Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Aimi Dan    09/07/2014    1 recensioni
Questa può essere intesa come una platonic Levi x Mikasa [Rivamika], ( anche se più avanti mostrerò più paring come l'Eren x Mikasa, Eren x Armin x Mikasa e platonic Ereri) ripercorrendo il passato turbolento di Levi e Mikasa sotto l'ala del temibile Kenny Ackerman. Si renderanno conto di essere più simili di quel che si immaginavano.. "Hey Mikasa..." Levi parlò piano mentre accarezzava i capelli corvini alla bambina che piangeva sommessamente "..perché..non...facciamo un gioco?".
Genere: Azione, Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Armin, Arlart, Eren, Jaeger, Jean, Kirshtein, Mikasa, Ackerman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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Dopo essere finalmente riusciti a liberare Eren e Historia; non con poche complicazione ed incidenti ma soprattutto senza vittime; Levi e la sua squadra erano scappati in fretta e furia fuori dalla città per non essere riaccerchiati da Kenny e dai suoi compagni. Con il piano che aveva brillantemente ingegnato Armin erano riusciti a riportare dalla loro parte i due ragazzi rapiti. Si erano lasciati alle spalle molti dubbi e domande, ma non potevano certo restare li per cercare di ottenere le risposte, bisognava lasciar perdere e tornare immediatamente indietro; almeno per ora le domande di Historia per la dubbia versione dei fatti del padre, dovevano essere lasciata in sospeso. Per ora. Si poteva ancora intravedere il velo di furore che annebbiava gli occhi di Eren. Mentre in quelli della ragazza bionda l’unica cosa che si poteva intuire era lo smarrimento e la solitudine. Più o meno erano tutti messi piuttosto male: Levi era ferito alla testa e anche se medicato, la ferita continuava a sanguinare; Jean era stato quasi colpito a morte da una scagnozza di Kenny e se non fosse stato per Armin; il quale era ancora lievemente schioccato e incredulo di aver realmente ucciso un essere umano, e sicuramente non sarebbe stato più la stessa persona dopo quell’esperienza; sarebbe sicuramente finito all’altro mondo. Jean si maledisse anche per quello, se non fosse stato così stupido e fedele nella resa della ragazza ora Armin sarebbe stato il ragazzo di sempre. Mikasa si era ferita combattendo direttamente contro Kenny mentre gli altri recuperavano i rapiti. Anche Mikasa aveva degli interrogativi in testa però; quando Kenny l’aveva vista aveva fatto un espressione strana, un sorriso sghembo che le aveva fatto venire il voltastomaco. Le aveva detto con una voce sottile ma decise una bentornata che non le aveva fatto certo piacere. Qualcosa non quadrava. E la cosa che la faceva imbestialire ancora di più era che Levi non le voleva dare una minima spiegazione, nonostante la ragazza avesse insistito più e più volte passando anche ad un tono minaccioso. Levi poi si era alterato e le aveva detto di smetterla di assillarlo. Ora si limitavano a cavalcare velocissimamente su cavalli che avevano rubato dal luogo in cui erano state portate a destinazione le bare. Non potevano certo tornare alla casetta tranquilla in mezzo ai boschi, ormai sapevano dove si potevano nascondere e ritornare in quel luogo era stupido e scontato; avrebbero dovuto rifugiarsi in qualche catapecchia abbandonata il più lontano possibile dalla città. Bastava essere nascosti e in un posto relativamente tranquillo e per la notte sarebbe andato più che bene. Si perdevano tra le mille stradine della città per non farsi nemmeno intravedere quando si diressero verso l’uscita del cancello della città. Dovevano fare in fretta, perché non sapevano quando e come li avrebbero raggiunti perciò spronarono i cavalli al massimo delle loro possibilità sbattendo ripetutamente i tacchi sulla pancia delle bestie. Cavalcarono per alcune ore sempre utilizzando lo stesso ritmo, però prima o poi sapevano che l’ energia di quelle povere bestiole sarebbe ben presto sfumata tutta. E infatti non tardarono molto per ritrovarsi appiedati. Fortunatamente dopo altre 2 ore di camminata incessante, videro in lontananza il profilo di una vecchia casa abbandonata che si stagliava dietro ad alcune folte e alte querce. Si assicurarono di essere ben coperti dalla vegetazione ed entrarono stanchi ed affamati. Soprattutto Sasha. Trovarono il tutto abbastanza pulito contro le non proprio rosee aspettative, anche per la gioia di Levi. la sala principale era composta da pochi semplici ed essenziali mobili, quali un rude tavolaccio di legno, con sopra un leggerissimo strato di polvere; 8 sedie sparse per la sala da pranzo anch’esse in legno scuro; un paio di credenze attaccate al soffitto ancora contenenti un servizio buono di piatti e bicchieri con tanto di posate; un piccolo ma utile cucinotto incrostato lievemente da mesi di sporcizia e vecchiume, e un divano spolpato dal tempo e dagli acari, ma abbastanza spazioso per contenere 5 sederi delle rispettive persone. Il pavimento in parquet era mangiucchiato e rigato, ma non era pericolante e soprattutto era solido, all’imbocco del corridoio si stendeva una fila di scalini che molto probabilmente conducevano alle stanze da letto. Il primo ad entrare fu Levi furtivo e pronto ad attaccare. Quando si accertò che non c’erano pericoli in giro, a parte l’alta concentrazione di polvere che avrebbe potuto mandare in schock un qualsiasi individuo malato di allergia; fece un segno agli altri di entrare. Schifato dall’ambiente, la prima cosa che fece Levi, dopo aver acceso due grosse lampade ad olio che illuminarono la stanza; fu andare in avanscoperta in cantina per cercare qualche straccio e magari uno spazzolone. Sasha lo segui, ma solo per assicurarsi che oltre alle salviette profumate al limone ci fosse anche qualcosa di un po’ più commestibile. Tornò indietro con aria trionfante portandosi dietro un sacco di verdure e di pane; vecchi entrambi ma pur sempre mangiabili. Prima però dovette sgrassare il vecchio cucinino. Altrimenti Levi avrebbe rifiutato di mangiarci. Dopo la cena non molto gustosa ne varia, dove comunque tutti si rimpinzarono come maiali di pane raffermo e pomodoro crudo, decisero tutti di andare a dormire. Erano solo le 8 di sera. Il sole era appena calato. Connie e Sasha furono i primi ad appisolarsi seguiti da Jean ed Armin e per ultimo Eren. Ma Mikasa non ce la faceva proprio, il mal di testa che le rimbombava nel cervello sempre più spesso e sempre più forte era tornato a farle visita e le procurava un fischio incessante nelle orecchie e la sensazione che qualcuno le stesse strizzando la zucca come un limone. Era iniziato quando aveva visto Kenny. Decise di non pensare a quell’uomo sinistro, e al suo sorriso beffardo e decise di scendere in cucina per prepararsi qualcosa da bere; in realtà avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di tenere le mani occupate e smettere di pensare. Scese le scale con un cigolio sordo, e arrivò in soggiorno, dove quasi ad attenderla c’era Levi, con una tazza di caffè in mano che rimirava il paesaggio fuori dal finestrotto lurido. Prima che scendesse l’ultimo scalino l’uomo parlò :”per fortuna, gli individui che abitavano qui prima avevano ottimi gusti in fatto di caffè. Se ne vuoi un po’ è ancora nella caffettiera, serviti pure.” Dopo questo, ingollò un altro sorso senza mai guardare in direzione della ragazza. Mikasa si servì con il caffè rimasto. La sua scatola cranica martellava più forte e il mal di testa non aveva intenzione di lasciare stare la ragazza bruna. Mentre quest’ultima si stringeva la tempia dolorante il caporale parlò :”Senti Ackerman, è da prima che continui a rompere chiedendomi di quell’uomo; Kenny, e cosa c’entri lui con me. E soprattutto con te. Te lo dirò senza mezzi termini. È perché lui è un Ackerman.” La ragazza si voltò di scatto con un espressione allibita sul volto “Heichou, ma che…che sta dicendo?” il suo cervello urlava Kenny Ackerman da tutte le parti e dovette fare a botte con se stessa per non svenire. Per la prima volta Levi si girò verso di lei e la guardò negli occhi. “Mikasa…” si alzò in piedi e gli diede un leggere buffetto con le nocche sulla guancia sinistra “….Finché chiunque non canterà la la la; ricordi?.” Quel gesto. Quel buffetto sulla guancia. Quella frase. Quel gioco. la sua testa si aprì. Letteralmente. Il dolore era aumentato di mille volte, ed era come se qualcosa si fosse sbloccato dentro al complesso meccanismo che aveva al posto del cervello. Mille immagini in sequenze di ricordi che non si ricordava di avere neppure vissuto, cascarono come bombe su Mikasa. Fece cadere la tazza che si ruppe in mille pezzi, spargendo il caffè caldo dappertutto. Le mani coprivano le orecchie e si morse l’interno delle guance per non mettersi ad urlare spasmodicamente. Il sapere metallico e familiare del sangue investì la sua lingua. Si accasciò per terra, piangendo senza rendersene conto, sotto gli occhi sbigottiti di Levi, impotente quanto spaventato. Gli occhi della ragazza erano spalancati al limite e respirava affannosamente. Il torace le doleva per lo sforzo di recuperare aria. Incominciò a rivivere i ricordi che qualcuno aveva cancellato per lei, quel qualcuno che era accanto a lei e che la scuoteva incessantemente ripetendo il suo nome all’infinito. Un sorriso tremante tentava di celare il quasi ormai evidente disagio e nervosismo di Friedrich Ackerman. Le mani sudavano copiosamente e di tanto in tanto le strofinava sulla casacca marrone per pulirle; niente da fare, sudava e sudava ancora, sentendo diverse gocce fresche rotolare lungo la schiena. Teneva per mano una bambina di circa 6 anni. Quest’ultima sorrideva tranquillamente e una scintilla di curiosità brillava nei suoi occhi guizzando da una parte all’altra della pupilla color carbone. Suo padre le aveva promesse che sarebbero andati a trovare il nonno per la prima volta. Mikasa era davvero emozionata. Non era mai uscita dal fitto bosco dove era situata la sua casa. Non capiva il perché del pianto quasi isterico e del lungo e opprimente abbraccio che le aveva donato sua madre sul ciglio della porta di casa loro. Era sprofondata nell’incavo della sua spalla e singhiozzava stringendosi al petto la bambina, che pensava di morire stritolata. Quest’ultima aveva liquidato La stretta con un rapito “non preoccuparti mamma, torno presto” che aveva fatto velare gli occhi di Shizuko Ackerman (cognome adottato dal matrimonio con il marito ) di un inspiegabile e infinita tristezza; come se in quegli occhi così simili a quelli di Mikasa, si fosse aperta una voragine nera. Sorrideva amara per dar corda alla figlia, mentre si alzava con estrema lentezza. Ma Mikasa non era stupida, aveva 6 anni, ma era estremamente attenta e capiva con una serietà disarmante per la sua età ogni situazione. Ma era comunque una bambina. Per questo quando attraversarono per la prima volta la città rimase sbigottita dalla diversità della sua vita in mezzo ai boschi. Viaggiarono per circa un giorno, senza fermarsi mai. Passando tutto il Wall Maria e tutto il Wall Rose, e contro tutte le aspettative di Mikasa, persino il Wall Sina. Per Mikasa era tutto nuovo e curioso e faceva più domande che poteva al padre senza però ottenere risposte complete e chiare. L’uomo si limitava a guardare dall’altra parte e cercare di sviare il discorso. Mikasa decise allora di non provare a chiedere più nulla, tanto sapeva che non avrebbe ottenuto risposta. A notte fonda, con un aria talmente pesante e stantia che si sarebbe potuta tagliare con il coltello; arrivarono nella Capitale all’interno del mitico e agognato Wall Sina. Quel Wall Sina dove ogni singola persona dei muri più esterni avrebbe fatto qualsiasi cosa per ottenere il sedere al sicuro al suo interno. Mikasa si aspettava che il suo nonnino abitasse in una casa grande e spaziosa, che fosse un signore arzillo e benestante con tanto si servitù. Si aspettava una marea di giocattoli nuovi a festeggiare il suo arrivo, e l’idea di stringere un morbido orsacchiotto di pezza riempì i suoi sensi e la sua testa facendola fremere sempre più coinvolta in un misto di agitazione e contentezza. Rimase tristemente colpita quando, vide il padre addentrarsi dentro a quello che pareva essere un sotterraneo. Era umido e puzzava terribilmente. In precedenza erano svicolati per le periferie sporche e circondate di vecchiume, tra detriti di quelle poche case abbandonate che sembravano appartenere ad un altro mondo, fuori dal benestare degli stolti e volutamente ciechi cittadini del vero Wall Sina. Già da quel momento le aspettative di Mikasa andavano affievolendosi, ma non voleva rinunciare alla scintilla di speranza che gli brillava nel petto. Magari papà aveva preso una semplice scorciatoia. Non era così. C’era una schifosa e appiccicaticcia patina di lerciume per terra, che infangava le scarpine color pastello di Mikasa. Quest’ultima rimase come bloccata sull’imbocco delle scale che portava a quel buco nero e senza fondo, in cui si intravedeva solo il viso scocciato e sudato del padre e la sua mano tesa, per spingerla a muoversi. Ma lei non voleva scendere; col cavolo che ci pensava. Si inventò una scusa a caso, che aveva paura del buio. In realtà era anche vero, ma sentiva che se scendeva quelle scale, qualcosa di nero e malvagio avrebbe avvolto i suoi artigli intorno alla sua sottile e candida gola. Il suo sesto senso le stava urlando “scappa” e non riusciva più ad ignorarlo. Mikasa, era così sveglia. Il padre, sull’orlo su di un vera crisi di rabbia o di pianto; nemmeno Mikasa seppe dire con certezza quale sentimento sovrastava tutti gli altri che comparivano a scatti sul volto invecchiato di Friedrich; non volle sentire più scuse; risalì facendo un balzo per ogni due scalini, e tirò Mikasa per le braccia. La bambina provò a divincolarsi, ma non ne aveva la forza. Sapeva anche, che metterla sul piano emotivo non sarebbe servito a niente. Mettersi a piangere; dire di odiarlo; urlare; chiamare sua madre; sapeva che non avrebbe fermato l’innaturale risolutezza del genitore nel compiere quell'atto così inusuale. Scese le scale trainata come una mucca, rigorosamente ad occhi chiusi; anche rischiando di mancare qualche scalino, o di scivolare sulla patina bagnata di fango, muschio e luridume. Un bagliore fioco apparve d’improvviso sotto le palpebre di Mikasa. Con molta calma e prudenza dischiuse gli occhi. Una vera e proprio città si stagliava sotto la capitale. Si sentì attonita e tremante per l’imponenza di quel luogo segreto. Vide le stalattiti pendere pericolosamente dal soffitto; dalle quali gocciolava acqua tutt’altro che fresca e pulita; che andava a depositarsi in diverse pozzanghere profonde che si formavano per via del terreno estremamente irregolare. C’erano buche alte una spanna e sassi enormi in ogni dove. La strada non aveva nemmeno idea di cosa fosse l’asfalto. La bambina osservò le abitazioni mentre camminava silenziosa e obbediente dietro il padre, coperta dalla sua ombra. Erano incredibilmente spoglie, vecchie, e cadevano letteralmente a pezzi. Grosse aperture sovrastavano i tetti, mancanti di parecchie tegole; i muri erano rivestiti alla bene e meglio, con mattoni fatti in casa che si sgretolavano col passare inesorabile del tempo, portando tutte le fondamenta delle case a sprofondare e sgretolarsi con loro, accartocciandosi su se stesse; in figure asimmetriche quanto pericolanti. File di bucato spoglio e monocromatico andavano da una casa all’altra. Ai bordi delle strade vecchi straccioni tendevano la mano rinsecchita, scarna e venosa sotto mantelli grezzi di juta, con cui stringevano con debolezza piattini sformati di metallo scadente, con la speranza che qualcuno offrisse qualcosa. Anche non soldi; un pezzo di pane, uno straccio asciutto e magari pulito, un pezzo di sapone…o la dignità. No quella non l’avrebbero riconquistata da nessuno, pensò amaramente Mikasa, mentre due occhi grigi e spenti, segnati da due solchi neri e dalle ossa sporgenti; guizzavano fuori dal mantello puzzolente. Distolse lo sguardo. Ma ce ne erano dappertutto. Non potevi sfuggirgli. Dovevi provare pena e pietà. Era quasi obbligatorio. Come se avessero stampato sul mantello “Guardami, guardati. E vergognati. Fallo perché io sarò sempre qui mentre tu distogli semplicemente lo sguardo e continui a camminare.” Diavolo, ma quanto mancava? Mikasa poteva appigliarsi solo alla mera consolazione di una meta invisibile, che forse era anche peggio di quel marcio che sentiva dentro e che le rodeva lo stomaco. Aveva capito immediatamente che quella era la città dei dimenticati, di quelli senza nome; dei segreti detti con il viso ancora sporco di sangue, del fatto che dovevi fare qualsiasi cosa per portarti un pezzo di pane a casa per non far apparire, sul volto dei tuoi figli, la solita espressione sconsolata e il pensiero fisso del fatto che nemmeno quel giorno; era ora ci cena. Qualsiasi cosa. Perché non ti avrebbe regalato nulla nessuno e se per vivere dovevi tagliare qualche gola, perché no? di quelli che dovevano vivere della spazzatura della spazzatura. Eh si, perché sopra quella città pericolante e spolpata c’era una vita agiata, ricca di sfarzi e di sciocchezze, piena di “da quale parrucchiere dovrei recarmi per essere la ragazza più alla moda di tutto il Wall Sina” Oppure “Titani? Per me è come se non esistessero. La mia vita non è cambiata, anzi è migliorata, così abbiamo eliminato un po’ di inutili mangia-pane a tradimento.” E ripeto che per certe cose, Mikasa era portata a pensare. Un edificio si differenziava tra tutto quel triste grigio che la circondava. Era vecchio anch’esso, ma era verniciato di nero. Tutto. Era alla fine della strada principale, staccato da qualsiasi altro edificio, solitario. Era rinchiuso in un cantone, con l’intento non riuscito di nasconderlo; vista l’enorme mole dell’edificio; e aveva un insegna bianca. L’idea che balenò immediatamente nella mente di Mikasa fu del becchino. Ma sull’insegna c’era una semplice scritta “A. & Co.” Abbastanza eccentrico per essere un edificio di una normale ditta. Il proprietario doveva essere un megalomane. Ma Mikasa non si fidava. E ancora meno quando il padre cambiò direzione per dirigersi proprio verso quel inquietante edificio. Non riuscì più a tenere a bada le gambe tremanti, mentre Friedrich suonava ripetutamente il campanello. Una voce rude rispose con uno sbuffo e un biascicato “arrivo, arrivo.” Mikasa non aveva certo fretta. L’uomo che aprì la porta di legno laccato nero a vetri scuri, fu un uomo che raggelò il sangue alla bambina. Era un uomo adulto, sulla quarantina, con la barba sfatta, un fastidioso pizzetto e i capelli appena lunghi, unti, radi alla base e lucidi schiacciati dentro un cappello nero con una banda bianca. Aveva delle profonde rughe d’espressione e degli occhi cattivi, corvini e piccoli, che scrutavano più del necessario. Era eccessivamente alto; superava Friedrich di due spanne; e slanciato. Si poteva immaginare la muscolatura pronunciata sotto la giacca bianca e la casacca di pelle nera. Quando vide Mikasa e suo padre, fece un fasullo sorriso a 32 denti :“Oi, Friedrich. Alla fine ce l’hai fatta.” Mikasa guardò suo padre. Aveva la mascella serrata e i denti stretti, la fronte corrugata e un odio profondo negli occhi che si erano persi in un uragano di ricordi. Sibilò tra i denti per rispondere :” Kenny…avrei preferito restarmene a casa.” Kenny; così si chiamava l’uomo, fece un ampio gesto con le braccia per invitare i due ad entrare, sempre con quel ghigno sghembo e strafottente :”suvvia, Fried. Non chiami più il tuo vecchio papà?” Mikasa perse un colpo: era lui suo nonno. Quella “A.” sull’insegna stava per Ackerman e company. L’immagine che si era fatta del nonno era tutto l’opposto; buono, affabile, dall’espressione dolce, dai modi delicato e soprattutto sempre con un buono e rassicurante profumo di fiori di lavanda. Kenny puzzava di tabacco. Di tabacco e bugie. L’immagine della bambina crollò miseramente e non ebbe il tempo di raccoglierne i pezzi mischiati con la sua amara delusione che faticava a mandare giù per la gola. Il padre entrò risoluto con la testa alta, lo sguardo di sfida. Mikasa agganciata ai suoi pantaloni avanzava insicura dentro l’edificio. Dall’interno poteva sembrare un semplicissimo negozio. E pure di infima qualità. In un postaccio del genere sarebbe stato più strano il contrario. Serviva per chi aveva da parte qualche spicciolo per comprare beni di prima necessità. Ma non ci mise molto a scoprire che era una mediocre copertura per un traffico di affari sporchi. Sporchi di sangue. Kenny passò dietro al balcone di segno scuro, intaccato e graffiato sulla superficie. Si sedette sullo sgabellino alto, malconcio e mancante di metà dell’imbottitura; per indirizzare il suo sguardo indagatore sul figlio, e poi su Mikasa. Sempre così. Un ondeggiare di occhiate furtive che stava iniziando ad innervosire la bambina. Kenny dopo essersi appoggiato al bancone e dopo essersi sfregato con vigore le mani callose; soddisfatto parlò di nuovo :”Bene, bene Fried. Sono contento che me l’hai portata in fretta. Ma cagasotto come sei l’avevo immaginato. È un vero peccato che non abbia niente nei pantaloni questa adorabile bambina. Magari ci avrei potuto lavorare e renderci anche qualcosa. Ma così non saprei. Probabilmente è talmente delicata che morirà alla prima spintarella.” Mikasa guardò allarmata il padre, che aveva l’impressione di aver ricevuto un forte pugno nello stomaco. Fremeva, e le mani tremavano come anche il viso che stava divenendo paonazzo. Non voleva lasciare la figlia in balia di quel mostro. Ma doveva. Doveva perché era nato da una famiglia dannata, in un posto dannato, ed era dannato lui stesso. Mikasa in preda alla tachicardia, strattonò violentemente la maglia del genitore e con voce ansante e terribilmente incredula fece uscire quella che sembrava una preghiere, un ascolto :”papà….di che sta parlando?....papà? perché siamo venuti qui? Papà voglio andare a casa. Papà mi fa paura quell’uomo. PAPA’! RISPONDIMI!” il padre distolse lo sguardo e si torturò il labbro inferiore. Poi prendendo coraggio per la bastardata che stava per propinare a sua figlia; si abbassò alla sua altezza prendendola per le spalle. Si diede della merda di uomo. Si disse che non meritava una figlia così bella, e una moglie così devota che le stava portando via la sua unica figlia. Così importante per tutti. Le urla irate di Shizuko risuonavano nella sua mente; e allora si disse anche, che erano due bastardi allo stesso livello. Povera Mikasa, se avesse saputo…”Ascolta Mikasa. Dovrai stare qui per un po’..” gli occhi della figlia strabuzzarono e la mascella cadde, un gemito da animale ferito stava facendosi strada nella sua gola. “ Senti, ti verrò a prendere tra poco, qualche settimana non preoccuparti” mentì “ intanto farai amicizia con tuo nonno, che ti insegnerà qualcosa sul suo mestiere, niente di che, magari spolverare qualche mensola. Vedrai, ci sono tanti tuoi parenti qui, ti divertirai come non mai tra tutti i tuoi cugini e tra gli zii. Tu però devi promettermi una cosa, ok?” Una Mikasa piangente, tremante e con un unico pensiero in testa; quel MORIRO' che le lampeggiava nel cervello più di una lampada ad olio; annuì lentamente e con il labbro tremante. Suo padre non ce la faceva più. Stava trattenendo tutto dentro e non ce la faceva, doveva esplodere. “ascoltami bene, intanto che ne io ne la mamma ci siamo, tu dovrai essere forte come noi due messi insieme. Non solo forte mentalmente” gli toccò una tempia “ma anche fisicamente. Perciò dacci dentro Mikasa, ok? Ti è sempre piaciuto muoverti e correre, potrei sfogarti per bene, d’accordo? Ah, e non farti abbattere da niente. Tu sei fortissima. Sei la mia campionessa.” Gli diede un bacio veloce sulla fronte e si alzò. Ma Mikasa voleva un abbraccio, lungo e caldo. Si sentì non amata. Freddo, domandò a Kenny :”Chi sarà il “tutore” di mia figlia, Kenny?” lui sogghignò “ah, guarda è un nuovo arrivato. L’ho raccolto dalla strada direi, tre anni fa. È tanto che non vieni a trovarmi Fried. Aspetta che te lo presento. Ormai è un Ackerman fatto e finito. Fa parte della famiglia. Non preoccuparti gli ho spiegato come deve agire, gli ho insegnato bene anche per questo compito come per tutti gli altri, che porta sempre a compimento egregiamente. Ma è un po’ introverso, lascia stare. I giovani d’oggi.” Si alzò dallo sgabello e si diresse verso il ciglio delle scale uscito dalla stanza che fungeva da negozio e che era aperta su di un lungo corridoio :”LEVI CAZZO SCENDI GIU! È ARRIVATA MIKASA MUOVI IL CULO E PRESENTATI!” Kenny ritornò soddisfatto e sorridente al bancone, mentre si udivano dei passi strisciati e pesanti scendere dalle scale di legno. Dalla porta entrò un ragazzo. Perché era quello Levi: un ragazzo. Avrà avuto al massimo 23 anni e sembrava ancora più giovane. Era bello. Tanto. Uno strano taglio di capelli gli incorniciava il volto magro e bianchissimo. Era rasato fino a metà della nuca, e poi ciuffi di capelli corvini ricadevano sulla rasatura e sugli occhi allungati e piccoli. Una pupilla spenta messa ancora più in ombra dalle occhiaie profonde. Naso piccolo e fine, labbra sottili. Corpo magro e sottile, ma si vedeva che era più mascolino sotto la leggera e semplice camicia bianca. Una cosa che Mikasa notò subito fu la statura: era estremamente basso per la sua età e per essere un uomo. Una donna nella media l’avrebbe abbondantemente superato. Le mani infagottate nei pantaloni neri e un espressione annoiata e inespressiva. Kenny diede una pacca sulla spalla a Levi e sorrise orgoglioso :”ecco questo è il mio ragazzo!” strizzò una guancia a Levi “che bello che è venuto su, solo grazie a me! Su va a salutare la bambina come ti ho insegnato!” diede una spintarella sulla schiena al ragazzo indirizzandolo verso Mikasa. Quest’ultima era stranamente calma; non provava paura verso quel ragazzo. Era quasi incuriosita. Magari era vero che non erano nient’altro che una stramba famiglia di parenti. Levi sembrava così innocuo e così calmo. La strafottenza diede fastidio alla bambina mora, ma tutti avevano dei difetti. Si disse che se avessero passato così tanto tempo insieme, gli avrebbe insegnato ad essere un po’ più espressivo. Si ripromise che l’avrebbe fatto sorridere, era un bellissimo ragazzo, lo sarebbe stato il doppio se avesse sorriso. Mikasa di nuovo speranzosa allungo la mano a palmo aperto; in segno di saluto; per stringere la piccola mano del ragazzo. Negli occhi di quest’ultimo balenò un lampo di fastidio; e con un movimento strano e un espressione schifata tirò il braccio indietro e caricò il colpo a pugno chiuso. Mikasa non capì. Friedrich si. Chiuse gli occhi.
   
 
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