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Autore: Mitsuki91    06/07/2014    5 recensioni
Nel regno di Aren, la pace verrà sconvolta dalla morte del re. Il principe salirà al potere troppo presto, a detta di alcuni, e dovrà faticare ad ottenere l'appoggio di tutte e cinque le dinastie nobiliari, che nella sua ascesa prematura altro non vedono che un'occasione per cercare di insinuarsi sul trono.
Nel frattempo Kora, una giovane ragazza appena trasferitasi nella capitale con la famiglia, farà un incontro che le cambierà la vita: lei, la ragazza "circondata dalla morte", scoprirà di avere dentro di sé dei poteri magici, e che non tutte le leggende restano tali con lo scorrere del tempo...
Ma chi è in realtà a tessere la trama del regno? A cosa si sta preparando la Cospirazione della Rosa, e qual è il potere che sta cercando?
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ed ecco qui il primo capitolo.
Premetto che quasi tutti i nomi li ho sparati a caso. Avevo voglia di postare, ma non avevo voglia di riflettere seriamente sui nomi dei luoghi e delle persone. Essendo una storia fantasy, spero che mi perdonerete ^^”
Quanto al contenuto del capitolo… Sto cercando di evitare le auto-descrizioni come “Sono Kora, ho diciott’anni, ho gli occhi azzurri e i capelli castani”, quindi non ne troverete. Ho descritto nel limite del possibile (del credibile) certi avvenimenti, che comunque dovevano esserci nel racconto per dare l’incipit (ad esempio, il motivo per cui Kora e famiglia si trasferiscono), ma nulla più. Se volete sapere l’aspetto fisico dei personaggi, ad esempio… Beh, dovrete aspettare che qualcuno li descriva, immagino. Così come i luoghi e ogni altra cosa, sebbene possiate chiedermi delucidazioni nelle recensioni, naturalmente ^^” Quanto all’aspetto socio-politico-culturale-religioso-economico di Aren, non ho trovato un modo abbastanza decente di introdurlo… Ma credo che emergerà pian piano in ogni caso. Per ora, vi dico solo che c’è parità fra uomo e donna, e che l’istruzione è accessibile a chi paga, sebbene non serva far parte della nobiltà né essere esageratamente ricchi. Erano cose che non potevo inserire nel testo senza sembrare ridicola… ^^” Insomma, quanti di voi, scrivendo un’autobiografia, si metterebbero a discutere del sistema scolastico in generale? E’ vero, la storia è in terza persona, ma la terza persona rimane focalizzata su Kora, Ieren e la Madre, perciò non vedo un modo plausibile di inserire certe tematiche (non ancora, ma ho un’idea per il futuro).
Beh, spero di non avervi tediato con queste note lunghissime ^^”
Buona lettura, ringrazio in anticipo per ogni eventuale parere che mi lascerete! :)



I

Kora aveva da qualche tempo iniziato ad avere degli incubi.
Sognava spesso di essere in un bosco e di dover correre per avere salva la vita. Tutte le volte, mentre lei insisteva a mettere un piede dietro l’altro nonostante la fatica e il batticuore, non riusciva a vedere una radice sporgente, e finiva immancabilmente per inciampare.
Era allora che il vero incubo aveva inizio.
Una presenza oscura, di cui non riusciva a visualizzare i lineamenti, ma che percepiva come nera, più nera della notte senza stelle nella quale era costretta a vivere il suo incubo, incombeva su di lei. La assaliva, la costringeva a girarsi per farsi vedere in volto – volto che Kora non voleva vedere, o che forse non era ancora pronta a scorgere.
Lo sconosciuto premeva su di lei, insinuandosi sotto le sue vesti con una mano dopo averle bloccato le sue sopra la testa. E lei si ribellava, gridando e scalciando, ma il peso dello straniero era troppo forte, e la mano che le toccava la pelle nuda sembrava ghiacciarla sul posto mentre continuava la sua corsa verso l’alto, sempre più su…
Era solo arrivata a quel punto che Kora si svegliava, ansante e sudata, senza tuttavia gridare. L’incubo sembrava cessare da solo poco prima della parte peggiore, come se ancora in qualche modo la sua mente cercasse di proteggersi – eppure sapeva, Kora sapeva, che quell’ombra l’avrebbe poi violentata nel giro di pochi minuti.
Il risveglio non la rincuorava mai. La paura continuava a strisciare sotto la sua pelle, riempiendola di brividi. A nulla valeva il suo opporsi, il suo considerare razionalmente che era stato tutto solo un incubo, che ora si trovava nella realtà, al sicuro nel suo letto.
Kora si alzava; camminava fino alle cucine per attingere un po’ d’acqua dal piccolo pozzo interno e bere; vagava per il salotto ampio ma pieno di stoffe ingombranti, dato che sua madre era una sarta; si avvicinava alla stanza da letto dei suoi genitori incerta se entrare o meno, ma a diciott’anni le sembrava una vergogna dover confidare ai suoi di essere ancora terrorizzata per un incubo passato; e infine tornava a letto, rassegnata a passare insonne un’altra notte rigirandosi fra le lenzuola.
A volte pensava che il suo incubo riflettesse la sua paura della città, o, meglio, della capitale dove giusto il giorno dopo si sarebbe trasferita assieme alla sua famiglia. Suo padre era stato promosso a guardia reale, entrando a far parte della scorta personale del principe Ieren, e questa era un’opportunità così grande che non si poteva non cogliere. Ma lei era abituata alla sua piccola cittadella dove conosceva praticamente tutti, alla sua casa alla periferia di Eiwen, ai suoi viaggi sul carro delle verdure di Yoshua, l’ortolano, che ogni mattina accompagnava lei e i pochi altri fortunati che potevano permetterselo a scuola.
Lasciare tutti sarebbe stato difficile, e lo sarebbe stato doppiamente perché Kora non aveva la minima idea di cosa aspettarsi da Misedora. Per lei la capitale era un città lontana e caotica e soprattutto piena di pericoli. Avrebbe frequentato la scuola migliore, vero, e avrebbe potuto avere molte più cose, come un calesse personale, eppure… Eppure era restia ad abbandonare la spontaneità e la semplicità che tanto caratterizzavano Eiwen.
Perciò, considerò di nuovo la ragazza, girandosi per l’ennesima volta nel letto fino a finire a pancia in giù, il suo incubo ricorrente poteva riflettere una paura più profonda di ciò che le era estraneo. Se così fosse stato, in ogni caso, sarebbe scomparso una volta che lei si fosse ambientata a Misedora.
Sperava presto, sia per la sua sanità mentale che per gli effetti che la privazione di sonno stavano avendo sul suo corpo. Non le piacevano le occhiaie violacee che le erano spuntate sotto gli occhi, e non le piaceva sentirsi sempre intontita verso metà pomeriggio, senza però riuscire comunque a cedere al sonno.
Dopo l’ennesima giravolta nel letto, che quasi la mandò a schiantarsi sul pavimento, Kora decise di alzarsi di nuovo. Tornò in cucina a bere e rubò un pezzo di pane, certa che non sarebbe mancato a nessuno, dato che ormai era vecchio di tre giorni. Mentre lo masticava lentamente si spostò verso la finestra, da dove poteva vedere l’alba che stava sorgendo e illuminando i profili degli edifici. Da qualche parte si sentiva già il rumore di alcune ruote di carro sull’acciottolato, segno che c’erano persone che erano sveglie e che si stavano mettendo al lavoro.
Kora finì il suo pezzo di pane e tornò in camera, solo per controllare per l’ennesima volta di aver messo tutte le sue cose nei bauli e di non aver dimenticato nulla. Trovò solo un vecchio maglione sul fondo nell’armadio, che aveva abbandonato già alla prima cernita in quanto ormai troppo piccolo e consunto, e i vestiti che avrebbe indossato quel giorno durante il viaggio.
Passò un’altra mezz’ora prima che iniziasse ad udire rumori dal resto della casa. Quando infine si decise a uscire dalla stanza, trovò sua madre in salotto che stava riordinando freneticamente stoffe e spilli.
“Kora! Sei già sveglia?”
Kora scrollò le spalle, perché non voleva che lei notasse qualcosa di strano.
Sua madre le chiese una mano per imballare tutto, cosa che fece abbastanza volentieri, seguendo attentamente le sue indicazioni. Tutti pensavano che lei, dopo la scuola, sarebbe diventata l’apprendista di sua madre… Anche perché per molti era una fortuna avere un mestiere che potesse essere tramandato in famiglia. Eppure a Kora non era mai interessato molto creare abiti, per non parlare del fatto che molte volte ancora si confondeva sulle tipologie di stoffe e che in generale non era proprio portata per quel tipo di lavoro.
Non che Leila se la prendesse. Se lei e suo padre avevano deciso di mandarla a scuola, dopotutto, era stato proprio per darle più opportunità di scelta in futuro.
Una volta che ebbero tutti terminato di fare e ricontrollare i propri bagagli, ci fu tempo solo per una breve e fugace colazione, prima che una carrozza reale giungesse a prenderli.
Kora era stupita da tutto quel lusso, dai cavalli dal manto nero e lucido e dall’ampia cabina con sedili foderati e con un vano apposito per i bagagli, ma sua madre le aveva spiegato che essere parte della guardia reale era insieme un onere e un privilegio, e che quel trattamento era riservato a tutte le guardie personali dei membri della famiglia.
Mentre i bagagli venivano caricati, Kora si ritrovò a fissare l’enorme stemma reale intagliato sul retro della carrozza. Una singola spada dritta era avvolta da un rampicante, mentre due piccole querce erano poste ai lati. Il tutto era circondato da un nastro rosso, e posto su sfondo bianco.
Stava per allungare una mano, per toccare i rilievi intagliati e colorati magistralmente, quando sua madre la richiamò all’ordine.
Erano pronti a partire.
Kora si sporse dalla carrozza e osservò Eiwen, per dirle addio silenziosamente.
Fino a che non superarono i numerosi campi coltivati e non curvarono, entrando in un piccolo boschetto, la ragazza rimase così, a fissare i profili delle case basse e scure che si allontanavano piano piano, cercando di trattenere nelle orecchie il rumore tipico di una mattinata di mercato. Riusciva ad immaginarseli, anche se non poteva vederli, i commercianti radunati in piazza, con le bancarelle piene di merce, mentre i ragazzi correvano da una parte all’altra cercando di trattare sul prezzo. Ci sarebbe stata anche lei fra la folla, se solo non fosse partita…
Il suo ultimo pensiero andò al tempio di Fin e Freya, le divinità del sole e della luna. Sapeva che alla capitale c’erano più templi e che la loro bellezza non era paragonabile a quella di ciò che aveva sempre visto a Eiwen, ma era difficile pensare di non poter più trarre conforto dai vecchi sacerdoti, dalla navata lunga e fresca, dalle statue che con gli anni aveva cominciato a conoscere in ogni sfaccettatura e imprecisione. Come avrebbe fatto a pregare davanti ad un idolo perfetto che le era del tutto estraneo, se non nella forma? Come avrebbe fatto a confessarsi a sacerdoti sconosciuti, ad aprire il suo cuore a gente che neppure conosceva?
Il pensiero acuì un po’ la sua malinconia, perché come le era sempre stato insegnato, si poteva cambiare casa e terra, ma si avrebbero sempre avuti gli Dei nel cuore, e a lei sembrava di aver perso anche quelli, con quella partenza.
Una volta nel folto degli alberi, Kora si fece ricadere pesantemente sul sedile. Non c’era più motivo per sporgersi, se non poteva osservare né niente di vecchio, né niente di nuovo.
Sua madre le sorrise e riprese a ricamare, cosa che faceva sempre quando era troppo nervosa per lavorare.
Suo padre, invece, stava scambiando qualche parola con il cocchiere, tenendo un tono formale che poche volte lei aveva sentito, a casa.
Questo la riportò a pensare a come Ruas fosse stato promosso da semplice militare di stanza a Eiwen a membro della guardia reale.
Era una tradizione antica quando la stessa Aren. Durante Beltane, la festa del fuoco, venivano istituiti dei giochi nella capitale; delle prove tese a dimostrare la forza fisica e l’abilità dei combattenti. C’era un limite alle iscrizioni, nonostante ci si presentasse in centinaia, ed erano privilegiate le iscrizioni di chi era già in grado di maneggiare una spada o una qualche altra tipologia di arma. Naturalmente non tutte le persone che lavoravano nella milizia militare del regno potevano partecipare – non si poteva lasciare le città al caos per una festa – e nelle piccole cittadelle come Eiwen ogni anno avveniva una pre-selezione, a volte decisa con dei sorteggi e a volte con dei veri e propri combattimenti, come a Misedora.
Le richieste erano tantissime e l’afflusso di volontari era enorme perché, beh, al vincitore del maggior numero di combattimenti, suddivisi nelle varie categorie, veniva offerto un posto nella guardia reale, almeno per un anno, rinnovabile a seconda della volontà del re.
Ruas aveva vinto sia le preselezioni che le varie gare. Kora e sua madre non avevano potuto assistere – il viaggio verso la capitale costava troppo e Leila doveva lavorare –, ma la notizia era giunta loro prima del ritorno a casa di Ruas.
E così, la famiglia aveva avuto tre giorni di tempo per prepararsi, prima del trasferimento.
Tutto sommato, il viaggio non fu pesante. Certo, era stato lungo – circa cinque ore di strada –, ma il fastidio maggiore, almeno per Kora, era dato dalla noia.
Quando finalmente arrivarono in vista di Misedora, Kora si allungò di nuovo fuori dalla carrozza per cercare di osservare il più possibile.
La capitale era immensa, questo fu il suo primo pensiero. Le mura svettavano alte e imponenti, nascondendo la maggior parte delle case; tuttavia, la cupola del tempio maggiore riluceva, dorata, e più indietro si riusciva a scorgere anche il palazzo reale, che era stato costruito su un’altura all’interno della città. Altri tetti sporgevano, anche se erano perlopiù di edifici comuni; unica nota strana, a destra della cupola del tempio, un campanile con un enorme orologio permetteva agli abitanti di non smarrire mai il senso del tempio, ed era situato, stando agli insegnamenti che aveva avuto, nell’estremità nord dell’enorme piazza del mercato mattutino.
Kora si risedette composta in carrozza solo quando dovettero aspettare di essere ammessi in città. Sentì le guardie sussurrare qualcosa al cocchiere, poi dopo una breve risposta una di esse bussò sullo sportello, chiamando suo padre. Dopo un altro dialogo sussurrato, di cui Kora riuscì a cogliere solo il nome di Re Conor, Ruas si accigliò e ci disse: “Scusate. Devo andare immediatamente… Il cocchiere vi porterà a casa.”
Leila si sporse e afferrò il suo braccio.
“Cos’è successo?”
Ruas scosse la testa.
“Ora non posso. A stasera.” rispose, e se ne andò così.
Kora e sua madre si scambiarono una veloce occhiata, entrambe preoccupate, mentre la carrozza veniva richiusa. Una volta che si furono rimessi in marcia, Kora si sporse nuovamente per cercare di capire cosa stesse succedendo.
C’era agitazione per le strade. Inizialmente erano solo poche persone riunite sulle soglie dei negozi, ma quello che impensierì Kora fu l’eccessivo silenzio. La gente sussurrava e non si sentiva nessun altro rumore, nemmeno quando superarono diverse osterie.
Avvicinandosi alla piazza principale, le persone continuavano a crescere di numero. I sussurri si fecero sempre più alti e rumorosi, ma proprio perché tutti stavano parlando con tutti, Kora non riuscì a capire quale fosse il motivo di tutta quell’agitazione.
Accadde poi quando ormai avevano oltrepassato la piazza. Una vecchia signora, pallida, magra e con i capelli bianchi e sottili, le afferrò un braccio.
Kora urlò e il cocchiere, che già stava procedendo piano per evitare di travolgere qualcuno, si fermò, cercando di capire cosa stesse succedendo.
“Tu.” le disse la donna. L’aveva strattonata fino ad avvicinarle il viso, e, nello spavento, Kora riuscì solo a pensare che il suo alito sapeva di alcool “Tu, sei circondata dalla morte. La morte si nutre di te, si spande attorno a te, impregna l’aria che respiri!”
Finalmente in grado di reagire, Kora cercò di strattonare via il braccio dalla presa di quella vecchia. Tuttavia, nonostante l’età, le unghie di lei erano piantate ben salde nella sua carne. Il cocchiere era sceso e stava cercando di scostare la donna, per aiutarla, e anche dall’interno della carrozza sua madre l’aveva afferrata per la vita, pur non capendo cosa stesse succedendo.
“Stai attenta, bambina!” disse ancora lei, stavolta alzando la voce e facendo girare parecchie teste nella sua direzione “La morte è il tuo destino! Il tuo destino!”
Poi la lasciò andare e Kora ricadde indietro, nella carrozza, sbattendo la testa sul legno per il contraccolpo. Pure il cocchiere cadde, trascinandosi addosso la vecchia.
Dopo qualche imprecazione, e dopo che Kora ebbe tirato le tende, ripresero tutti il viaggio.
Mancava ormai poco a destinazione, le rassicurò il cocchiere, e aggiunse che ogni paese aveva i suoi matti, forse per cercare di consolarle un po’.
Kora, dopo aver scosso la testa in risposta alle domande di sua madre, poggiò la testa sul morbido cuscinetto di velluto rosso e chiuse gli occhi, cercando di far calmare i battiti del suo cuore e di non pensare al pulsare sulla nuca.
Non se l’era aspettato. La vecchia l’aveva presa alla sprovvista e l’aveva spaventata molto; a prescindere dalle parole, erano stati proprio i suoi occhi strabuzzati e la sua presa ferrea a inculcarle il terrore nel corpo.
E, in ogni caso…
Sei circondata dalla morte.
Una pazza che diceva una pazzia? Perché, e perché a lei?
Avrebbe dovuto dimenticarlo, davvero. Non pensare più a quella brutta avventura, arrivare nella sua nuova casa, sistemare le proprie cose e cercare di capire che diamine stava succedendo in città, cos’era tutta quell’agitazione.
Eppure…
Eppure Kora strinse una mano a pugno, mentre il ricordo degli incubi tornava prepotentemente in lei.
C’era stato un tempo, si diceva, in cui la magia era presente ad Aren.
C’era stato un tempo in cui gli Oracoli venivano ascoltati e venerati.
E c’era ancora chi, fra i suoi connazionali, credeva a queste cose. C’era ancora chi celebrava riti segreti nei boschi, o almeno così si sussurrava di nascosto, cercando di invocare l’aiuto della Natura, cercando di dominare gli Elementi e cercando di osservare fra le pieghe del Tempo. E c’era anche chi sosteneva di esserci riuscito, sebbene non tutti ormai se ne vantassero, dato che queste persone si erano rivelate solo pazze o visionarie.
Lei non aveva mai dato peso a questi racconti. Sembravano più favole o spauracchi, e di certo, sebbene ora fosse sconvolta, non poteva iniziare ad avere dei dubbi per la prima vecchia pazza che le diceva una frase sinistra.
Eppure…
Eppure, pensò Kora mentre si portava la mano ancora chiusa a pugno al petto, eppure, se sommava quelle parole al suo incubo, sembrava tutto così dannatamente vero.
Non sapeva perché, non sapeva da dove venisse la sua sensazione. E all’improvviso spalancò gli occhi e si mise seduta dritta, scuotendo la testa e riaprendo la mano.
Non doveva farsi contagiare dall’ansia, dalla pazzia.
Sicuramente quelle parole erano false, e lei ne era stata colpita perché era in ansia per essere arrivata a Misedora. Inoltre, c’era la questione del comportamento ambiguo della gente, di quei sussurri che volavano di persona in persona mentre l’interno delle case e delle botteghe rimaneva in silenzio.
Sì, erano stati sicuramente quelli i motivi per cui si era fatta toccare così in profondità.
Con una frenata un po’ brusca, il cocchiere annunciò loro che erano arrivati a destinazione.
Gli appartamenti dei famigliari delle guardie reali erano situati dietro il palazzo, in un’enorme costruzione di pietra che tuttavia aveva un’aria accogliente. Ogni appartamento aveva infatti balconi sia esterni che interni, e più o meno tutti erano decorati con vasi di fiori dai colori più disparati.
Nell’ingresso le accolse un uomo del personale di servizio, presentandosi come Huges. Svolgeva le funzioni di portinaio, disse loro, accompagnandole al terzo piano e mostrando loro le stanze che avrebbero occupato.
C’era una piccola cucina, un salotto abbastanza grande, due camere da letto, una sala da bagno che era pregna dell’odore di olio profumato alle rose e un’altra stanza vuota, che Huges disse di essere a disposizione di Leila per il suo lavoro.
Mentre l’uomo illustrava loro la casa, altri due membri del personale portarono i bagagli e li lasciarono in salotto.
Kora li osservò e considerò che sembravano ben miseri; dei semplici bauli di legno poggiati su quello che sembrava essere un tappeto pregiato.
“Per qualsiasi necessità potete chiedere a me, o a Phil, che mi dà il cambio di notte. Troverete sempre uno di noi due nell’ingresso, signora.”
Huges fece un leggero inchino sia a Leila che a Kora, e poi si congedò. Poco dopo venne a bussare una cameriera, presentandosi come Lilian e offrendosi di aiutarle con il loro bagaglio. Disse anche che sarebbe passata ogni mattina per le pulizie, e che quello era un servizio di cui avevano diritto come famiglia di una guardia reale.
Lilian sembrava giovane; non poteva avere troppi anni più di Kora. Mentre parlava, durante le pause, si mordeva il labbro inferiore, come se fosse pensierosa, e sembrava distratta. Fu questo che diede a Kora la spinta per domandarle: “Scusami, Lilian… Tu per caso sai cosa sta succedendo? Voglio dire, la città mi sembra strana, e anche mio padre… E’ dovuto andare via subito non appena siamo arrivati.”
Lilian la fissò per un momento, sempre mordendosi il labbro. Poi sospirò, prendendo la sua decisione.
“Mi spiace, signora e signorina. Siete capitate nella giornata sbagliata. In teoria non dovrei dire nulla, ma in pratica… Ci sarà un annuncio ufficiale, questa sera, quindi…” abbassò lo sguardo; poi, dopo aver raccolto le forze, rialzò il viso verso di loro “Re Coron è morto.”
“Cosa?” esclamò Leila.
Lilian scosse piano la testa.
“Pare che abbia avuto un attacco cardiaco stamattina… Non è stato possibile fare niente. Ma nessuno avrebbe dovuto saperlo fino a stasera, solo che… La notizia è trapelata.” si morse ancora il labbro inferiore e girò la testa verso destra; poi, forse ricordandosi come e perché era lì, sussultò e cercò di recuperare un atteggiamento formale.
“Adesso, se volete una mano, o anche solo fare un bagno caldo mentre io sistemo i bagagli…”
Leila non le permise di toccare le sue stoffe e i suoi attrezzi da lavoro, mentre Kora apprezzò molto l’offerta, e l’aiutò un po’ a sistemare mentre la vasca da bagno si riempiva di acqua calda. Poi, ormai esausta sia per il viaggio che per le emozioni del giorno, si congedò da lei e da sua madre per andare a fare un bagno.
Scivolò nella vasca cercando di rilassarsi e, prima di iniziare a lavarsi, chiuse gli occhi e reclinò la testa all’indietro.
Si chiese, per un momento, cosa avrebbe significato la morte del Re per Aren.

***

Ieren stava camminando avanti e indietro nelle sue stanze da ormai un quarto d’ora, nervoso e addolorato.
Ogni passo, ogni minuto, ogni secondo che passava continuava a sentire sempre quella fitta al cuore, quello strazio profondo.
Aveva perso suo padre.
Certo, il regno sarebbe stato in lutto con lui, ma… Non era la stessa cosa.
Conor era per lui un pilastro, una guida, un punto d’appoggio. Loro due si erano sostenuti a vicenda dopo la morte Iana, la regina, sua madre. Nonostante gli impegni che essere Re e Principe comportavano, loro due avevano sempre trovato anche un singolo momento della giornata da dedicare l’uno alla cura dell’altro.
Si parlavano, si ascoltavano… Erano, in tutto, padre e figlio.
E, adesso, suo padre non c’era più. Aveva cessato di esistere e lui non l’avrebbe mai riavuto indietro.
Faceva male.
Faceva ancora più male perché non poteva semplicemente piangere, disperarsi, urlare, chiudersi in camera e soffrire il giusto dolore. No, lui era il Principe, fra poco sarebbe diventato Re, e avrebbe dovuto parlare alla nazione. Ci sarebbe stato l’annuncio ufficiale di quella sera, e poi il funerale, e poi la cerimonia d’incoronazione… Tutte stupide cose di cui si doveva occupare in prima persona, e di cui avrebbe fatto volentieri a meno.
E poi c’era quello.
Ieren sferrò un calcio al piede del letto, imprecando poi a gran voce perché si era fatto male. Si sedette così, al centro della stanza, continuandosi a tenere le dita offese strette nel pugno, e cercò per l’ennesima volta di capirci qualcosa.
Conor, suo padre, era stato strano negli ultimi giorni.
Nervoso, agitato, indisponente con i suoi sottoposti – lui, un uomo così buono! – e, soprattutto, sgarbato nei suoi confronti. Non avevano più potuto permettersi uno dei loro momenti insieme, dopo la litigata di circa cinque giorni prima. Suo padre gli aveva gridato contro e, poi, come in preda al rimorso, lo aveva fermato mentre lui stava per uscire dalla sala da pranzo e per sbattersi la porta alle spalle.
“Mi spiace, figliolo. C’è una questione di estrema importanza che mi preoccupa ma, credimi, non ne posso parlare. Non posso proprio.” aveva detto, prima di sussultare e di guardarsi attorno nervosamente. Poi gli aveva preso le mani e se l’era portate al volto, baciandole.
“Perdonami.” aveva aggiunto, prima di andarsene lui stesso, lasciandolo lì impietrito nel mezzo della sala.
Quella era stata l’ultima volta che avevano avuto una conversazione degna di questo nome.
E suo padre, sebbene preoccupato e nervoso, era sano.
Giovane e completamente sano.
Per questo motivo, Ieren non si era bevuto nemmeno per un attimo la scusa della sua morte per attacco cardiaco.
Quello era stato un assassinio. Lui ne era certo, ma non aveva alcuna prova, né un probabile colpevole o un movente. Oh, certo, alcuni dei suoi parenti avrebbero potuto farlo per vendetta o per desiderio di potere, ma… Perché adesso? Perché verso di lui, perché uccidere un Re buono e generoso che faceva sempre il possibile per non scontentare nessuna delle cinque dinastie nobiliari?
No, c’era dell’altro.
Ieren non sapeva né come né perché, ma sentiva che c’era dell’altro.
Niente in quella dannata storia aveva un dannato senso e lui avrebbe solo voluto che suo padre gli avesse confidato le sue premure, quando ancora ne aveva avuto l’occasione.
Anzi, no.
Avrebbe solo voluto riavere suo padre lì, ora, di nuovo sereno e soprattutto di nuovo vivo.
Non era giusto. Non era giusta la sua morte e non era giusto soprattutto che il peso del regno ricadesse già sulle sue spalle. Lui era un Principe, cresciuto come tale e con la prospettiva di diventare Re; eppure, lo sapeva, lo sentiva, non era ancora pronto.
La prova era racchiusa in quelle lacrime che si ostinavano a cadergli dagli occhi. La rabbia era in grado di sorreggerlo fino ad un certo punto; il senso di frustrazione che provava, non poteva usarlo per tenere un discorso ai cittadini.
Non si sentiva in grado di svolgere il suo dovere.
La perdita, la mancanza pesavano come un macigno sul suo petto.
Alla fine, questa era la verità.
Ieren, in quel momento, si sentiva solo un semplice uomo sconfitto dal lutto.
   
 
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