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Autore: xitsgabs    09/07/2014    2 recensioni
«Terence Banks, cosa stai blaterando? Tu sei un mito per tutti i ragazzi della scuola: fai scherzi favolosi che fanno scompisciare dalle risate. Per tutti gli studenti prediletti di Lumacorno, George Weasley vuole farti addirittura conoscere sua figlia!»
[Raccolta di One-shot per il contest a turni "La Coppa delle Case tra OC... e non solo!" indetto da Exoticue sul forum di EFP]
Genere: Generale, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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Ringrazio Liberty_Fede per il titolo della raccolta e il nome delle Merendine Pro-Popò.
Terence Banks: Storia di un Grifondoro fuori dalle righe

01. Di Merendine Pro-popò e William Shakespeare.

Era una notte tempestosa: la pioggia cadeva a catinelle, in un modo ancor più pesante rispetto alle altre volte – a cui gli inglesi erano anche ben abituati – e il vento sembrava avere il potere di far volare via gli alberi, staccando le loro radici dal terreno; il cielo era tutta una sfumatura di un blu notte tendente al nero e di nuvole grigie.

Celine stava stesa sul letto, intenta a fare una maratona di film Disney. Solo lei e il suo pancione di nove mesi. Si era chiesta, dal settimo mese in poi, quando suo figlio sarebbe nato: prese in considerazione l’idea di doverlo mettere al mondo prematuramente, ma alla fine si ritrovò ad avere il problema opposto: il bambino ancora non sembrava volersene andare dalla sua attuale abitazione.

Quella stessa mattina si era recata all’ospedale, dopo delle forti contrazioni e se n’era poi andata, sentendosi dire da un medico che non era ancora il momento e che quelle erano solo finte doglie, così se n’era tornata a casa per rivivere un po’ la sua adolescenza, morta prematuramente.

Era il momento del ballo di Belle con la Bestia quando sentì di essere bagnata e subito abbassò lo sguardo, chiedendosi se suo figlio la prendesse in giro o meno. «Adesso? Andiamo, tesoro, c’è la mia scena preferita! Sono settimane che ti imploro di uscire, non farlo proprio ora!» la risposta a tale richiesta fu una dolorosa contrazione che la portò a gemere per l’immediata sofferenza e afferrò il telefono, chiamando sua madre.

 

A quei tempi la ragazza era soltanto un’adolescente di diciassette anni che aveva commesso l’errore di credere nell’amore giovanile. Quando aveva incontrato Marcus aveva pensato che fosse il ragazzo perfetto: alto, biondo, affascinante, sorriso smagliante, buona reputazione e un vero e proprio gentiluomo. Alla fine la ragazza si ritrovò incinta di uno che seguì la gravidanza per i primi due mesi, poi andò via.

Tralasciando queste futilità, il parto fu tanto doloroso quanto breve. Il piccolo Terence nacque poco prima dell’alba e, nonostante fuori piovesse ancora, sua madre si sentì subito felice nel vedere il suo visino, come se in quel momento tutta la pioggia fosse scomparsa per lasciare spazio all’arcobaleno e il sole che aveva rimpiazzato le nuvole grigie.

Il bambino era bello, sano. Aveva gli occhi neri ma intensi e luminosi, delle piccole lentiggini sul viso e i capelli biondi – non un biondo platino o quasi bianco, no, un biondo tendente al bronzo, luminoso e caldo –, poi i capelli divennero rossi e Celine si rese conto che qualcosa non andava. Poi diventarono blu, Celine si chiese se stesse diventando pazza.

***

Terence Point of View;

«Terence, che dici, farai i provini per entrare nella squadra di Quidditch?» domandò il mio amico Jonathan.

Scrollai le spalle quasi automaticamente, come facevo almeno tre volte  in una conversione e mi portai il calice alle labbra per bere del succo di zucca. «Boh. Sì. Forse. Non lo so.»

Jonathan sospirò, passandosi una mano fra i capelli color cenere. «Oh, Godric. Quando la smetterai di darmi risposte così irrimediabilmente babbane?» chiese con una smorfia disperata sul volto.

Io mi passai tranquillamente la lingua sul labbro inferiore per ripulirlo della piccola goccia di succo caduta su di esso e scrollai, un’ennesima volta, le spalle. «Per tutte le mutande di Merlino, fratello, hai ragione! Il mio essere cresciuto nella Londra babbana mi sta sfuggendo di mano e la cosa mi sta rendendo più babbano di quanto io in realtà non sia. Per tutti i nasi di Lord Voldemort, non pensavo che un “Non lo so” potesse essere tanto babbano.» esclamai finendo la colazione e lui rise. Anche io stavo per farlo, quando poi notai una figura piccola alzarsi dal tavolo dei Corvonero e muoversi verso l’uscita della Sala Grande. Mi alzai dalla sedia e diedi al mio amico una pacca sulla spalla: «Vado a seguire Christabel, è appena uscita in corridoio.»

«Quando ti arrenderai al suo forte odio verso di te?»

«Ti prego: sappiamo tutti che le donne che mi odiano, mi vogliono.» affermai passandomi le mani fra i capelli biondi, spettinandoli leggermente.

«E la donna che non ti vuole cosa fa?»

«Se ti porgi questa domanda, tanto vale pensare a cosa farebbe un elefante col tutù e le ballerine sul palco di Broadway.» dissi mentre andavo via e notai il suo sguardo confuso mentre mi allontanavo.

«Terence! Cos’è Brotwei?» urlò cercando di farsi sentire.

Sfortunatamente lo sentii e decisi di non rispondere dopo aver sentito il nome così storpiato del teatro che più amavo. Avevo tantissimi ricordi di Brodway: mia madre era innamorata persa di New York e per quel teatro in particolare: prima che nascessi studiava canto, ballo, recitazione e cose così, sognava di diventare una stella ma io glielo impedii quando ero solo un feto. Non l’ho mai detto a mamma, ma Broadway o non lei sarà sempre una stella, la mia stella. Bando alle ciance, mi portava spesso lì a vedere le varie opere e i musical e io riuscivo a sentirmi in famiglia con lei. Beh, come doveva essere: non avevo nessuno oltre lei.

Varcai la soglia della porta della Sala Grande e sorrisi, appoggiandomi al muro con una spalla. Christabel era bella, bella davvero: aveva una cascata di capelli biondi che scendevano aggraziati sulle sue spalle e arrivavano fino alla vita, gli occhi erano castano chiaro ambrati d’oro, la pelle sembrava porcellana e il suo corpo era esile, quasi fragile. «Una ragazza così carina non dovrebbe mai stare da sola nei corridoi, non sia mai che arrivi qualche Serpeverde.» dissi ad alta voce e lei si voltò. Mi aspettai di intravedere almeno un angolo della bocca alzato, ma invece la osservai alzare la testa, stringersi i libri al petto e sorpassarmi altezzosamente con sguardo freddo. Almeno ci ho provato. «Amami o odiami, entrambe le cose sono a mio favore: se mi ami sarò per sempre nel tuo cuore, se mi odi sarò per sempre nella tua mente.» recitai e già all’inizio della frase si fermò, assaporando tutta la citazione. L’avevo letta in uno dei tanti libri della biblioteca di fronte a casa mia, era firmata da William Shakespeare.

La fissai, in attesa di vederla compiere una qualche azione: non fu così, neanche allora. Si ristrinse il libro al petto e riprese a camminare, ma c’era qualcosa di diverso nella sua andatura: sembrava meno sicura di due istanti prima.

Sospirai e mi diressi verso l’aula di Pozioni, che era la materia che avevo alla prima ora. Nei corridoi regnava la più assoluta tranquillità: i ragazzi della mia età camminavano senza porsi il problema di arrivare in anticipo o anche in orario e l’unico leggero fruscio di scarpe che scivolano sul pavimento proveniva dai ragazzini di prima che invece ci tenevano ad arrivare puntuali. Mi venne da ridacchiare nel guardare la loro goffaggine. Mi ricordavano me stesso sei anni prima, quando mi ritrovai catapultato in una realtà che non mi apparteneva.

Quando nacqui e cominciai a cambiare colore dei capelli, della pelle, degli occhi e trasformando parti del mio corpo in quelle di vari animali mia madre si convinse a cercare mio padre, pensando che tutto questo potesse venire dalla sua famiglia: alla fine venne fuori che ero figlio di uno dei pochi Purosangue rimasti a Londra. Crescendo ho sempre pensato che un giorno lui sarebbe arrivato a casa nostra, pretendendo di avere una parte importante nella mia educazione e nella mia vita in generale ma questa speranza, con l’arrivo dei quattordici anni, cominciò ad affievolirsi sempre di più tanto che, arrivato al sesto anno di studi, capii che mio padre non mi voleva. La cosa più dolorosa di quella consapevolezza fu che non mi dispiacque più di tanto: a cosa serviva un padre del genere?

Un sorriso amaro si posò sulle mie labbra e mi riscossi dai miei pensieri nel momento in cui mi ritrovai davanti alla porta dell’aula già aperta ed entrai, andandomi a sedere al mio solito posto affianco a Jonathan.

«Con Christabel?» domandò appena mi vide e io lo fissai con uno sguardo impenetrabile, prima di scrollare le spalle, momentaneamente rassegnato.

Lui non rispose e, dopo qualche secondo, decise di cambiare argomento. «Il prossimo mese c’è la prima partita dell’anno: Grifondoro contro Tassorosso. Qualche idea?» chiese sussurrando per non farsi sentire dagli altri.

Io abbozzai a un sorrisetto «Qualcuna: per cominciare, non farò nessuno scherzo.»

La mia risposta sembrò stupirlo e si voltò completamente verso di me, facendo cigolare lievemente lo sgabello malandato. «Terence Banks, cosa stai blaterando? Tu sei un mito per tutti i ragazzi della scuola: fai scherzi favolosi che fanno scompisciare dalle risate. Per tutti gli studenti prediletti di Lumacorno, George Weasley vuole farti addirittura conoscere sua figlia!» esclamò e io non potei evitare di scoppiare a ridere. George Weasley, mio idolo, aveva solo accennato all’idea di un possibile fidanzamento tra me e sua figlia Roxanne, rivelandomi di provare una profonda stima nei miei riguardi e che sarei stato l’unico ragazzo perfetto per lei proprio perché gli assomigliavo in un modo impressionante.

«Calmati, fratello!» dissi provando a calmarlo. «Proprio per questo: ho una reputazione troppo famosa per permettermi qualche errore. Lo scherzo ci sarà, ma non sarò così stupido da farlo in una partita dove dovrà giocare la mia Casa. Mi prenderebbero subito. Se invece il tutto accadesse nella seconda partita dell’anno ... Corvonero contro Serpeverde, potrebbero benissimo pensare che sia stato qualcun altro. Comprendi?» il suo volto parve illuminarsi e capii che avevo compreso il mio ragionamento, nonostante le parole sussurrate.

«Sei un genio.»

Io sorrisi beffardamente e annuii. «Sì, lo so.»

***

Il giorno della partita;

Scrutai critico il mio riflesso nello specchio, annodandomi con attenzione la cravatta rosso-oro e sistemandomi, subito dopo, la giacca della divisa scolastica. Mi passai una mano fra i capelli e sorrisi quando diventarono color mogano, subito dopo li feci tornare del mio colore naturale. Mi piaceva cambiare di poco il mio aspetto, a volte, anche se non volevo abusare della mia natura di Metamorfomagus. Osservai la mia figura un’ultima volta e, notando il colore cadaverico della pelle, la resi leggermente più scura. Non sembravo proprio tornato da una vacanza al mare, ma nemmeno ricordavo il pallore pre-mortem.

Una volta finito di prepararmi, mi girai verso il letto prendendo tutto ciò che mi serviva per lo scherzo: era arrivato tutto con il corriere di Tiri Vispi Weasley e c’erano alcuni prodotti nuovi che sarebbero stati messi in vendita una settimana più tardi, ma George Weasley aveva pensato di darmeli in “anteprima” per permettermi di fare lo scherzo più memorabile dell’anno.

Uscii dalla camera con tutto in borsa e mi ritrovai davanti Jonathan che mi aspettava. «Allora? Stai andando? Che farai? Posso aiutarti?» domandò a raffica e io gli diedi una pacca sulla spalla, scuotendo la testa.

«Lo sai, John: sei il mio migliore amico. Ma io lavoro da solo.» dissi semplicemente prima di lasciarlo lì e salire verso la Guferia.

Neanche un’ora dopo ero fra il pubblico della partita di Quidditch e guardavo gli studenti volare velocemente sulle loro scope. Il boccino sembrava ancora lontano a entrambi i Cercatori. Alzai gli occhi al cielo, aspettando di vedere il mio scherzo prendere vita: le Merendine Pro-popò non avevano un effetto istantaneo e si doveva aspettare circa mezz’ora prima che cominciassero a funzionare e beh, la mezz’ora era passata.

Ed eccoli lì, i gufi che volavano librandosi nel cielo azzurro: erano tantissimi, praticamente tutti quelli che stavano nella Guferia quando ho organizzato il tutto, ma lo scherzo non era solo una visita dei volatili durante la partita di Quidditch. Le Merendine Pro-popò avevano iniziato a fare effetto e così ...

«Per le mutande di Merlino, Terence. Quei gufi stanno ... sui giocatori ... gli escrementi ... Oh, per Godric!» balbettò Jonathan e io mi impegnai di non sorridere fieramente, così da non far capire a nessuno che c’entravo io con il tutto e mantenni il solito sguardo impassibile, scrollando leggermente le spalle.

«Notevole, non credi?» sussurrai mentre vedevo tutti i giocatori scendere dalle scope e scappare per non ritrovarsi nella traiettoria dei Gufi e fuggire negli spogliatoi. La preside McGranitt ci ordinò di tornare nelle nostre stanze, mentre lei e gli insegnanti si occupavano di far tornare dentro la Guferia i volatili.

Io e i miei amici ci dirigemmo verso i nostri dormitori mentre ancora parlavamo di quanto fosse stata grandiosa la mia idea e di come le facce dei giocatori fossero state impagabili, quando sentii qualcuno tirarmi. Mi spostò leggermente, pur avendomi afferrato con forza e capii che era di sicuro qualcuno debole, molto probabilmente una ragazza.

Quando mi voltai capii di avere ragione ma rimasi ugualmente sorpreso nel vedere quei due occhi color castano-oro fissarmi colpevole. Davanti a me avevo Christabel che sembrava seriamente arrabbiata. «Tu! Razza di idiota!» esclamò provando a colpirmi ma io la presi per le braccia, bloccandola, mentre i miei amici se ne andavano, lasciandoci soli.

«Per tutte le ceneri di una Fenice, Christabel, cosa diavolo ti prende?» esclamai senza lasciarle le braccia, preoccupandomi di tenerla salda il più delicatamente possibile per non rischiare di farle male.

«So che sei stato tu a fare quella cosa con i gufi! Sei un bambino, Terence!» esclamò tagliante, liberandosi dalla mia presa con uno strattone carico d’ira. Io la fissai con gli occhi socchiusi e mi avvicinai di più a lei: ero più alto di lei di circa una decina di centimetri e quindi dovetti abbassarmi per guardarla negli occhi.

«Benissimo, dolcezza, hai intenzione di dirlo alla preside?» la sfidai e notai i suoi occhi scurirsi per la rabbia e mi afferrò per la cravatta.

«Sarebbe troppo facile così, non credi?»

«La verità è che sei terrorizzata all’idea di farmi espellere, perché significherebbe non vedermi più.»

Nemmeno un attimo dopo averle detto ciò sentii le sue cinque dita sbattere contro la mia guancia e seppi già da subito che mi aveva ben lasciato il segno. Mi allontanò con una spinta e andò via. Ti conquisterò, Christabel. Dovesse essere l’ultima cosa che faccio.

  
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