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Autore: AshHurricane    08/07/2014    4 recensioni
Dopo secoli di silenzio sono tornata, questa volta in un altro fandom, ovvero quello ( ma dai? ) di Sherlock. Mi sono innamorata del telefilm, e questo è un esperimento. Non prometto nulla, non so come continuerà, e se continuerà. Posso solo sperare in meglio ç__ç
Soulmate!AU Steampunk world ( perchè adoro lo steampunk )
Ma John aveva bisogno di camminare. E ancor più di correre. Se non eri capace di correre, in tempi come quelli, a Londra, finiva che le pattuglie notturne ti prendevano. E lui non aveva voglia né tempo di farsi asportare un qualsivoglia organo interno a ripetizione per osservare gli effetti che l’operazione aveva sull’organismo. E men che meno aveva voglia di farsi modificare il cuore, o una qualsiasi altra parte del corpo a scopo sperimentale. Aveva avuto la sua dose di sangue e morte nella sua breve vita, e ora, all’età di ventidue anni appena, si ritrovava a pagarne il prezzo, ovvero la sua gamba, finita chi sa dove a marcire in pasto ai topi. Nemmeno ci voleva pensare, gli veniva da vomitare solo all’idea.
Genere: Generale, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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n.d.a. : Dopo secoli di silenzio, e dopo aver letteralmente abbandonato una fanfiction incompiuta nel fandom di kuroko no basket ( mi dispiace ç____ç ) ho deciso di darmi alla Johnlock. Perchè li amo, perchè amo l'intero telefilm, e perchè dopo il finale della terza stagione non penso ad altro. Che dire, da un po' volevo ambientare una storia in un universo un po' distopico, con dello steampunk in mezzo, e in aggiunta pure il discorso delle soulmate. Stavo per scrivere un altra ff Aokaga quando ho avuto la geniale ( o forse no ) idea di traformarla in una johnlock. Così, dal nulla. Per suddetto motivo mi trovo alle.. 4 e 33 di notte a pubblicare il prologo di una storia scritto qualcosa come.. mezzora fa. Forse. Ad ogni modo son fatta così, ho bisogno di riscontri e questo è un esperimento più che altro, per vedere come me la posso cavare nel genere, e per tenermi in allenamento con la scrittura, che non fa mai male. Smetto di annoiarvi e mi dileguo. Grazie e buona lettura a tutti u.u 
Miki




 
 
The price







00 - Prologo
 
 
 
Aveva dodici anni quando gli erano stati strappati gli occhi dalla loro sede naturale. L’uomo in camice bianco che stava in piedi davanti a lui aveva usato un paio di pinze che ad una prima occhiata gli erano sembrate quelle che usavano i dentisti per estrarti un dente. In fondo, si era detto, il principio di base applicato in quella particolare occasione era lo stesso.
Ricordava di aver improvvisamente visto solo con l’occhio sinistro e un dolore talmente paralizzante da fargli provare la sensazione che si stesse sciogliendo l’aveva invaso. Sentiva il sangue scorrere sul naso, e finirgli in bocca mentre urlava disperatamente con tutte le sue forze nemmeno lui sapeva cosa, quale supplica insensata. Si era dibattuto inutilmente, cercando di forzare le cinghie che lo tenevano stretto al lettino e aveva pianto, lacrime da un occhio, sangue sporco dall’altro. Poi anche il sinistro era andato, e a quel punto, assieme al buio, si era aggiunta la sensazione di star lentamente scivolando tra le braccia della morte.
 
Poi si era svegliato.
Non vedeva nulla, il buio era rimasto, ma sentiva, lo sentiva come sentiva di avere le mani, che i suoi occhi erano di nuovo a posto. Non sapeva come avessero fatto a riattaccarli, a rimetterli a posto, ma ne era dannatamente felice. Facevano male, e a stento riusciva a sbattere le palpebre martoriate, ma erano li.
Per un paio d’ore era rimasto fermo, senza sapere dove fosse, semplicemente felice che i suoi occhi fossero al loro posto, e sperando, pregando, che si fosse trattato solo di un sogno, che non fosse davvero finito in uno dei laboratori sotterranei della città, laboratori in cui venivano condotti esperimenti di ogni tipo su persone di ogni tipo.
Se così fosse stato, il suo destino apparteneva al buio.
Era tutto ciò che gli rimaneva.
 
La targhetta appesa al suo collo diceva che il suo nome era “07629”. Lui non ricordava quale fosse il suo vero nome, in alternativa “zero” non gli sembrava poi così male. Tanto per potersi fare chiamare, nemmeno sapeva da chi.
Inciso nel metallo c’era scritto che aveva 16 anni. Ricordava di essere finito dentro quel laboratorio a dodici anni appena compiuti, perciò, a conti fatti, se la mente non lo ingannava, era rimasto nel buio per quattro anni. Nemmeno riusciva a ricordarsi come fosse stato prima. Gli sembrava di essere nato, aver imparato a pensare, parlare, masticare, nel buio più totale.
Gli sembrava di aver sempre vissuto sopportando il dolore, e nemmeno riusciva a pensare a cosa potesse essere la luce e a cosa potessero essere i colori. Semplicemente dopo tutti quegli anni, non ci riusciva.
Sapeva di aver avuto una famiglia una volta, sapeva di aver avuto una madre, e magari anche un fratello. Ma non ne era certo, e il ricordo dei loro volti, che quando era stato preso doveva essere nitido, era ormai una macchia informe sbiadita e cancellata, nel tentativo di ridurre il dolore psicologico. A differenza delle sue origini, era certo che i suoi occhi avessero fatto almeno una ventina di visite all’esterno, visite durante le quali avevano subito diverse modifiche, di vario genere. A toccarsi la faccia aveva scoperto di avere una lunga cicatrice che lo tagliava orizzontalmente, da tempia a tempia, e che passava per gli occhi.  
Aveva l’impressione che il suo braccio destro stesse bruciando, e quando si girò a guardarlo, trovando solo carne viva, alla luce delle fiamme che avvolgevano il laboratorio, dovette trattenersi per non vomitare.
Non aveva nulla con sé a rallentarlo. Non sembrava ci fosse nessuno, e in ogni caso non si sarebbe dato la pena di fermarsi ad aiutare nemmeno un bambino se gli fosse spuntato davanti.
Doveva uscire da lì, approfittare dell’occasione che il destino gli aveva regalato, e andarsene nel giro di pochi secondi, o sarebbe morto. Per il fumo, o le fiamme. O entrambi.
Strinse forte la targhetta nella mano sinistra e si mise a correre. 
  
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