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Autore: Nikush    08/07/2014    4 recensioni
Ti vorrei dire di no, ti vorrei dire di stare zitto.
Ti sto dicendo con il pensiero di non guardarmi, ma come sempre lo fai lo stesso.
Abbasso la testa mi fisso le scarpe, sono qui ferma all’ingresso senza la forza di fare un passo per avvicinarmi a te.
« Kate », chiami piano il mio nome preoccupato.
Non avvicinarti, no ti prego no, la borsa mi scivola dalle mani e si accascia a terra con un tonfo. Ti sento a pochi passi da me, il silenzio, i tuoi occhi che mi trapassano dentro che cercano di capire quello che non voglio dire. Sai già che quello che doveva succedere è successo.
[Castle/Beckett]
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
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A chi crede in te
nonostante tutto
 
 
 

 
Black tables
 

 
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La vita è sostanzialmente incoerente e la prevedibilità dei fatti un'illusoria consolazione.


 
 
Ti vorrei dire di no, ti vorrei dire di stare zitto.
Ti sto dicendo con il pensiero di non guardarmi, ma come sempre lo fai lo stesso.
Abbasso la testa mi fisso le scarpe, sono qui ferma all’ingresso senza la forza di fare un passo per avvicinarmi a te.
« Kate » chiami piano il mio nome preoccupato.
Non avvicinarti, no ti prego no, la borsa mi scivola dalle mani e si accascia a terra con un tonfo. Ti sento a pochi passi da me, il silenzio, i tuoi occhi che mi trapassano dentro che cercano di capire quello che non voglio dire. Sai già che quello che doveva succedere è successo.
C’è troppo silenzio, devi aver messo a dormire Harry poco dopo la mia allarmante telefonata, avevo sentito la sua voce così allegra e pimpante, voleva parlarmi ma io non ce la facevo.
Mi rimbomba nelle orecchie il suo : « E’ mamma? Papà fammi parlare con mamma!  ».
Ha solo otto anni ed è ancora così piccolo ma ha più energie di trenta persone.
Alzo il mento e ti guardo, ti fisso negli occhi senza aver paura di far vedere le mie lacrime. Mio padre mi diceva sempre così, i più forti sono quelli che piangono a testa alta.
Impossibile, tutti i pensieri mi riportano a lui e una serie di immagini mi scorre come un film. Le sue mani tra le mie, la casa in campagna, il mio primo giorno di scuola, quando a cinque anni dopo un saggio di danza mi ero tuffata nella piscina dei Symonds e avevo mandato all’aria tutto il trucco che la mamma mi aveva accuratamente fatto. « Dio Katie, ti scende giù la faccia » diceva, ma io lo trovavo così divertente e continuavo a stropicciarmi gli occhi per farti paura.
Abbasso lo sguardo sulla mano che poco fa ha tenuto stretta la sua per l’ultima volta, il cuore sale su in gola strozzandomi.
« Kate » dici di nuovo risvegliandomi dai miei pensieri. Sei in piedi davanti a me, e aspetti come sempre, ormai dopo tutti questi anni ci hai fatto l’abitudine. Hai gli occhi leggermente lucidi, i capelli arruffati, le braccia a mezz’aria e lo sguardo stanco. Non sei riuscito a dormire dopo il mio avviso di poche ore fa, ma non ricordo neanche che ore sono, potrebbero essere passati ore giorni o anni. E quello che mi fa paura e che non me ne fregherebbe nulla.
Mi fa male tutto, non sopporto più niente. La testa pulsa sempre più, le gambe non resistono, mi sento quasi svenire, ma rimango immobile, tremante, mentre le sagome dapprima precise acquistano contorni sfocati man mano che le lacrime che ho cercato invano di controllare iniziano a scorrermi sul viso. Prendo una boccata d’aria e ho paura di non avere voce per questo rimango quasi stupita quando inizio a parlare.
« Io… »
Mi blocco con la bocca aperta ma le parole non ne vogliono sapere di uscire, forse è perché non posso accettarlo. Respiro e poi deglutisco cercando di calmarmi, scaccio le lacrime velocemente con una mano.
« Lui…  »
« O no…no  », ti avvicini e mandi a monte tutto il mio autocontrollo.
Vuoi abbracciarmi, vuoi stringermi ma ora non posso farcela. Faccio un passo indietro e tu ti blocchi preoccupato, sul tuo viso prende spazio uno sguardo interrogativo.
Mi volto dandoti le spalle, e mi sento una vigliacca perché non riesco neanche a sostenere uno sguardo.
Abbasso la testa e mi appoggio al tavolo per non cadere. Mi piego come se mi avessero dato una coltellata nell’addome, stringo forte gli occhi e apro le labbra per urlare.
Non esce niente. Nessun suono, nessun lamento, solo silenzio e vuoto.
I ricordi ricominciano a farsi strada, e il respiro comincia a mancare mano a mano che le fotografie si parano nella mia testa, prepotenti.
La polaroid che teneva sul camino, la camicia con i fiori che aveva comprato perché voleva portare me e la mamma alle Hawaii, o in un’isola deserta con il mare. Ah, il mare lui amava il mare.
I racconti prima di andare a dormire, la jeep che conservava nel garage della casa in montagna perché voleva che la guidassi io subito dopo aver preso la patente.
Poi i ricordi cambiano, piano, senza che io me ne accorga. Si fanno più cupi, si sovrappongono ai sorrisi, vedo passare davanti tutto, anno dopo anno.
La notte dell’omicidio di mamma, la crisi che ne seguì, i suoi occhi sempre più infossati, il denaro che iniziava a scarseggiare, le bottiglie vuote che cercava di nascondere.
Inizio a boccheggiare rumorosamente, mi sento soffocare e mi chiedo dove è finita tutta l’aria del mondo, ma questo non impedisce alle immagini di proseguire.
Vanno avanti, sempre più veloci. Le notti in cui lo sentivo tornare tardi, i sussurri dei vicini che parlavano della nostra disgrazia e delle sue nuove “abitudini”, vedo le piante del giardino morire davanti a me, perché avevi ben altro nella testa, non ti importava più di quello.
Guidai davvero quella jeep, mi ero rifiutata di farlo per tanto tempo perché mi ricordava la mamma e le volte che tutti insieme andavamo al lago. Ma quella notte dovetti prenderla per riportarlo a casa perché era troppo ubriaco anche per fare un passo. Una sedicenne che guidava verso un pub nel cuore della notte, avevo avuto davvero paura. Il mondo che ci eravamo costruiti cadeva a pezzi e non potevo far altro che stringere con tutte le mie forze quel volante per cercare di non urlare.
Qualcosa mi riporta alla realtà, forse è la tua voce che mi chiede cosa è successo.
Dal sedile di una jeep mi ritrovo sul pavimento di casa piegata in due con ancora addosso il completo grigio da lavoro.
« Io non ho potuto fare niente ho solo dovuto guardare, io…io avrei davvero voluto fare qualcosa, ero lì ma non potevo fare niente », sussurro.
Ti inginocchi affianco a me fissando il vuoto.
« Dov’è Harry », mormoro disperata.
« Ho dovuto metterlo a letto, ti voleva aspettare. Io…non gli ho detto che cosa è successo.  »
« Voglio vederlo Rick, voglio abbracciare mio figlio  ». « Kate non credo… ».
Volto la testa alla mia sinistra e ti fisso con gli occhi spalancati. Mi guardi stremato, cerchi grandi ti segnano il viso e non voglio immaginare che aspetto dovrei avere io.
Ti avvicini e mi prendi la mano. Devo sembrare una fuori di testa, ma poco mi importa. Quello che voglio è vedere Harry, prenderlo in braccio e dirgli che non lo lascerò mai, qualunque cosa accada.
« Lui è morto Castle », affermo guardandoti negli occhi.
Sbatti le palpebre e una lacrima sfugge al tuo controllo.
« E’ morto  », dico a voce più alta.
Mi alzo sistemandomi la gonna. Mi giro e ti guardo, sei ancora inginocchiato.
« Come è successo? I medici hanno detto gli rimaneva ancora qualche giorno. »
Sento un’altra coltellata, e il dolore mi percorre tutto il corpo. Parte dal petto e percorre tutto il corpo, si espande.
« E’quello che ho pensato quando sono partita stamattina ».
Ero partita presto, pensando di restare a Washington per qualche giorno. Lo staff del governatore aveva preparato tutto così mi ero fiondata al JFK alle cinque del mattino dopo averti dato un veloce bacio sulle labbra – tu dormivi ancora – e aver abbracciato Harry, che per salutarmi aveva impostato la sveglia alle quattro.
Come è successo, come è successo.
Chiudo gli occhi e ricordo la telefonata di poche ore fa. Sulla schermata del mio cellulare appariva il numero del New York Presbyterian.
« Mi hanno chiamata, ero a Washington ho preso il primo aereo mi sono fiondata in ospedale, mi stava aspettando…lui mi stava aspettando », sussurro.
I ricordi iniziano a farsi più vividi e le gambe ritornano a tremare.
« Ero a Washington… mi hanno chiamata… » Continuo a ripetere la stessa frase per cercare di far fermare il battito che rimbomba nella mia testa.
« Loro hanno mentito, i medici hanno mentito. Hanno detto che avrebbe avuto più tempo!  » quasi urlo l’ultima frase. Mi guardi con gli occhi sbarrati e colgo un lampo nei tuoi occhi. Mi maledico mentalmente piantandomi le unghie nel palmo.
Non devo urlare, mio figlio dorme nella camera affianco.
Il ricordo di Harry mi riaffiora alla mente.
« Io n…on credo di riuscire a dirglielo » dico iniziando a far avanti e indietro per il soggiorno come una pazza.
« Io non posso accettarlo…COSA DOVREI FARE », sbraito voltandomi verso di te, ormai in piedi.
« Vieni qui », dici avvicinandoti. « No », « Kate, sei stanca, sei in piedi da più di quarantotto ore… siediti », «No », ripeto. « Il medico ha detto che  ti devi sforzare il meno possibile », dici preoccupato.
« MIO PADRE E’ MORTO », urlo.
Cade il silenzio interrotto solo da alcuni clacson delle auto che corrono veloci fuori. Rimaniamo così uno di fronte all’altro per quelli che sembrano minuti.
Faccio un passo indietro. Mi sento in colpa per averti urlato addosso, così mi giro e ricomincio a fare su e giù per la stanza.
« Lo so che non è semplice. Lo so che la morte è qualcosa che non riusciamo ad accettare anche se è l’unica cosa davvero certa. E so che ti senti affogare », fai una pausa e prendi un respiro, « ma io sono qui, accanto a te, non scappo, non corro a gambe levate. Sei in mezzo al mare, ma lascia che io ti aiuti »
Chiudo gli occhi e mi sento in quella camera di ospedale. Sento il rumore dei macchinari sovrapposti a quelli delle auto che sfrecciano. Mi volto rincontrando i tuoi occhi.
« Mi stava aspettando sai? Ha chiesto di me. Sapeva che stava per andarsene », la mia voce va a tratti, spezzata dal dolore. « Stava lì, steso, e mi chiamava…prima di entrare mi hanno detto che gli mancavano pochi minuti e mi sembra quasi assurdo pensare che una settimana fa stava così bene e parlava con Harry, io.. io non riesco »
Sbatto le palpebre e due gocce cadono sulla mia giacca. « Gli ho stretto la mano e sono rimasta con lui, faticava a parlare, respirava a malapena. Mi ha detto di salutare Harry e mi ha detto che devo continuare a fare quello che faccio… ho capito metà delle cose, forse perché ho pianto per la metà del tempo» .
Le gambe smettono di sorreggermi e mi accascio sul divano.
« Era così fiero quando sono stata eletta senatore, è sempre stato fiero di me per ogni sciocchezza. Ho continuato a ripetergli che gli volevo bene. Aveva paura, ma ne avevo più io e per un momento mi sono sentita una bambina impaurita che guidava una jeep nel cuore della notte. Ha detto che sarebbe stato con…. lei », alzo lo sguardo e ti vedo, mi guardi, triste.
« Spero sia così. E poi non ho sentito più niente  ».
Il ronzio della macchina attaccata al suo corpo continua, lo sento dentro, e ho paura che non mi lasci più.
Le immagini ricominciano. Più veloci di prima. Mi prendo la testa fra le mani cercando di fermarle.
Il giorno che mi ha promesso che non avrebbe più bevuto, quando ha deciso di seguire un gruppo. I suoi primi cento giorni da sobrio, la sua faccia fiera quando sono entrata in polizia e la sua gioia quando sono diventata detective. Le cene di Natale, la prima volta che ha capito che non ero più sola e che avevo qualcuno al mio fianco. Il mio matrimonio e le sue lacrime quando mi ha vista per la seconda volta vestita di bianco. Già perché la prima non è andata tanto bene. Quando sono corsa a casa tua per dirti che io e Rick non saremo più stati solo in due, e la prima volta che hai tenuto nelle braccia Harry.  
E poi il vuoto, le immagini si fermano, il cuore smette di andare all’impazzata e il ronzio cessa.
Sento solo i tuoi passi, non ti ho visto avvicinarti, lo hai fatto piano per cercare di non spaventarmi. Continuo a guardarmi i piedi anche quando mi sfili il pass per il Campidoglio. Non mi ero resa conto di averlo ancora per la fretta. Raccogli la borsa che ho lasciato cadere e la appoggi sul tavolo dell’ingresso.
« Harry sta dormendo?  » ti richiedo con voce roca passandomi una mano tra i capelli.
« Ho fatto tutto io, non ti devi preoccupare » me lo ripeti per farmi stare tranquilla.
 Mi poggi le mani sulle spalle e avvicini la tua fronte alla mia. Mi costringo ad alzare la testa e a fissarti negli occhi. Una lacrima è sfuggita al tuo controllo ma è niente in confronto alle mie. Mi guardi attentamente e fai risalire le mani dalle mie spalle al mio viso posandole sulle guance. Mi asciughi le lacrime piano e appoggi i pollici sulle mie palpebre.
« Chiudi gli occhi », mi sussurri sulle labbra.
Obbedisco e tu inizi piano con movimenti circolari a carezzarli.
Mi lascio andare e tu continui a sussurrarmi sulle labbra per farmi calmare. Vai avanti per non so quanto, le tue dita salgono su verso le tempie e continuano a muoversi e a premere sulla pelle.
Sospiro di sollievo,  l’adrenalina piano lascia il mio corpo e inizio ad accusare la stanchezza, sono in piedi da troppo tempo. Ritorni sulle palpebre e i tuoi movimenti si rallentano sino a fermarsi. Lasci scivolare le mani di nuovo le tue mani calde sulle mie guance.
Ti abbassi piano e mi posi un bacio un leggero bacio sulla fronte. Apro gli occhi lentamente e incontro i tuoi, stai piangendo anche tu.
Soffochi un singhiozzo e mi accarezzi i capelli « Va un po’ meglio? », Chiedi.
Sei così vicino che le tue ciglia mi risultano sfocate, riesco a vedere i minuscoli coriandoli color ambra che si perdono tra il resto delle tue iridi, le tue pupille dilatate, e scorgo il tuo sguardo così triste.
« Se ne è andato. Lo ha fatto prima di sapere di… », « lo sa, lui ora lo sa », mi dici interrompendomi.
« Credi?  », chiedo speranzosa.
« Voglio crederci  ». Mi passi una mano sul ventre e l’ennesima lacrima scende dal mio viso.
Abbasso lo sguardo posando la mano sopra la tua. « Mi dispiace che lui o…lei non lo conoscerà.  »
« Ci penseremo noi, gli racconteremo tutto ciò che c’è da sapere. Jim Beckett non verrà dimenticato.  »
Singhiozzo, « Non…non riesco a crederci », dico prendendomi la testa tra le mani.  
« Cosa vuoi che faccia Kate?  »
« Stringimi ti prego fallo sino a quando non avrai riavvicinato tutti i pezzi rotti », ti sussurro.
« Sei a casa, sono qui, sono con te », bisbigli nel mio orecchio. Mi accarezzi la schiena ma tremo ancora e così mi abbracci più forte.
Mi lasci un bacio sui capelli e ti abbassi per sfilarmi i tacchi, risali e fai lo stesso con la giacca. Ti alzi per appenderla nell’attaccapanni dell’ingresso. Passi una mano sotto le mie gambe e le porti sopra il divano invitandomi a stendermi. Ti accovacci vicino a me e mi abbracci.
E finalmente mi lascio andare e singhiozzo con la testa appoggiata sul tuo petto.
Le lacrime continuano a scendere, bagnano te e rigano il mio viso.
Fisso la tua maglietta piena di mascara, e i miei occhi che continuano ad impiastricciarla.
Ma soprattutto guardo te, che non ti stancherai mai di fartela sporcare.
 
 
 
 
 
When the whites of your eyes come through
You'll see something new
With your body and mine raised up
It's good to see you back home

 
Turn black tables
And your turning black tables

 
 
 
 
 
Other Lives- Black Tables.
 
 
 
 
Hey Hey Hey.
Ho voluto ambientare questa storia nel futuro, facendo riferimento alla previsione (se così posso chiamarla) del viaggiatore nel tempo. La puntata a cui mi riferisco è la 6x05 “Time will tell”/ “Il viaggiatore nel tempo”.
“Richard Castle vive a New York con sua moglie, la Senatrice Beckett, e i loro tre figli.”
Ho davvero amato quella scena!
Di solito non scrivo questo genere di cose, e non ero molto convinta di questa os.
Ma vabbè, o la va o la spacca!
Fatemi sapere cosa ne pensate!
 
-Nicoletta
  
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