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Autore: crimsontriforce    28/08/2008    2 recensioni
Trovò in risposta solo ombre e fogli bianchi e ugualmente li amò come figli suoi.
Bianca inseguiva i colori. (Fiaba nonsense di sorta)
Genere: Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Per il concorso "Il castello... e lei" di Eylis, su EFP forum. Solo original, o sarebbe stata palesemente una fanfiction su ICO. Come? è ancora palesemente una fanfiction su ICO? ...Oh. XD
Scherzi a parte, splendido prompt. Io essendo io, m'ha tirato fuori tanto ICO (appunto), un po' di Amano e un po' di Myst/Riven/Uru.
La versione del concorso peccava principalmente di comprensibilità, chino il capo e prendo nota. Spero che quest'aggiornamento, una specie di 1.2, possa essere più gradito.





Geografia personale






Inseguiva i colori, con passo leggero e sguardo attento. Ogni notte e ogni dì si avventurava nelle vie di luce che si snodavano dal luogo del suo riposo e ne inseguiva i colori. Evanescenti, invitanti, si alternavano come a spingerla oltre e oltre ancora e lei camminava, avida, attraverso sentieri sempre nuovi eppure spesso noti (un'intersezione, forse, o il modo in cui l'azzurro si univa sempre al color ferro). Attraversava tutti i toni del marrone picchiettato di rosso fino a giungere a un bianco abbagliante che la avvolgeva tutta o, per tutt'altro sentiero, veniva pervasa di verdi cangianti che le parlavano di crescita. Li inseguiva e allo stesso tempo comandava loro di precederla fendendo il nulla, effimera scorta di una regina solitaria.
Oltre era buio. Vuoto.
Un giorno desiderò conoscerli e...

Bianca si svegliò.
Era sdraiata su una stele di pietra, in una stanza in penombra. Una luce azzurra filtrava dalle decorazioni del soffitto, pallida imitazione dei colori che ancora ricordava con tanta nitidezza, tuttavia sufficiente a ferirle gli occhi. Si fece schermo con una mano: nera. Un ritaglio vuoto nell'esistenza.
Strizzò gli occhi e li riaprì: la sua mano era ancora scura contro la luce impietosa, ma vi si sarebbe presto abituata. Già distingueva le unghie corte e due bracciali metallici a ornarle il polso.

Si mise a sedere sulla pietra, cercando con lo sguardo una finestra. Non ne trovò, in quella piccola stanza tonda che era come un uovo color del legno, e se ne stupì, perché era davvero certa che ce ne sarebbe stata una. Ma in fondo non ne aveva bisogno, perché il torrione non poteva che essere in quella direzione, così il cortile e le mura oltre ancora – questo si disse indicando col braccio davanti a sé e scoprendosi vestita di un abito bianco semplice e arioso, di stoffa leggera. Si avviò verso l'unica porta.
Alle sue spalle, due ante erano disegnate sul legno da mano incerta. Un lavoro incompiuto.

Bianca si innamorò del fuoco.
Accovacciata vicino al camino della sala cui la porta l'aveva condotta, osservava rapita mentre ogni cosa veniva riempita di gialli e rossi: dalle sue mani con cui gettava ombre in movimento sul tappeto, ai capelli castani e ricci che immaginava tingersi di fiamma, agli arazzi dai ricchi disegni geometrici.
Un'altra ombra attraversò il pavimento, forse creata da un fuoco gemello, estensione di passi affrettati nella stanza a fianco. Bianca non ritenne però cortese disturbare il servitore, né auspicabile venire a sua volta disturbata nella contemplazione.

Il salone che seguì era enorme e grigio e di nuda pietra e Bianca si sentì insignificante al suo cospetto. Otto colonne rotonde sembravano reggere la Notte, ma sapeva che c'era solo un soffitto ad attenderla lassù nel buio e non gli prestò attenzione. Tenne dapprima il fianco destro al muro e poi se ne staccò per camminare verso il centro seguendo un'immaginaria spirale che la portò di fronte a un oggetto degno di grande meraviglia: una lanterna intarsiata in cima a un palo che era l'unica, fioca fonte di luce della stanza.
“Lampione”, lo nominò lei piena di riverenza verso quella creazione, poi si inchinò e gli diede le spalle, dispiaciuta di doverlo abbandonare per sempre. Il portone all'altro lato conduceva a un lungo corridoio e Bianca vi si avviò, con il frusciare della lunga gonna come unica compagnia.

Si fermò di fronte a una delle tante porte che si allineavano ai lati del corridoio, illuminato da una volta di pesante vetro colorato. Si sarebbe fermata più a lungo ad osservarne i riflessi mutevoli man mano che, immaginava, al di fuori le nuvole si alternavano contro il sole, ma era arrivata alla Biblioteca in cerca di chiarimenti e non poteva perdere altro tempo. Entrò e si richiuse alle spalle il battente, che la seguì in silenzio.

Un'ampia scrivania dominava la stanza, in cui gli scaffali si inseguivano come anse di un labirinto. Al centro della scrivania, un massiccio libro su un leggio, aperto a una pagina bianca. Lo circondavano penne, un calamaio riempito fino all'orlo, sacchetti di stoffa grezza riempiti di sfere brillanti, una candela spenta.
Sfogliò il libro, tradendo un'espressione corrucciata sul viso tondo.
Si tormentò un ricciolo. Il libro era intonso.
Con un sospiro, rivolse la sua attenzione ai tomi allineati sulle mensole. “Poemetti lieti”, decifrò da un tomo lì vicino, e le pagine erano vuote. “Storia dei popoli antichi”, dedusse di un libello poco voluminoso dall'ugual sorte. Prese a giocherellare con una sferetta viola traslucida mentre considerava in tutta serietà le Risposte che la Biblioteca le aveva offerto.
Vide un'ombra dileguarsi fra gli scaffali e la seguì.

L'ombra proseguiva silenziosa, scomparendo dietro una porta o l'angolo di un corridoio non appena Bianca arrivava a distinguerne meglio i contorni, così che ancora non sapeva chi stesse inseguendo quando la perse del tutto in fondo a una scala a chiocciola stretta e ripida, dai gradini di legno.
Seguì allora il suo naso, che le prometteva arrosti e intingoli non distanti.

Le cucine del castello erano maestose. Ornavano i muri padelle e mestoli, mossi da una corrente leggera che veniva da chi sa dove e si perdeva nell'oscurità. Bianca si fermò all'ingresso, chinando la testa. Sapeva di poter riconoscere i profumi che l'assalivano dai forni e dalle pentole lasciate a bollire sul fuoco, ma quando provava a concentrarsi su uno di essi veniva ricondotta a un generico 'invitante' che poteva essere ugualmente carne, una zuppa o pane fresco. Con la coda dell'occhio vide stagliarsi l'ombra di una cuoca grassa affaccendata al tavolo. Alzò lo sguardo cercandone la fonte, ma nessuno la gettava. Per i corridoi illuminati dalle fiamme, molte sagome scure correvano a terra, trasportando ceste o coltelli o fermandosi a supervisionare il lavoro altrui, ma la sala era vuota, come vuote erano le pentole, né c'era acqua nei secchi.
Bianca si fermò per colazione, poi proseguì.

Vagò persa per saloni e scale. Non era più sicura della direzione da prendere.

Aprì un portone e fu cieca. Luce, cielo grigio abbagliante, il soffio del vento che assorda chi non ha sentito altro che il suono dei suoi passi.
Il balconcino su cui si era affacciata si apriva a mezz'altezza di una delle torri, unica sporgenza in un liscio strapiombo di pietra. Bianca azzardò un passo in avanti e sentì dei fili d'erba carezzarle le dita che spuntavano dai sandali. Fiori rossi e rosa punteggiavano quella zolla di prato sospesa. Oltre c'era il cielo; sotto, molto sotto, c'erano la terra solida e le mura esterne. Le mura! Bianca abbracciò tutte quelle meraviglie volteggiando in punta dei piedi, poi si sdraiò di schiena sull'erba avvolta dalla luce, abbagliata dalla libertà di un cielo aperto. I misteri bui che aveva attraversato si disperdevano nella terra.
Ricordò i colori: verde, rosa, rosso. Argento. Si rigirò, appoggiò la testa sulle braccia e riaprì gli occhi: un corrimano metallico seguiva una scalinata scavata appena nella pietra. Facendo attenzione a non perdere la presa, iniziò a scendere.

La attendeva un albero, sotto le cui fronde scure si trovava un piccolo cimitero. Tombe bianche, senza nome. Lei si sedette ai piedi del tronco e recitò loro un poemetto lieto; riposata, proseguì. Le mura svettavano all'orizzonte.

Vide una serra, in lontananza. Si chiese se c'erano dei tulipani.

Le pietre rozzamente squadrate che formavano le mura, ognuna grossa quasi quanto lei, erano calde al tatto e Bianca restò ferma a toccarle col braccio disteso e la mano aperta – grigio pietra, verde erba, bianco cielo e lei al centro di tutto – prima di incamminarsi tenendole al suo fianco. Erano troppo alte per essere scalate.
Grigio pietra, verde erba, bianco cielo. Grigio, verde, bianco. Ricordava. Una strada di luce che ora percorreva sveglia.

Il terreno si alzò in un colle, ma le mura non fecero altrettanto, offrendole un valico. Si tolse i sandali quando fu arrivata e iniziò la breve scalata con la testa piena di colori turbinanti di speranza.
Si issò sulla sommità della cinta sedendosi con un movimento sgraziato. Il castello col suo intrico di stanze e la culla di buio era infine alle sue spalle, assieme al mare d'erba e alle tombe bianche e rivide anche la serra (niente tulipani, probabilmente) e un ruscelletto in cui si era bagnata i piedi e altre cose ancora che non aveva incontrato.

Si voltò. Il cielo di fronte a lei era nero e senza traccia di stelle, mentre alle sue spalle poteva ancora sentire il grigio. Guardò più in basso, oltre il limitare della pietra: le mura scendevano a strapiombo nel Vuoto. Un lavoro incompiuto.

Bianca si voltò di nuovo e ridiscese e si rimise i sandali, aggiungendoci un fiocco fatto con un filo d'erba. Poi con passi lenti tornò nella sua stanza di legno a forma d'uovo che non aveva ancora una finestra, si sdraiò sulla sua stele di pietra e sognò il giorno in cui, quando i suoi capelli si fossero fatti bianchi, si sarebbe svegliata ancora – alla carezza gentile di una bambina di un mondo nuovo.





















   
 
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