Ed ecco qui il
primo capitolo.
Premetto che
quasi tutti i nomi li ho sparati a caso. Avevo voglia di postare, ma non avevo
voglia di riflettere seriamente sui nomi dei luoghi e delle persone. Essendo
una storia fantasy, spero che mi perdonerete ^^”
Quanto al
contenuto del capitolo… Sto cercando di evitare le auto-descrizioni come “Sono
Kora, ho diciott’anni, ho gli occhi azzurri e i capelli castani”, quindi non ne
troverete. Ho descritto nel limite del possibile (del credibile) certi
avvenimenti, che comunque dovevano esserci nel racconto per dare l’incipit (ad
esempio, il motivo per cui Kora e famiglia si trasferiscono), ma nulla più. Se
volete sapere l’aspetto fisico dei personaggi, ad esempio… Beh, dovrete
aspettare che qualcuno li descriva, immagino. Così come i luoghi e ogni altra
cosa, sebbene possiate chiedermi delucidazioni nelle recensioni, naturalmente
^^” Quanto all’aspetto socio-politico-culturale-religioso-economico di Aren,
non ho trovato un modo abbastanza decente di introdurlo… Ma credo che emergerà
pian piano in ogni caso. Per ora, vi dico solo che c’è parità fra uomo e donna,
e che l’istruzione è accessibile a chi paga, sebbene non serva far parte della
nobiltà né essere esageratamente ricchi. Erano cose che non potevo inserire nel
testo senza sembrare ridicola… ^^” Insomma, quanti di voi, scrivendo un’autobiografia,
si metterebbero a discutere del sistema scolastico in generale? E’ vero, la
storia è in terza persona, ma la terza persona rimane focalizzata su Kora,
Ieren e la Madre, perciò non vedo un modo plausibile di inserire certe
tematiche (non ancora, ma ho un’idea per il futuro).
Beh, spero di
non avervi tediato con queste note lunghissime ^^”
Buona lettura,
ringrazio in anticipo per ogni eventuale parere che mi lascerete! :)
I
Kora
aveva da qualche tempo iniziato ad avere degli incubi.
Sognava
spesso di essere in un bosco e di dover correre per avere salva la vita. Tutte
le volte, mentre lei insisteva a mettere un piede dietro l’altro nonostante la
fatica e il batticuore, non riusciva a vedere una radice sporgente, e finiva
immancabilmente per inciampare.
Era
allora che il vero incubo aveva inizio.
Una
presenza oscura, di cui non riusciva a visualizzare i lineamenti, ma che
percepiva come nera, più nera della notte senza stelle nella quale era
costretta a vivere il suo incubo, incombeva su di lei. La assaliva, la
costringeva a girarsi per farsi vedere in volto – volto che Kora non voleva
vedere, o che forse non era ancora pronta a scorgere.
Lo
sconosciuto premeva su di lei, insinuandosi sotto le sue vesti con una mano
dopo averle bloccato le sue sopra la testa. E lei si ribellava, gridando e
scalciando, ma il peso dello straniero era troppo forte, e la mano che le
toccava la pelle nuda sembrava ghiacciarla sul posto mentre continuava la sua
corsa verso l’alto, sempre più su…
Era
solo arrivata a quel punto che Kora si svegliava, ansante e sudata, senza
tuttavia gridare. L’incubo sembrava cessare da solo poco prima della parte
peggiore, come se ancora in qualche modo la sua mente cercasse di proteggersi –
eppure sapeva, Kora sapeva, che
quell’ombra l’avrebbe poi violentata nel giro di pochi minuti.
Il
risveglio non la rincuorava mai. La paura continuava a strisciare sotto la sua
pelle, riempiendola di brividi. A nulla valeva il suo opporsi, il suo
considerare razionalmente che era stato tutto solo un incubo, che ora si
trovava nella realtà, al sicuro nel suo letto.
Kora
si alzava; camminava fino alle cucine per attingere un po’ d’acqua dal piccolo
pozzo interno e bere; vagava per il salotto ampio ma pieno di stoffe
ingombranti, dato che sua madre era una sarta; si avvicinava alla stanza da
letto dei suoi genitori incerta se entrare o meno, ma a diciott’anni le
sembrava una vergogna dover confidare ai suoi di essere ancora terrorizzata per
un incubo passato; e infine tornava a letto, rassegnata a passare insonne
un’altra notte rigirandosi fra le lenzuola.
A
volte pensava che il suo incubo riflettesse la sua paura della città, o,
meglio, della capitale dove giusto il giorno dopo si sarebbe trasferita assieme
alla sua famiglia. Suo padre era stato promosso a guardia reale, entrando a far
parte della scorta personale del principe Ieren, e questa era un’opportunità
così grande che non si poteva non cogliere. Ma lei era abituata alla sua piccola
cittadella dove conosceva praticamente tutti, alla sua casa alla periferia di
Eiwen, ai suoi viaggi sul carro delle verdure di Yoshua, l’ortolano, che ogni
mattina accompagnava lei e i pochi altri fortunati che potevano permetterselo a
scuola.
Lasciare
tutti sarebbe stato difficile, e lo sarebbe stato doppiamente perché Kora non
aveva la minima idea di cosa aspettarsi da Misedora. Per lei la capitale era un
città lontana e caotica e soprattutto piena di pericoli. Avrebbe frequentato la
scuola migliore, vero, e avrebbe potuto avere molte più cose, come un calesse
personale, eppure… Eppure era restia ad abbandonare la spontaneità e la
semplicità che tanto caratterizzavano Eiwen.
Perciò,
considerò di nuovo la ragazza, girandosi per l’ennesima volta nel letto fino a
finire a pancia in giù, il suo incubo ricorrente poteva riflettere una paura
più profonda di ciò che le era estraneo. Se così fosse stato, in ogni caso,
sarebbe scomparso una volta che lei si fosse ambientata a Misedora.
Sperava
presto, sia per la sua sanità mentale che per gli effetti che la privazione di
sonno stavano avendo sul suo corpo. Non le piacevano le occhiaie violacee che le
erano spuntate sotto gli occhi, e non le piaceva sentirsi sempre intontita
verso metà pomeriggio, senza però riuscire comunque a cedere al sonno.
Dopo
l’ennesima giravolta nel letto, che quasi la mandò a schiantarsi sul pavimento,
Kora decise di alzarsi di nuovo. Tornò in cucina a bere e rubò un pezzo di
pane, certa che non sarebbe mancato a nessuno, dato che ormai era vecchio di
tre giorni. Mentre lo masticava lentamente si spostò verso la finestra, da dove
poteva vedere l’alba che stava sorgendo e illuminando i profili degli edifici.
Da qualche parte si sentiva già il rumore di alcune ruote di carro sull’acciottolato,
segno che c’erano persone che erano sveglie e che si stavano mettendo al
lavoro.
Kora
finì il suo pezzo di pane e tornò in camera, solo per controllare per
l’ennesima volta di aver messo tutte le sue cose nei bauli e di non aver
dimenticato nulla. Trovò solo un vecchio maglione sul fondo nell’armadio, che
aveva abbandonato già alla prima cernita in quanto ormai troppo piccolo e
consunto, e i vestiti che avrebbe indossato quel giorno durante il viaggio.
Passò
un’altra mezz’ora prima che iniziasse ad udire rumori dal resto della casa.
Quando infine si decise a uscire dalla stanza, trovò sua madre in salotto che
stava riordinando freneticamente stoffe e spilli.
“Kora!
Sei già sveglia?”
Kora
scrollò le spalle, perché non voleva che lei notasse qualcosa di strano.
Sua
madre le chiese una mano per imballare tutto, cosa che fece abbastanza
volentieri, seguendo attentamente le sue indicazioni. Tutti pensavano che lei,
dopo la scuola, sarebbe diventata l’apprendista di sua madre… Anche perché per
molti era una fortuna avere un mestiere che potesse essere tramandato in
famiglia. Eppure a Kora non era mai interessato molto creare abiti, per non
parlare del fatto che molte volte ancora si confondeva sulle tipologie di
stoffe e che in generale non era proprio portata per quel tipo di lavoro.
Non
che Leila se la prendesse. Se lei e suo padre avevano deciso di mandarla a
scuola, dopotutto, era stato proprio per darle più opportunità di scelta in
futuro.
Una
volta che ebbero tutti terminato di fare e ricontrollare i propri bagagli, ci
fu tempo solo per una breve e fugace colazione, prima che una carrozza reale
giungesse a prenderli.
Kora
era stupita da tutto quel lusso, dai cavalli dal manto nero e lucido e
dall’ampia cabina con sedili foderati e con un vano apposito per i bagagli, ma
sua madre le aveva spiegato che essere parte della guardia reale era insieme un
onere e un privilegio, e che quel trattamento era riservato a tutte le guardie
personali dei membri della famiglia.
Mentre
i bagagli venivano caricati, Kora si ritrovò a fissare l’enorme stemma reale
intagliato sul retro della carrozza. Una singola spada dritta era avvolta da un
rampicante, mentre due piccole querce erano poste ai lati. Il tutto era
circondato da un nastro rosso, e posto su sfondo bianco.
Stava
per allungare una mano, per toccare i rilievi intagliati e colorati
magistralmente, quando sua madre la richiamò all’ordine.
Erano
pronti a partire.
Kora
si sporse dalla carrozza e osservò Eiwen, per dirle addio silenziosamente.
Fino
a che non superarono i numerosi campi coltivati e non curvarono, entrando in un
piccolo boschetto, la ragazza rimase così, a fissare i profili delle case basse
e scure che si allontanavano piano piano, cercando di trattenere nelle orecchie
il rumore tipico di una mattinata di mercato. Riusciva ad
immaginarseli, anche se non poteva vederli, i commercianti radunati in piazza,
con le bancarelle piene di merce, mentre i ragazzi correvano da una parte
all’altra cercando di trattare sul prezzo. Ci sarebbe stata anche lei fra la
folla, se solo non fosse partita…
Il
suo ultimo pensiero andò al tempio di Fin e Freya, le divinità del sole e della
luna. Sapeva che alla capitale c’erano più templi e che la loro bellezza non
era paragonabile a quella di ciò che aveva sempre visto a Eiwen, ma era
difficile pensare di non poter più trarre conforto dai vecchi sacerdoti, dalla
navata lunga e fresca, dalle statue che con gli anni aveva cominciato a
conoscere in ogni sfaccettatura e imprecisione. Come avrebbe fatto a pregare
davanti ad un idolo perfetto che le era del tutto estraneo, se non nella forma?
Come avrebbe fatto a confessarsi a sacerdoti sconosciuti, ad aprire il suo
cuore a gente che neppure conosceva?
Il
pensiero acuì un po’ la sua malinconia, perché come le era sempre stato
insegnato, si poteva cambiare casa e terra, ma si avrebbero sempre avuti gli
Dei nel cuore, e a lei sembrava di aver perso anche quelli, con quella
partenza.
Una
volta nel folto degli alberi, Kora si fece ricadere pesantemente sul sedile. Non
c’era più motivo per sporgersi, se non poteva osservare né niente di vecchio,
né niente di nuovo.
Sua
madre le sorrise e riprese a ricamare, cosa che faceva sempre quando era troppo
nervosa per lavorare.
Suo
padre, invece, stava scambiando qualche parola con il cocchiere, tenendo un
tono formale che poche volte lei aveva sentito, a casa.
Questo
la riportò a pensare a come Ruas fosse stato promosso da semplice militare di
stanza a Eiwen a membro della guardia reale.
Era
una tradizione antica quando la stessa Aren. Durante Beltane, la festa del fuoco,
venivano istituiti dei giochi nella capitale; delle prove tese a dimostrare la
forza fisica e l’abilità dei combattenti. C’era un limite alle iscrizioni,
nonostante ci si presentasse in centinaia, ed erano privilegiate le iscrizioni
di chi era già in grado di maneggiare una spada o una qualche altra tipologia
di arma. Naturalmente non tutte le persone che lavoravano nella milizia
militare del regno potevano partecipare – non si poteva lasciare le città al caos
per una festa – e nelle piccole cittadelle come Eiwen ogni anno avveniva una
pre-selezione, a volte decisa con dei sorteggi e a volte con dei veri e propri
combattimenti, come a Misedora.
Le
richieste erano tantissime e l’afflusso di volontari era enorme perché, beh, al
vincitore del maggior numero di combattimenti, suddivisi nelle varie categorie,
veniva offerto un posto nella guardia reale, almeno per un anno, rinnovabile a
seconda della volontà del re.
Ruas
aveva vinto sia le preselezioni che le varie gare. Kora e sua madre non avevano
potuto assistere – il viaggio verso la capitale costava troppo e Leila doveva
lavorare –, ma la notizia era giunta loro prima del ritorno a casa di Ruas.
E
così, la famiglia aveva avuto tre giorni di tempo per prepararsi, prima del
trasferimento.
Tutto
sommato, il viaggio non fu pesante. Certo, era stato lungo – circa cinque ore
di strada –, ma il fastidio maggiore, almeno per Kora, era dato dalla noia.
Quando
finalmente arrivarono in vista di Misedora, Kora si allungò di nuovo fuori
dalla carrozza per cercare di osservare il più possibile.
La
capitale era immensa, questo fu il suo primo pensiero. Le mura svettavano alte
e imponenti, nascondendo la maggior parte delle case; tuttavia, la cupola del tempio
maggiore riluceva, dorata, e più indietro si riusciva a scorgere anche il
palazzo reale, che era stato costruito su un’altura all’interno della città.
Altri tetti sporgevano, anche se erano perlopiù di edifici comuni; unica nota
strana, a destra della cupola del tempio, un campanile con un enorme orologio
permetteva agli abitanti di non smarrire mai il senso del tempio, ed era
situato, stando agli insegnamenti che aveva avuto, nell’estremità nord dell’enorme
piazza del mercato mattutino.
Kora
si risedette composta in carrozza solo quando dovettero aspettare di essere
ammessi in città. Sentì le guardie sussurrare qualcosa al cocchiere, poi dopo
una breve risposta una di esse bussò sullo sportello, chiamando suo padre. Dopo
un altro dialogo sussurrato, di cui Kora riuscì a cogliere solo il nome di Re
Conor, Ruas si accigliò e ci disse: “Scusate. Devo andare immediatamente… Il
cocchiere vi porterà a casa.”
Leila
si sporse e afferrò il suo braccio.
“Cos’è
successo?”
Ruas
scosse la testa.
“Ora
non posso. A stasera.” rispose, e se ne andò così.
Kora
e sua madre si scambiarono una veloce occhiata, entrambe preoccupate, mentre la
carrozza veniva richiusa. Una volta che si furono rimessi in marcia, Kora si
sporse nuovamente per cercare di capire cosa stesse succedendo.
C’era
agitazione per le strade. Inizialmente erano solo poche persone riunite sulle
soglie dei negozi, ma quello che impensierì Kora fu l’eccessivo silenzio. La
gente sussurrava e non si sentiva nessun altro rumore, nemmeno quando
superarono diverse osterie.
Avvicinandosi
alla piazza principale, le persone continuavano a crescere di numero. I
sussurri si fecero sempre più alti e rumorosi, ma proprio perché tutti stavano
parlando con tutti, Kora non riuscì a capire quale fosse il motivo di tutta
quell’agitazione.
Accadde
poi quando ormai avevano oltrepassato la piazza. Una vecchia signora, pallida,
magra e con i capelli bianchi e sottili, le afferrò un braccio.
Kora
urlò e il cocchiere, che già stava procedendo piano per evitare di travolgere
qualcuno, si fermò, cercando di capire cosa stesse succedendo.
“Tu.”
le disse la donna. L’aveva strattonata fino ad avvicinarle il viso, e, nello
spavento, Kora riuscì solo a pensare che il suo alito sapeva di alcool “Tu, sei
circondata dalla morte. La morte si nutre di te, si spande attorno a te,
impregna l’aria che respiri!”
Finalmente
in grado di reagire, Kora cercò di strattonare via il braccio dalla presa di
quella vecchia. Tuttavia, nonostante l’età, le unghie di lei erano piantate ben
salde nella sua carne. Il cocchiere era sceso e stava cercando di scostare la donna,
per aiutarla, e anche dall’interno della carrozza sua madre l’aveva afferrata
per la vita, pur non capendo cosa stesse succedendo.
“Stai
attenta, bambina!” disse ancora lei, stavolta alzando la voce e facendo girare
parecchie teste nella sua direzione “La morte è il tuo destino! Il tuo destino!”
Poi
la lasciò andare e Kora ricadde indietro, nella carrozza, sbattendo la testa
sul legno per il contraccolpo. Pure il cocchiere cadde, trascinandosi addosso
la vecchia.
Dopo
qualche imprecazione, e dopo che Kora ebbe tirato le tende, ripresero tutti il
viaggio.
Mancava
ormai poco a destinazione, le rassicurò il cocchiere, e aggiunse che ogni paese
aveva i suoi matti, forse per cercare di consolarle un po’.
Kora,
dopo aver scosso la testa in risposta alle domande di sua madre, poggiò la
testa sul morbido cuscinetto di velluto rosso e chiuse gli occhi, cercando di
far calmare i battiti del suo cuore e di non pensare al pulsare sulla nuca.
Non
se l’era aspettato. La vecchia l’aveva presa alla sprovvista e l’aveva
spaventata molto; a prescindere dalle parole, erano stati proprio i suoi occhi
strabuzzati e la sua presa ferrea a inculcarle il terrore nel corpo.
E,
in ogni caso…
Sei circondata
dalla morte.
Una
pazza che diceva una pazzia? Perché, e perché a lei?
Avrebbe
dovuto dimenticarlo, davvero. Non pensare più a quella brutta avventura,
arrivare nella sua nuova casa, sistemare le proprie cose e cercare di capire
che diamine stava succedendo in città, cos’era tutta quell’agitazione.
Eppure…
Eppure
Kora strinse una mano a pugno, mentre il ricordo degli incubi tornava
prepotentemente in lei.
C’era
stato un tempo, si diceva, in cui la magia era presente ad Aren.
C’era
stato un tempo in cui gli Oracoli venivano ascoltati e venerati.
E
c’era ancora chi, fra i suoi connazionali, credeva a queste cose. C’era ancora
chi celebrava riti segreti nei boschi, o almeno così si sussurrava di nascosto,
cercando di invocare l’aiuto della Natura, cercando di dominare gli Elementi e
cercando di osservare fra le pieghe del Tempo. E c’era anche chi sosteneva di
esserci riuscito, sebbene non tutti ormai se ne vantassero, dato che queste
persone si erano rivelate solo pazze o visionarie.
Lei
non aveva mai dato peso a questi racconti. Sembravano più favole o spauracchi,
e di certo, sebbene ora fosse sconvolta, non poteva iniziare ad avere dei dubbi
per la prima vecchia pazza che le diceva una frase sinistra.
Eppure…
Eppure,
pensò Kora mentre si portava la mano ancora chiusa a pugno al petto, eppure, se
sommava quelle parole al suo incubo, sembrava tutto così dannatamente vero.
Non
sapeva perché, non sapeva da dove venisse la sua sensazione. E all’improvviso
spalancò gli occhi e si mise seduta dritta, scuotendo la testa e riaprendo la
mano.
Non
doveva farsi contagiare dall’ansia, dalla pazzia.
Sicuramente
quelle parole erano false, e lei ne era stata colpita perché era in ansia per
essere arrivata a Misedora. Inoltre, c’era la questione del comportamento
ambiguo della gente, di quei sussurri che volavano di persona in persona mentre
l’interno delle case e delle botteghe rimaneva in silenzio.
Sì,
erano stati sicuramente quelli i motivi per cui si era fatta toccare così in
profondità.
Con
una frenata un po’ brusca, il cocchiere annunciò loro che erano arrivati a
destinazione.
Gli
appartamenti dei famigliari delle guardie reali erano situati dietro il palazzo,
in un’enorme costruzione di pietra che tuttavia aveva un’aria accogliente. Ogni
appartamento aveva infatti balconi sia esterni che interni, e più o meno tutti
erano decorati con vasi di fiori dai colori più disparati.
Nell’ingresso
le accolse un uomo del personale di servizio, presentandosi come Huges. Svolgeva
le funzioni di portinaio, disse loro, accompagnandole al terzo piano e
mostrando loro le stanze che avrebbero occupato.
C’era
una piccola cucina, un salotto abbastanza grande, due camere da letto, una sala
da bagno che era pregna dell’odore di olio profumato alle rose e un’altra
stanza vuota, che Huges disse di essere a disposizione di Leila per il suo
lavoro.
Mentre
l’uomo illustrava loro la casa, altri due membri del personale portarono i
bagagli e li lasciarono in salotto.
Kora
li osservò e considerò che sembravano ben miseri; dei semplici bauli di legno
poggiati su quello che sembrava essere un tappeto pregiato.
“Per
qualsiasi necessità potete chiedere a me, o a Phil, che mi dà il cambio di
notte. Troverete sempre uno di noi due nell’ingresso, signora.”
Huges
fece un leggero inchino sia a Leila che a Kora, e poi si congedò. Poco dopo
venne a bussare una cameriera, presentandosi come Lilian e offrendosi di
aiutarle con il loro bagaglio. Disse anche che sarebbe passata ogni mattina per
le pulizie, e che quello era un servizio di cui avevano diritto come famiglia
di una guardia reale.
Lilian
sembrava giovane; non poteva avere troppi anni più di Kora. Mentre parlava,
durante le pause, si mordeva il labbro inferiore, come se fosse pensierosa, e
sembrava distratta. Fu questo che diede a Kora la spinta per domandarle: “Scusami,
Lilian… Tu per caso sai cosa sta succedendo? Voglio dire, la città mi sembra
strana, e anche mio padre… E’ dovuto andare via subito non appena siamo
arrivati.”
Lilian
la fissò per un momento, sempre mordendosi il labbro. Poi sospirò, prendendo la
sua decisione.
“Mi
spiace, signora e signorina. Siete capitate nella giornata sbagliata. In teoria
non dovrei dire nulla, ma in pratica… Ci sarà un annuncio ufficiale, questa
sera, quindi…” abbassò lo sguardo; poi, dopo aver raccolto le forze, rialzò il
viso verso di loro “Re Coron è morto.”
“Cosa?”
esclamò Leila.
Lilian
scosse piano la testa.
“Pare
che abbia avuto un attacco cardiaco stamattina… Non è stato possibile fare
niente. Ma nessuno avrebbe dovuto saperlo fino a stasera, solo che… La notizia
è trapelata.” si morse ancora il labbro inferiore e girò la testa verso destra;
poi, forse ricordandosi come e perché era lì, sussultò e cercò di recuperare un
atteggiamento formale.
“Adesso,
se volete una mano, o anche solo fare un bagno caldo mentre io sistemo i
bagagli…”
Leila
non le permise di toccare le sue stoffe e i suoi attrezzi da lavoro, mentre
Kora apprezzò molto l’offerta, e l’aiutò un po’ a sistemare mentre la vasca da
bagno si riempiva di acqua calda. Poi, ormai esausta sia per il viaggio che per
le emozioni del giorno, si congedò da lei e da sua madre per andare a fare un
bagno.
Scivolò
nella vasca cercando di rilassarsi e, prima di iniziare a lavarsi, chiuse gli
occhi e reclinò la testa all’indietro.
Si
chiese, per un momento, cosa avrebbe significato la morte del Re per Aren.
***
Ieren
stava camminando avanti e indietro nelle sue stanze da ormai un quarto d’ora,
nervoso e addolorato.
Ogni
passo, ogni minuto, ogni secondo che passava continuava a sentire sempre quella
fitta al cuore, quello strazio profondo.
Aveva
perso suo padre.
Certo,
il regno sarebbe stato in lutto con lui, ma… Non era la stessa cosa.
Conor
era per lui un pilastro, una guida, un punto d’appoggio. Loro due si erano
sostenuti a vicenda dopo la morte Iana, la regina, sua madre. Nonostante gli
impegni che essere Re e Principe comportavano, loro due avevano sempre trovato
anche un singolo momento della giornata da dedicare l’uno alla cura dell’altro.
Si
parlavano, si ascoltavano… Erano, in tutto, padre e figlio.
E,
adesso, suo padre non c’era più. Aveva cessato di esistere e lui non l’avrebbe
mai riavuto indietro.
Faceva
male.
Faceva
ancora più male perché non poteva semplicemente piangere, disperarsi, urlare,
chiudersi in camera e soffrire il giusto dolore. No, lui era il Principe, fra
poco sarebbe diventato Re, e avrebbe dovuto parlare alla nazione. Ci sarebbe
stato l’annuncio ufficiale di quella sera, e poi il funerale, e poi la
cerimonia d’incoronazione… Tutte stupide cose di cui si doveva occupare in
prima persona, e di cui avrebbe fatto volentieri a meno.
E
poi c’era quello.
Ieren
sferrò un calcio al piede del letto, imprecando poi a gran voce perché si era
fatto male. Si sedette così, al centro della stanza, continuandosi a tenere le
dita offese strette nel pugno, e cercò per l’ennesima volta di capirci
qualcosa.
Conor,
suo padre, era stato strano negli ultimi giorni.
Nervoso,
agitato, indisponente con i suoi sottoposti – lui, un uomo così buono! – e,
soprattutto, sgarbato nei suoi confronti. Non avevano più potuto permettersi
uno dei loro momenti insieme, dopo la litigata di circa cinque giorni prima.
Suo padre gli aveva gridato contro e, poi, come in preda al rimorso, lo aveva
fermato mentre lui stava per uscire dalla sala da pranzo e per sbattersi la
porta alle spalle.
“Mi
spiace, figliolo. C’è una questione di estrema importanza che mi preoccupa ma,
credimi, non ne posso parlare. Non posso proprio.” aveva detto, prima di
sussultare e di guardarsi attorno nervosamente. Poi gli aveva preso le mani e
se l’era portate al volto, baciandole.
“Perdonami.”
aveva aggiunto, prima di andarsene lui stesso, lasciandolo lì impietrito nel
mezzo della sala.
Quella
era stata l’ultima volta che avevano avuto una conversazione degna di questo
nome.
E
suo padre, sebbene preoccupato e nervoso, era sano.
Giovane
e completamente sano.
Per
questo motivo, Ieren non si era bevuto nemmeno per un attimo la scusa della sua
morte per attacco cardiaco.
Quello
era stato un assassinio. Lui ne era certo, ma non aveva alcuna prova, né un
probabile colpevole o un movente. Oh, certo, alcuni dei suoi parenti avrebbero
potuto farlo per vendetta o per desiderio di potere, ma… Perché adesso? Perché verso di lui, perché uccidere un Re buono e
generoso che faceva sempre il possibile per non scontentare nessuna delle
cinque dinastie nobiliari?
No,
c’era dell’altro.
Ieren
non sapeva né come né perché, ma sentiva
che c’era dell’altro.
Niente
in quella dannata storia aveva un dannato senso e lui avrebbe solo voluto che
suo padre gli avesse confidato le sue premure, quando ancora ne aveva avuto l’occasione.
Anzi,
no.
Avrebbe
solo voluto riavere suo padre lì, ora,
di nuovo sereno e soprattutto di nuovo vivo.
Non
era giusto. Non era giusta la sua morte e non era giusto soprattutto che il
peso del regno ricadesse già sulle sue spalle. Lui era un Principe, cresciuto
come tale e con la prospettiva di diventare Re; eppure, lo sapeva, lo sentiva, non era ancora pronto.
La
prova era racchiusa in quelle lacrime che si ostinavano a cadergli dagli occhi.
La rabbia era in grado di sorreggerlo fino ad un certo punto; il senso di
frustrazione che provava, non poteva usarlo per tenere un discorso ai
cittadini.
Non
si sentiva in grado di svolgere il suo dovere.
La
perdita, la mancanza pesavano come un macigno sul suo petto.
Alla
fine, questa era la verità.
Ieren,
in quel momento, si sentiva solo un semplice uomo sconfitto dal lutto.