01.
Di Merendine Pro-popò e William Shakespeare.
Era
una notte tempestosa: la pioggia cadeva a catinelle, in un modo ancor
più
pesante rispetto alle altre volte – a cui gli inglesi erano
anche ben abituati
– e il vento sembrava avere il potere di far volare via gli
alberi, staccando
le loro radici dal terreno; il cielo era tutta una sfumatura di un blu
notte
tendente al nero e di nuvole grigie.
Celine
stava stesa sul letto, intenta a fare una maratona di film Disney. Solo
lei e
il suo pancione di nove mesi. Si era chiesta, dal settimo mese in poi,
quando
suo figlio sarebbe nato: prese in considerazione l’idea di
doverlo mettere al
mondo prematuramente, ma alla fine si ritrovò ad avere il
problema opposto: il
bambino ancora non sembrava volersene andare dalla sua attuale
abitazione.
Quella
stessa mattina si era recata all’ospedale, dopo delle forti
contrazioni e se
n’era poi andata, sentendosi dire da un medico che non era
ancora il momento e
che quelle erano solo finte doglie,
così se n’era tornata a casa per rivivere un
po’ la sua adolescenza, morta
prematuramente.
Era il momento
del ballo di Belle con la Bestia quando sentì di essere
bagnata e subito
abbassò lo sguardo, chiedendosi se suo figlio la prendesse
in giro o meno. «Adesso? Andiamo, tesoro,
c’è la mia scena
preferita! Sono settimane che ti imploro di uscire, non farlo proprio
ora!» la risposta a tale richiesta fu
una dolorosa
contrazione che la portò a gemere per l’immediata
sofferenza e afferrò il
telefono, chiamando sua madre.
A
quei tempi la ragazza era soltanto un’adolescente di
diciassette anni che aveva
commesso l’errore di credere nell’amore giovanile.
Quando aveva incontrato
Marcus aveva pensato che fosse il ragazzo perfetto: alto, biondo,
affascinante,
sorriso smagliante, buona reputazione e un vero e proprio gentiluomo.
Alla fine
la ragazza si ritrovò incinta di uno che seguì la
gravidanza per i primi due
mesi, poi andò via.
Tralasciando
queste futilità, il parto fu tanto doloroso quanto breve. Il
piccolo Terence
nacque poco prima dell’alba e, nonostante fuori piovesse
ancora, sua madre si
sentì subito felice nel vedere il suo visino, come se in
quel momento tutta la
pioggia fosse scomparsa per lasciare spazio all’arcobaleno e
il sole che aveva
rimpiazzato le nuvole grigie.
Il
bambino era bello, sano. Aveva gli occhi neri ma intensi e luminosi,
delle
piccole lentiggini sul viso e i capelli biondi – non un
biondo platino o quasi
bianco, no, un biondo tendente al bronzo, luminoso e caldo –,
poi i capelli
divennero rossi e Celine si rese conto che qualcosa non andava. Poi
diventarono
blu, Celine si chiese se stesse diventando pazza.
***
Terence
Point of View;
«Terence, che dici, farai
i provini per entrare nella squadra di
Quidditch?» domandò il mio amico Jonathan.
Scrollai
le spalle quasi automaticamente, come facevo almeno tre volte in una conversione e mi
portai il calice alle
labbra per bere del succo di zucca. «Boh. Sì.
Forse. Non lo so.»
Jonathan
sospirò, passandosi una mano fra i capelli color cenere. «Oh,
Godric. Quando la smetterai di darmi
risposte così irrimediabilmente babbane?» chiese
con una smorfia disperata sul
volto.
Io
mi passai tranquillamente la lingua sul labbro inferiore per ripulirlo
della
piccola goccia di succo caduta su di esso e scrollai,
un’ennesima volta, le
spalle. «Per tutte le mutande di Merlino, fratello, hai
ragione! Il mio essere
cresciuto nella Londra babbana mi sta sfuggendo di mano e la cosa mi
sta
rendendo più babbano di quanto io in realtà non
sia. Per tutti i nasi di Lord Voldemort,
non pensavo che un “Non lo so”
potesse essere tanto babbano.» esclamai finendo la colazione
e lui rise. Anche
io stavo per farlo, quando poi notai una figura piccola alzarsi dal
tavolo dei
Corvonero e muoversi verso l’uscita della Sala Grande. Mi
alzai dalla sedia e diedi
al mio amico una pacca sulla spalla: «Vado a seguire
Christabel, è appena
uscita in corridoio.»
«Quando
ti arrenderai al suo forte odio verso di te?»
«Ti
prego: sappiamo tutti che le donne che mi odiano, mi
vogliono.» affermai
passandomi le mani fra i capelli biondi, spettinandoli leggermente.
«E
la donna che non ti vuole cosa fa?»
«Se
ti porgi questa domanda, tanto vale pensare a cosa farebbe un elefante
col tutù
e le ballerine sul palco di Broadway.» dissi mentre andavo
via e notai il suo
sguardo confuso mentre mi allontanavo.
«Terence!
Cos’è Brotwei?» urlò cercando
di farsi sentire.
Sfortunatamente
lo sentii e decisi di non rispondere dopo aver sentito il nome
così storpiato
del teatro che più amavo. Avevo tantissimi ricordi di
Brodway: mia madre era
innamorata persa di New York e per quel teatro in particolare: prima
che
nascessi studiava canto, ballo, recitazione e cose così,
sognava di diventare
una stella ma io glielo impedii quando ero solo un feto. Non
l’ho mai detto a
mamma, ma Broadway o non lei sarà sempre una stella, la mia stella. Bando alle ciance, mi portava
spesso lì a vedere le
varie opere e i musical e io riuscivo a sentirmi in famiglia con lei.
Beh, come
doveva essere: non avevo nessuno oltre lei.
Varcai
la soglia della porta della Sala Grande e sorrisi, appoggiandomi al
muro con
una spalla. Christabel era bella, bella davvero: aveva una cascata di
capelli biondi
che scendevano aggraziati sulle sue spalle e arrivavano fino alla vita,
gli
occhi erano castano chiaro ambrati d’oro, la pelle sembrava
porcellana e il suo
corpo era esile, quasi fragile. «Una ragazza così
carina non dovrebbe mai stare
da sola nei corridoi, non sia mai che arrivi qualche
Serpeverde.» dissi ad alta
voce e lei si voltò. Mi aspettai di intravedere almeno un
angolo della bocca
alzato, ma invece la osservai alzare la testa, stringersi i libri al
petto e
sorpassarmi altezzosamente con sguardo freddo. Almeno
ci ho provato. «Amami
o odiami, entrambe le cose sono a mio favore: se mi ami sarò
per sempre nel tuo
cuore, se mi odi sarò per sempre nella tua mente.»
recitai e già all’inizio
della frase si fermò, assaporando tutta la citazione.
L’avevo letta in uno dei
tanti libri della biblioteca di fronte a casa mia, era firmata da William Shakespeare.
La
fissai, in attesa di vederla compiere una qualche azione: non fu
così, neanche
allora. Si ristrinse il libro al petto e riprese a camminare, ma
c’era qualcosa
di diverso nella sua andatura: sembrava meno sicura di due istanti
prima.
Sospirai
e mi diressi verso l’aula di Pozioni, che era la materia che
avevo alla prima
ora. Nei corridoi regnava la più assoluta
tranquillità: i ragazzi della mia età
camminavano senza porsi il problema di arrivare in anticipo o anche in
orario e
l’unico leggero fruscio di scarpe che scivolano sul pavimento
proveniva dai
ragazzini di prima che invece ci tenevano ad arrivare puntuali. Mi
venne da
ridacchiare nel guardare la loro goffaggine. Mi ricordavano me stesso
sei anni
prima, quando mi ritrovai catapultato in una realtà che non
mi apparteneva.
Quando
nacqui e cominciai a cambiare colore dei capelli, della pelle, degli
occhi e
trasformando parti del mio corpo in quelle di vari animali mia madre si
convinse a cercare mio padre, pensando che tutto questo potesse venire
dalla sua
famiglia: alla fine venne fuori che ero figlio di uno dei pochi
Purosangue
rimasti a Londra. Crescendo ho sempre pensato che un giorno lui sarebbe
arrivato a casa nostra, pretendendo di avere una parte importante nella
mia
educazione e nella mia vita in generale ma questa speranza, con
l’arrivo dei
quattordici anni, cominciò ad affievolirsi sempre di
più tanto che, arrivato al
sesto anno di studi, capii che mio padre non mi voleva. La cosa
più dolorosa di
quella consapevolezza fu che non mi dispiacque più di tanto:
a cosa serviva un
padre del genere?
Un
sorriso amaro si posò sulle mie labbra e mi riscossi dai
miei pensieri nel
momento in cui mi ritrovai davanti alla porta dell’aula
già aperta ed entrai,
andandomi a sedere al mio solito posto affianco a Jonathan.
«Con
Christabel?» domandò appena mi vide e io lo fissai
con uno sguardo
impenetrabile, prima di scrollare le spalle, momentaneamente rassegnato.
Lui
non rispose e, dopo qualche secondo, decise di cambiare argomento.
«Il prossimo
mese c’è la prima partita dell’anno:
Grifondoro contro Tassorosso. Qualche
idea?» chiese sussurrando per non farsi sentire dagli altri.
Io
abbozzai a un sorrisetto «Qualcuna: per cominciare, non
farò nessuno scherzo.»
La
mia risposta sembrò stupirlo e si voltò
completamente verso di me, facendo cigolare
lievemente lo sgabello malandato. «Terence Banks, cosa stai
blaterando? Tu sei
un mito per tutti i ragazzi della scuola: fai scherzi favolosi che
fanno
scompisciare dalle risate. Per tutti gli
studenti prediletti di Lumacorno, George
Weasley vuole farti addirittura conoscere sua
figlia!» esclamò e io non
potei evitare di scoppiare a ridere. George Weasley, mio idolo, aveva
solo accennato all’idea
di un possibile
fidanzamento tra me e sua figlia Roxanne, rivelandomi di provare una
profonda
stima nei miei riguardi e che sarei stato l’unico ragazzo
perfetto per lei
proprio perché gli assomigliavo in un modo impressionante.
«Calmati,
fratello!» dissi provando a calmarlo. «Proprio per
questo: ho una reputazione
troppo famosa per permettermi qualche errore. Lo scherzo ci
sarà, ma non sarò
così stupido da farlo in una partita dove dovrà
giocare la mia Casa. Mi
prenderebbero subito. Se invece il tutto accadesse nella seconda
partita
dell’anno ... Corvonero contro Serpeverde, potrebbero
benissimo pensare che sia
stato qualcun altro. Comprendi?» il suo volto parve
illuminarsi e capii che
avevo compreso il mio ragionamento, nonostante le parole sussurrate.
«Sei
un genio.»
Io
sorrisi beffardamente e annuii. «Sì, lo
so.»
***
Il
giorno
della partita;
Scrutai
critico il mio riflesso nello specchio, annodandomi con attenzione la
cravatta
rosso-oro e sistemandomi, subito dopo, la giacca della divisa
scolastica. Mi
passai una mano fra i capelli e sorrisi quando diventarono color
mogano, subito
dopo li feci tornare del mio colore naturale. Mi piaceva cambiare di
poco il
mio aspetto, a volte, anche se non volevo abusare della mia natura di
Metamorfomagus. Osservai la mia figura un’ultima volta e,
notando il colore
cadaverico della pelle, la resi leggermente più scura. Non
sembravo proprio
tornato da una vacanza al mare, ma nemmeno ricordavo il pallore
pre-mortem.
Una
volta finito di prepararmi, mi girai verso il letto prendendo tutto
ciò che mi
serviva per lo scherzo: era arrivato tutto con il corriere di Tiri Vispi Weasley e c’erano
alcuni
prodotti nuovi che sarebbero stati messi in vendita una settimana
più tardi, ma
George Weasley aveva pensato di darmeli in
“anteprima” per permettermi di fare
lo scherzo più memorabile dell’anno.
Uscii
dalla camera con tutto in borsa e mi ritrovai davanti Jonathan che mi
aspettava. «Allora? Stai andando? Che farai? Posso
aiutarti?» domandò a raffica
e io gli diedi una pacca sulla spalla, scuotendo la testa.
«Lo
sai, John: sei il mio migliore amico. Ma io lavoro da solo.»
dissi
semplicemente prima di lasciarlo lì e salire verso la
Guferia.
Neanche
un’ora dopo ero fra il pubblico della partita di Quidditch e
guardavo gli
studenti volare velocemente sulle loro scope. Il boccino sembrava
ancora
lontano a entrambi i Cercatori. Alzai gli occhi al cielo, aspettando di
vedere
il mio scherzo prendere vita: le Merendine
Pro-popò non avevano un effetto istantaneo e si
doveva aspettare circa
mezz’ora prima che cominciassero a funzionare e beh, la
mezz’ora era passata.
Ed
eccoli lì, i gufi che volavano librandosi nel cielo azzurro:
erano tantissimi,
praticamente tutti quelli che stavano nella Guferia quando ho
organizzato il
tutto, ma lo scherzo non era solo una visita dei volatili durante la
partita di
Quidditch. Le Merendine Pro-popò
avevano iniziato a fare effetto e così ...
«Per
le mutande di Merlino, Terence. Quei gufi stanno ... sui giocatori ...
gli
escrementi ... Oh, per Godric!» balbettò Jonathan
e io mi impegnai di non
sorridere fieramente, così da non far capire a nessuno che
c’entravo io con il
tutto e mantenni il solito sguardo impassibile, scrollando leggermente
le
spalle.
«Notevole,
non credi?» sussurrai mentre vedevo tutti i giocatori
scendere dalle scope e
scappare per non ritrovarsi nella traiettoria dei Gufi e fuggire negli
spogliatoi. La preside McGranitt ci ordinò di tornare nelle
nostre stanze,
mentre lei e gli insegnanti si occupavano di far tornare dentro la
Guferia i
volatili.
Io
e i miei amici ci dirigemmo verso i nostri dormitori mentre ancora
parlavamo di
quanto fosse stata grandiosa la mia idea e di come le facce dei
giocatori
fossero state impagabili, quando sentii qualcuno tirarmi. Mi
spostò
leggermente, pur avendomi afferrato con forza e capii che era di sicuro
qualcuno debole, molto probabilmente una ragazza.
Quando
mi voltai capii di avere ragione ma rimasi ugualmente sorpreso nel
vedere quei due occhi color
castano-oro
fissarmi colpevole. Davanti a me avevo Christabel che sembrava
seriamente
arrabbiata. «Tu! Razza di idiota!»
esclamò provando a colpirmi ma io la presi
per le braccia, bloccandola, mentre i miei amici se ne andavano,
lasciandoci
soli.
«Per tutte le ceneri di una Fenice,
Christabel, cosa diavolo ti prende?» esclamai senza lasciarle
le braccia,
preoccupandomi di tenerla salda il più delicatamente
possibile per non
rischiare di farle male.
«So
che sei stato tu a fare quella cosa con i gufi! Sei
un bambino, Terence!» esclamò tagliante,
liberandosi dalla mia
presa con uno strattone carico d’ira. Io la fissai con gli
occhi socchiusi e mi
avvicinai di più a lei: ero più alto di lei di
circa una decina di centimetri e
quindi dovetti abbassarmi per guardarla negli occhi.
«Benissimo,
dolcezza, hai intenzione di dirlo alla preside?» la sfidai e
notai i suoi occhi
scurirsi per la rabbia e mi afferrò per la cravatta.
«Sarebbe
troppo facile così, non credi?»
«La
verità è che sei terrorizzata all’idea
di farmi espellere, perché
significherebbe non vedermi più.»
Nemmeno un attimo dopo averle detto ciò sentii le sue cinque dita sbattere contro la mia guancia e seppi già da subito che mi aveva ben lasciato il segno. Mi allontanò con una spinta e andò via. Ti conquisterò, Christabel. Dovesse essere l’ultima cosa che faccio.