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Autore: xingchan    08/07/2014    4 recensioni
“Era bello raccontare storie, tramandarle senza che subissero la più insignificante alterazione, ed estrapolarne la morale. Regalavano gioia, sogno ed aspettativa; e per loro era come riviverle, attimo dopo attimo, imparando continuamente. Però, mai nessuno si preoccupava del dopo: quando tutto è finito e si è costretti a ritornare alla propria normalità, rimaneva il segno. E solo chi riusciva a prendere le redini della propria vita superava il passato. Forse Pipino non ne sarebbe mai stato in grado; ma per amore di coloro che gli erano accanto, decise di provarci.”
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Merry, Pipino
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Concerning hobbits'
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L'inizio della fine
 

 
Fine.
È una parola che, dopo tutto quello che il mondo aveva passato, era doveroso scrivere.
Avrebbe dovuto anche far tirare un sospiro di sollievo, provocare soltanto tranquillità e sicurezza dai pericoli.
Ma non era così, non nel caso di Peregrino Tuc.
Pipino sentiva il vuoto scavare dentro il suo animo, come un serpente che s’insinua strisciando nella tana della sua preda, certo di avere in pugno il suo lauto pasto. E per quanto tentasse di scacciarlo, di colmarlo con il senso di serenità che permeava dolcemente l’atmosfera della Contea, non ci riusciva neanche in minima parte, nonostante avesse tentato innumerevoli volte di esorcizzarlo con il canto, anche insieme a Merry.
Non sapeva neanche cosa fosse, in realtà: se era l’assenza di Frodo, di Bilbo, salpati entrambi ai Rifugi Oscuri, il cambiamento che subì la Contea a causa di Saruman o la mancanza di avventure, l’immobilità forzata.
Guardarsi intorno, però, di certo non aiutava. Il suo buco hobbit non gli era mai parso così stretto. Così desolato, così grigio e mediocre. Perfino i pan di spagna avevano assunto un aspetto poco invitante, cosa impensabile per uno hobbit.
Sospirò una nuvoletta di fumo, mentre con notevole sforzo decise di uscire. La sua pinguedine lo aveva inchiodato su di una poltrona di velluto bordeaux e ad essere circondato da una spessa coltre di fumo che lui stesso aveva espirato. A furia di riempirsi la testa di ragionamenti non da lui, aveva consumato ben due boccaletti di erba-pipa quel pomeriggio. Anche se c’è da dire che fumava sempre in questo modo, anche quando non era in preda alla monotonia o ai ricordi.
Era sul punto di prendere il mantello, ma non appena aprì l’anta dell’armadio, una forza misteriosa sembrò bloccarlo, costringendolo ad osservare quel particolarissimo tessuto elfico con un sentimento che non sapeva descrivere. Ne accarezzò le fini cuciture, ricordando il suo stupore nel constatare che la fattura solida non era minimamente soggetta a strappi d’alcuna sorta.
La sua mente ritornò al rapimento subìto dagli orchi di Saruman; ma sebbene quell'esperienza fosse stata la più traumatica di tutte, anch’essa si era guadagnata una fetta della sua nostalgia.
Quanto si sentì sciocco. Era così disperato e bramoso di emozioni da pensare che perfino le torture degli orchi fossero migliori di quella stabilità indotta dagli eventi?
Gandalf aveva ragione quando lo accusava di essere stupido, quando gli rammentava di come non facesse e pensasse mai la cosa giusta finendo addirittura nei guai e tirandosi dietro chi gli si accompagnava. Come ora, sommerso dalle sue stesse inquietudini, che molto probabilmente non sarebbe mai riuscito a placare, e che avrebbe condiviso con Merry non appena lo avrebbe rivisto.
Sospirò. Quante ne aveva passate con quel mantello, e quante altre volte ancora avrebbe voluto indossarlo. Non nella Contea, ma nel bel mezzo di una terra sconosciuta, al limite del sottile confine fra sicurezza e pericolo, dove la sua essenza Tuc, famiglia di spirito avventuriero, grandi viaggiatori ed amanti delle imprese eroiche, spuntava fuori senza che lui lo volesse e lo conduceva laddove nessun hobbit con un minimo di sale in zucca si sarebbe mai azzardato ad avventurarsi.
In un certo senso si era sentito fiero di essere partecipe di quell’avventura. Tuttavia, quando ebbe l’occasione di sperimentare le sue capacità belliche e strategiche, dovette ricredersi.
Guardandosi attorno, si rese conto che molte delle faccende in cui si immischiava non erano alla sua portata, e che sarebbe stato meglio se la bocca l’avesse tenuta cucita.
Alla fine, lasciò il manto lì dov’era e, senza prendere neanche la cotta di maglia come soleva fare, si chiuse la porta alle spalle, venendo investito dai raggi caldi del sole.
Aveva voglia di una pinta intera, anzi, di due. E anche di un barile intero di erba-pipa, come uno di quelli che lui e Merry avevano trovato nella dispensa di Saruman. Forse la lista di cose che voleva sarebbe stata troppo lunga per poterla scrivere, ma avrebbe fatto di tutto per passare quella serata lontano dalla placida malinconia che aleggiava nella sua casa.
La fronte bassa, mentre scendeva i gradini dell’ingresso, non si rese conto che Merry era ad appena due o tre metri da lui, come se a momenti avesse bussato alla sua porta, con la sua stessa aria triste. O forse semplicemente seria, non poteva dirlo. Il giovane Brandibuck accennò soltanto un sorriso mesto e, certo che il compagno lo avrebbe seguito affiancandosene, si avviò alla taverna del Drago Verde. Neanche lui quel giorno aveva indossato gli equipaggiamenti, di Rohan nel suo caso.
Che fosse un tentativo, il loro, di ritornare alla vecchia spensieratezza, per proteggersi dal dolore della lontananza dai cari amici, delle esperienze vissute? Per poter indirizzare meglio gli occhi verso il loro futuro? Ora come ora, sapeva solo che la normalità era diventata insostenibile, e che, prima o poi avrebbero dovuto correre ai ripari.
È tutto vero quando si dice che una ferita non si cicatrizza mai.
Prendere in mano la loro vecchia vita non era stato facile; Pipino si stava ancora chiedendo se ci erano riusciti, lui Merry e Sam. La vita di quest’ultimo scorreva molto più serenamente assieme a Rosie e ai loro figli, che si prospettavano essere numerosi.
Però Pipino non credeva avesse digerito del tutto la partenza di Frodo. Non era raro che lo hobbit si isolasse da tutto e da tutti, leggendo o scrivendo su quel Libro che i Baggins gli avevano lasciato. Questo, comunque, non aveva sortito alcun effetto negativo sui suoi figlioletti: al contrario, cresceva l’idealizzazione della sua figura, rendendoli orgogliosi del fatto che il loro papà fosse entrato nella leggenda, che fosse uno dei Portatori dell’Anello. In ogni caso, questo comportamento non implicava trascuratezza nei loro confronti. Sam si dimostrava di giorno in giorno un padre esemplare, tanto che tutti, Pipino compreso, speravano di essere come lui una volta divenuti genitori.
Il silenzio fra i due perpetuò ancora per molto. Solo quando entrarono al Drago Verde ed aver preso al bancone due birre come era loro solito per poi sedersi ad un tavolo, esternarono con i reciproci sguardi il desiderio di parlare.
“Allora, come va?” esordì Merry. Sapeva bene che suo cugino era caduto vittima di quell’insopportabile mestizia, e si sentiva in dovere di dargli tutto il suo appoggio.
“Come sempre.” rispose il giovane Tuc “Anzi, no. Credo di stare sempre peggio.”
Si osservò intorno, notando come gli altri clienti del locale fossero meno allegri e spensierati. Erano felici, sì, ma di una contentezza velata dalle brutte circostanze del passato. Anche gli altri abitanti della Contea avevano sofferto per quella dannata guerra; ed ora più che mai ne portavano i segni, alcuni nel corpo, molti e molti altri nell’animo.
“Il fatto è che la Contea non mi è mai apparsa così diversa… Ed io, forse sono io che...”
“La Contea è stata restaurata ed è tornata come prima,” sentenziò Meriadoc, interrompendolo “anzi, più rigogliosa; siamo noi Hobbit che siamo cambiati.” proseguì mestamente fissandolo dritto negli occhi, per poi riaffondarli nel boccale di birra, bevendola a piccoli sorsi.
Già, cambiati. Era questa la parola che cercava per lui. Era questo che intendeva. Nella sua scempiaggine non aveva ben compreso che diamine gli frullasse in testa, se fosse lui il problema oppure ciò che lo circondava.
La verità era che lui era tornato segnato dal quel viaggio, la Contea dilaniata dal mostro nero della tirannia, e che nulla poteva tornare com’era una volta. Ritornando a casa, Pipino aveva avuto la prova tangibile della mutevolezza della vita, di come può convertire i balli, i canti e le risate in esitanti celebrazioni di una tranquillità appena conquistata.
Fino a qualche anno prima non avrebbe mai neanche immaginato di intraprendere un viaggio al di fuori della Contea, di unirsi ad una Compagnia e di affrontare mille battaglie. E più di tutto, non avrebbero mai potuto prevedere che la Contea fosse vulnerabile al punto da essere oggetto di un crudele regime dittatoriale istituito da Saruman.
Vista dagli hobbit, la Contea era un luogo proibito da una qualsivoglia ombra oscura, lontana da ogni questione veramente maligna; inaccessibile e perfetta, dove la vegetazione cresceva a vista d’occhio e la birra scorreva a fiumi. Un angolo di Paradiso sconosciuto ai più, protetto e sigillato dalla propria anonimia, un ritaglio della Terra di Mezzo eclissato dal resto del mondo grazie alla sua stessa placidità.
Ora però era diverso.
Certo, ora la Contea era diventata famosa, dunque anche costantemente protetta dal Re Elessar affinché non fosse facile preda di Gente Alta poco raccomandabile; e gli Hobbit decantati per tutti i quattro angoli del mondo conosciuto da occhio mortale ed imperituro.
Non c’era Uomo, Elfo, Nano o qualsiasi altra creatura che non fosse a conoscenza del male scampato grazie all’aiuto della Compagnia dell’Anello istituita da Re Elrond stesso a Gran Burrone pochi anni addietro, e non c’era anima viva che non conoscesse almeno per fama Frodo Baggins ed il suo fedele servo Samvise Gamgee: due hobbit, piccoli come Uomini bambino, che addossarono su di loro le sorti della missione affidata loro, e di conseguenza, le sorti dell’intera Terra di Mezzo.
Nessun hobbit aveva mai conosciuto il male assoluto prima di allora, ed una volta sperimentato ne uscirono letteralmente impietriti. Avevano così cominciato a prendersi a cuore le vicende al di fuori della loro terra natia, e a stare molto più attenti alle rivalità che aleggiavano fra loro. Avevano capito che l’odio aveva una potenza distruttiva molto più intensa di quella che credevano, e dopo quello che avevano passato non avrebbero mai voluto ricadere nell’errore, neppure per sbaglio.
Al contempo, però, pareva che nessuno se la sentisse di ritornare ai vecchi trastulli: l’unica cosa che li allietava davvero era la ben più abbondante vegetazione ed il clima caldo, e profumato dalla gradevolissima terra rinata grazie a quella di Lothlorien.
Invece di permettergli di dimenticare, la Contea gli ricordava costantemente cosa avevano fatto, quali prove avevano affrontato e superato, e un enorme magone gli saliva alla gola e gli rendeva impossibile perfino mangiare.
Quando era a Minas Tirith, gli sembrava di esser stato catapultato in un mondo di cui nemmeno ne conosceva l’esistenza; un mondo fatto di battaglie, nemici e mistero; denso di uno strano connubio fra bene e male che puntualmente si scontravano a vicenda, con continui alti e bassi per entrambe le parti.
Una visione completamente opposta a quella che aveva sempre avuto davanti agli occhi.
Le verdi distese erbose della Contea che ondeggiavano in balìa del vento; il fiume Brandivino che scorreva lento, trasportando alcune barchette che vi si avventuravano; il sentiero che portava al Drago Verde battuto chissà quante volte dai suoi stessi piedi; la taverna stessa, così calda e confortevole e così colma di birra e buona compagnia da non stancarsene mai.
Certo, aveva conosciuto Beregond e suo figlio Bergil, e con loro aveva stretto un legame profondo, nonostante fossero stati insieme per poco tempo. Ma quando ritornava al suo alloggio e Gandalf, la sua guida, la saggezza personificata, non c’era, e rimaneva completamente solo, Pipino sentiva all’altezza del petto un sonoro crack che gli provocava dolore.
E allora, gli sembrava di essere una pedina sbattuta a destra e a manca senza neanche averlo chiesto, in un mondo completamente diverso a quello cui era abituato.
In effetti, tutti quanti potevano esser definiti delle pedine in quella storia. Pedine che sembravano maneggiate  dal più grande e sconvolgente uragano.
Frodo e Sam per primi, i pezzi più importanti della scacchiera, quelli che più di tutti erano in grado di decretare il destino dell’Anello, per poi continuare con tutti gli altri membri della loro Compagnia. Senza dimenticare tutti coloro che, in un modo o nell’altro, avevano avuto un ruolo cruciale nella vicenda dell’Anello del Potere.
Ma di tutti i re, le regine, gli alfieri, le torri, i cavalli ed i pedoni, egli si considerava certamente l’ultimo. O perlomeno, il pedone di una scacchiera che non gli apparteneva. La Contea era un luogo troppo incantevole per ambire ad un ben più meraviglioso reame. Gli hobbit avevano sempre creduto che fosse la terra migliore di qualsiasi altra. E Peregrino non era da meno.
Però, ora che tutto era ritornato al proprio posto, la nostalgia per quelle meravigliose terre e terribili avventure lo assalivano, e ritornava lì con il pensiero, fra quelle bianchissime mura, oppure nella foresta di Fangorn, un luogo che tutti consideravano oscuro e minaccioso, dove Merry e lui al contrario avevano trovato riparo e protezione. Raramente aveva scorto in se il desiderio che nulla di tutto quello fosse accaduto; ed anche se non avesse voluto tutta quella vicenda sarebbe accaduta lo stesso. Si sentiva quasi in contraddizione, e diviso fra due mondi completamente agli antipodi. Molto probabilmente non sapeva neanche lui cosa voleva. Era confuso.
“Zio Pipino! Zio Merry!”
Nell’udirla, i due amici si voltarono d’istinto sorridendole, e di colpo la loro tristezza si tramutò in gioia.
Non appena li vide lì, a quel tavolo leggermente più appartato degli altri, la piccola Elanor Gamgee si precipitò sulle gambe di Pipino, tendendo le braccia piccole, corte e paffute e pretendendo di sedersi sulle sue ginocchia.
Pipino si spinse indietro con la sedia per farle posto, issandola per le braccia e facendola accomodare sulle sue ginocchia. Nonostante avesse già cinque anni, la bambina era leggera come un neonato.
“Elanor! C’è il tuo papà?”
Peregrino e Meriadoc non avevano visto né lui, né sua moglie Rosie in quei giorni. Molto probabilmente erano indaffarati con i loro figli più piccoli, senza contare che qualche giorno dopo ci sarebbe stato il compleanno del piccolo Frodo, e forse avevano lasciato Elanor a giocare con gli altri ragazzini. Pipino non si sarebbe stupito se avesse scoperto che era lì solo per loro. Era di norma, d’altronde. Ed era altrettanto una consuetudine che altri bimbi hobbit li cercassero per udire e bearsi dei loro racconti.
Elanor fece di no con la testa, mentre, con i suoi occhi grigi venati di verde ed azzurro, pregava silenziosamente entrambi di raccontarle di nuovo la loro storia.
Elanor era una hobbit di poche parole, estremamente timida come la maggior parte delle bambine hobbit della sua età; ma era così bella da mozzare il fiato, così bella da essere conosciuta in tutti gli angoli della Contea più come un essere elfico che come appartenente alla razza dei Mezzuomini. Neanche i suoi fratellini Frodo e Rosa potevano competere con lei. Per la piccola, Pipino prevedeva una sorte diversa da quella dei comuni hobbit.
Ma aveva anche un altro tipo di notorietà, leggermente più strano; Merry e Pipino amavano definirlo unico: concedeva solo ad alcuni di sentire la sua straordinaria voce. Molti hobbit adulti che frequentavano i suoi stessi posti non sapevano come suonasse; molti di loro dovevano accontentarsi di fantasticarci sopra, su quanto fosse melodiosa, lontana dalla normale vocina acuta tipica degli hobbit, altri invece credevano che avesse corde di arpa al posto di quelle vocali; e che se fatte vibrare, ne sarebbero rimasti vittima, come in un incantesimo.
Soltanto quelli che lei reputava suoi amici, ed ovviamente i familiari, avevano il privilegio di udire la sua voce incantevolmente fuori dal comune. Fra questi vi erano anche Merry e Pipino: gli unici, Samvise a parte, da cui sentiva quelle storie meravigliose.
E puntualmente, come ora, Pipino e Merry la accontentavano, riportandole fedelmente tutto ciò che dilagava nella Contea sul conto della Guerra dell’Anello; perché in effetti solo loro ne conoscevano i particolari.
La piccola Gamgee sapeva che i loro racconti erano veri, e sapeva anche che il papà aveva compiuto quelle eroiche gesta nonostante la sua indole semplice, perciò quando li ascoltava provava la sensazione di essere lì con loro, a sopportare pericoli d’ogni sorta; ma anche orgoglio ed ammirazione insieme.
Anche se prediligeva gli eroi che erano con lei tutti i giorni, la bambina dimostrava interesse anche per gli altri membri della Compagnia, nonché per tutti gli altri grandi personaggi per i quali i suoi stessi idoli stravedevano. Ma ovviamente, nei loro racconti, a farla da padrone vi era l’impresa ardua di Frodo Baggins, e delle centinaia di avversità che affrontò con il suo fidato amico Samvise.
Purtroppo, però, sebbene avesse quel nome da lui donatole, Elanor non aveva ricordo di Frodo.
Egli era salpato qualche tempo dopo la sua nascita, quindi era impossibile che la piccola Gamgee si ricordasse di lui, se non nelle storie che loro stessi e suo padre le raccontavano. Anche se non ebbe l’opportunità di conoscerlo direttamente, poteva sentire di lui attraverso quei racconti. E ne era ugualmente felice.
Di una cosa però si angustiava notevolmente: non avrebbe mai potuto vedere i fuochi d’artificio di Gandalf. Pipino le ripeteva spesso che solo lui conosceva il segreto dei suoi spettacoli pirotecnici, e che perciò, anche se avessero voluto non avrebbero potuto riprodurli.
“Un giorno ci proveremo, che ne dici?” proponeva sempre Merry, e lei annuiva felice, sicura della sua riuscita, e batteva le mani.
Ma Pipino, ogni volta che raccontava della sua separazione da Merry, dagli altri membri della Compagnia, di Tom Bombadil e della sua Dama Baccador, della morte di Boromir, di Barbalbero, della sua permanenza a Minas Tirith, dello spiacevole rapporto fra Denethor e Faramir, ancor di più di Gandalf, dei suoi fuochi artificiali e delle sue invettive contro di lui, i suoi occhi, sempre vispi e spontanei, diventavano lucidi come rugiada.
Anche se la loro storia era diventata di dominio pubblico, quello che visse e che vide apparteneva soltanto a lui, o meglio, a loro; e solo e sempre loro sapevano cosa significassero quelle storie, quelle decisioni, quelle azioni, quei sentimenti, quelle paure. Gli hobbit della Contea ne avevano assaggiato soltanto una parte, a causa di Saruman.
E mentre parlava di tutte le sue peripezie ad una sempre più affascinata Elanor, immobile per lo stupore, si rese conto che gli era sfuggita una lacrima, e che Elanor aveva repentinamente tirato fuori dalla tasca del suo vestitino azzurro un fazzolettino che subito avvicinò alla guancia di Pipino.
Intenerito da quel gesto, Pipino le diede un bacio fra i capelli.
“Potrò anch’io fare quello che avete fatto voi? E viaggiare, potrò viaggiare?”
“Certo, un giorno potrai anche viaggiare!”
Un giorno?” disse delusa “Perché non subito?”
Quella domanda lo fece impallidire. Già, perché non subito? Perché non potevano andarsene lì su due piedi e vivere nuove esperienze al di fuori della Contea? Pipino non seppe rispondersi, né seppe rispondere.
“Che luogo vorresti visitare?” chiese Meriadoc, districando così l’amico da quella domanda così enigmatica per lui.
“Minas Tirith ed Edoras! E voglio fare qualcosa di bello, proprio come voi. E voglio anche avere i poteri degli elfi!”
Man mano che parlava piano in quel modo così semplice, il suo visino si riempì di vergogna mentre la sua vocina diventava sempre più flebile. Era come se non si sentisse all’altezza di quello che aveva appena chiesto, ma Pipino la prevenne.
“Gli hobbit non hanno poteri se non quelli di crescere orizzontalmente, di mangiare, di fumare erba-pipa fino ad averne fin sopra i capelli, cosa che non accade mai, e di bere birra fino a scoppiare. Ma ricorda bene, Elanor: anche un essere così piccolo può fare cose inimmaginabili, se solo lo vuole. Solo, che dopo si è obbligati a portarne il marchio.”
La bambina, come in cerca di una conferma, guardò Merry, che annuì per assecondare il suo sguardo interrogativo e speranzoso insieme.
Era bello raccontare storie, tramandarle senza che subissero la più insignificante alterazione, ed estrapolarne la morale. Regalavano gioia, sogno ed aspettativa; e per loro era come riviverle, attimo dopo attimo, imparando continuamente. Però, mai nessuno si preoccupava del dopo: quando tutto è finito e si è costretti a ritornare alla propria normalità, rimaneva il segno. E solo chi riusciva a prendere le redini della propria vita superava il passato. Forse Pipino non ne sarebbe mai stato in grado; ma per amore di coloro che gli erano accanto, decise di provarci. Voleva farlo per Merry, per Sam, per Elanor, in particolare.
Merry non aveva accusato il colpo dello smarrimento. Aveva già chiesto ad Estella di sposarlo, dando così slancio alla sua nuova vita nella Contea; magari lui avrebbe fatto altrettanto con Diamante.
Era inutile continuare a lacerarsi il cuore bramando la riunione della Compagnia e degli altri. Non sarebbe mai avvenuto nulla del genere.
Proprio come Elanor, così piccola ed inconsapevole, non erano ancora pronti per reimmergersi nel mondo al di fuori della Contea: per ora erano troppo legati al passato. Avrebbero soltanto cercato invano quei volti amici che ormai non c’erano più, e senza dubbio questa consapevolezza avrebbe arrecato loro soltanto dolore. Tutto quel viaggio avrebbe procurato solo dolore.
Qualcosa in loro si era spezzato, ma lo consolava la consapevolezza di essere uniti tutti con il cuore e con la mente. La Compagnia, anche se disgregata, avrebbe continuato a vivere e respirare, finché l’ultimo di loro non fosse perito. E neanche allora quel gruppo di razze diverse avrebbe conosciuto un vero epilogo. Ovunque si raccontasse di loro, avrebbero continuato ad essere presenti, nel cuore di tutti.
E chissà che un giorno avrebbero sul serio avuto l’opportunità di ritornare ai luoghi amati, senza che l’ombra del passato rimanesse a oscurare il loro cammino.
 
***
 
Ormai si era fatto tardi persino per loro. Dopo alcuni minuti spesi a fare altre domande, Elanor si era addormentata, accoccolata contro il suo petto, con la stessa sicurezza di chi è fra le braccia di un fratello maggiore.
Dal canto suo, Pipino non osò svegliarla. Sentirla gioire era come il più prezioso dei doni della natura; ma osservarla mentre ronfava, con la piccola bocca educatamente chiusa, era come avere fra le braccia la creatura più bella che gli elfi avessero mai generato.
“Forse acquisirà davvero i poteri degli elfi!” esclamò Merry osservandola con tenerezza.
L’altro sorrise, osservando il buio oltre le finestre rotonde e il locale che pian piano si stava svuotando.
Usciti dalla taverna, videro le stelle rifulgenti eclissate da alcune nuvole di tutte le forme e dimensioni che danzavano nella volta celeste accompagnate dalla melodia di una voce lontana.
 I due accompagnarono la bambina ancora dormiente a casa sua, a quella che un tempo fu Casa Baggins.
La presenza, l'inesperienza, e i desideri di Elanor lo convinsero che c'era ancora molto da fare, lì nella Contea.
Un giorno, lui e Merry avrebbero preso il sentiero che conduceva al Decumano Sud, e da lì sarebbero arrivati a Rohan e poi a Gondor, passando per l’Ithilien, lasciando ai loro discendenti il loro ricordo.
E avrebbero cominciato un’altra avventura.

 
   
 
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