbe stato finalmente fiero di se stesso.
Ma invece si vergognava.
Si vergognava ad ammettere che era stato codardo.
Alla domanda che gli facevano sempre, lui rispondeva così.

-È morto da eroe, ha salvato un ragazzino-

E le lacrime gli scendevano.
Davide guardò la tomba bianca.
Quanto mi faccio schifo.
Sopra c’era quella frase.
‘Non c’è amore più grande di chi dona la vita per i propri amici’.
Altre lacrime.

Sono stati loro.
La mafia si è portata via il mio amico.
  
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