01.
Di spazzole inutili e ricordi distorti.
Jonathan
aprì gli occhi lentamente: si sentiva stordito come se
avesse
battuto con violenza la testa sul pavimento e tutta la stanza sembrava
girare.
Voltò leggermente il capo e urlò nel ritrovarsi
Jace che lo fissava con sguardo
intenso.
«Per
l’Angelo, Jace! Ero così sicuro che fossi etero!»
esclamò coprendosi con il lenzuolo. La situazione era comica
ed entrambi
avrebbero riso se non ci fosse stata quella perenne tensione
nell’aria.
«Mi
sto chiedendo se sei coglione o cosa.» disse con sguardo
pensieroso il ragazzo,
seduto sulla sedia accanto al letto. Jonathan si sentì
offeso da tale
affermazione ma fece un meccanico cenno del capo, invitandolo a
continuare a
parlare. «Tu uccidi demoni da anni: hai rischiato di morire
più e più volte e
se non è ancora successo è perché
Raziel ha avuto pietà di te. I migliori
demoni non sono riusciti a farti secco, eppure sei svenuto al pensiero
che tua
sorella possa essere diventata ...»
«...malvagia?
Fanatica? Demoniaca?» completò Jonathan, fissando
il soffitto con una
preoccupazione che si infiltrava nell’aria della stanza.
Jace
sospirò e si abbandonò sulla sedia.
«Andiamo, John: è Clary» disse il
ragazzo e
l’amico fu quasi sicuro di aver visto un luccichio negli
occhi dorati
dell’altro mentre pronunciava il nome di Clarissa. Jace
abbassò immediatamente
lo sguardo e si alzò, muovendosi verso la porta e, una volta
aperta, si voltò
per salutarlo. «Vado ad aiutare gli altri con le ricerche, tu
riposa. Se c’è
qualche novità corro a dirtelo.»
«Spero
di vederti al più presto.» disse Jonathan con un
groppo in gola. La voce gli
tremava e Jace, accorgendosene, decise comunque di non dir altro.
Pensò a come
sarebbe stato per lui perdere Isabelle e non riuscire a ritrovarla per
dieci
anni, nonostante le continue ricerche a cui si dedicava. Sarebbe stato
orribile.
***
Il
filo tremava sotto i suoi piedi scalzi e fu spaventata al pensiero che
potesse
non reggerla e spezzarsi, facendola cadere. Era una paura razionalmente
sciocca, dato che aveva tutte le protezioni possibili – come
una corda
attaccata al suo corpo – che le impedivano di cadere, ma le
vertigini doveva
ancora superarle.
«Okay,
ferma.» disse Valentine, così lentamente che Clary
quasi non lo sentì. Si fermò
e voltò il viso verso il padre. «Adesso salta e
ricorda: sei leggera quanto vuoi essere»
disse e la ragazza annuì.
Aveva
fatto quell’esercizio tantissime volte e più o
meno riusciva a cavarsela, anche
se voleva continuare a migliorare. Si concentrò
più che poteva e saltò: si
librò nell’aria con la leggerezza di una farfalla
e riuscì ad atterrare a
terra, in piedi, in pochissimi secondi.
Valentine
sorrise e la liberò dalla protezione della corda, dandole
poi una pacca leggera
sulla spalla. «Bravissima, adesso prendi il tuo album da
disegno ed esercitati
ancora con le rune.» le ordinò il padre e lei
annuì, andando subito a fare come
le era stato chiesto.
Arrivata
in camera sua aprì la porta e si guardò attorno.
Nonostante fossero passati
dieci anni, quella stanza le dava sempre un senso di
anonimità e le sembrava,
quindi, sconosciuta: le pareti erano bianche, bianche come quelle di un
ospedale e la finestra era altissima e larghissima ad arco, il letto
era a una
piazza e mezza – Clary andava benissimo in quel letto
perché, essendo minuta,
aveva tanto spazio per muoversi – con delle coperte beige e
nere e poi c’era
l’unica cosa di quella stanza che sentiva come se facesse
parte della sua
famiglia: la libreria. Era grande e di legno e lì erano
riposti i vari libri –
tutti di materie scolastiche come Storia delle Rune, Il Codice, Come
Suonare il Pianoforte, Greco antico, Latino, Italiano, Francese,
Tedesco e altre lingue – e poi c’erano i vari
blocchi da disegno.
Prese
quello nuovo e lo aprì davanti a lei, cominciando a
disegnare una runa
sconosciuta che le girava in testa da qualche giorno.
Chiuse
gli occhi, lasciando che le mani si muovessero con la matita sul
foglio: la
runa era fatta da linee spezzate chiuse che, se Clary non fosse stata
convinta
di una loro sconosciuta utilità, avrebbe scambiato per
scarabocchi.
Dopo
pochi secondi, però, la runa scomparve
lasciando spazio a un prato verde primaverile: lì seduti su
un telo c’erano due
bambini, un maschio e una femmina. Clarissa si riconobbe nella bambina
dalle
treccine rosse e gli occhi verdi mentre il ragazzino affianco a lei,
biondo e
con la pelle pallida, le ricordò suo fratello Jonathan,
morto in un incidente
insieme alla madre – stando alle parole di Valentine
– ma non era sicura fosse
lui, perché il ricordo sembrava alquanto danneggiato.
Davanti
a loro due c’erano due blocchi da
disegno: in uno c’era raffigurata una bellissima farfalla
colorata, mentre
nell’altro vi era una casetta in
bianco e nero, disegnata piuttosto male – non che la farfalla
di Clarissa fosse
perfetta, ma almeno lei aveva la mano ferma –.
«Wow,
che bel disegno!» la voce era acuta e
dolce, proveniente da un bambino maschio. Quando Clarissa si
voltò restò a
fissare il viso del bambino: ricordò di aver pensato che era
bello, proprio
come il bambolotto che sua madre le aveva regalato per Natale. Aveva i
capelli
biondi come il fratello, la pelle era anch’essa bianca ma di
un bianco più
luminoso rispetto a quello di Jonathan e aveva un sorriso dolce,
nonostante
l’incisivo mancante. La Clary sedicenne rise al ricordo,
sentendo il cuore
battere più di quanto non avrebbe dovuto.
Il
ricordo svanì così com’era arrivato e
Clary si sentì stordita e smarrita per
qualche secondo, prima di riscuotersi e chiedersi cosa era successo e
perché si
era fermata dal disegno.
***
«La
spazzola non va bene.» sentenziò Magnus sedendosi,
stanco, sul divano della
biblioteca e Jace sgranò gli occhi avvicinandosi velocemente
a lui.
«Deve
andare bene: è l’unica cosa che
possediamo!» esclamò passandosi le mani fra i
capelli biondi e poggiandosi al muro.
«Ti
dico che non va bene: evidentemente Clarissa non era così
tanto legata a
quell’oggetto o, perlomeno, non lo era abbastanza. Non avete
nient’altro?»
domandò, pur conoscendone già la risposta.
Sospirò quando Jace scosse la testa.
«Se io fossi un padre con una figlia scomparsa, non terrei di
suo soltanto una
spazzola: ti consiglio di chiamare Jocelyn e chiedere loro
qualcosa.»
***
Jocelyn
era distesa sul letto con un libro fra le mani; pensò che
dovesse essere bello,
ma era difficile da dire perché i suoi occhi scorrevano
sulle pagine senza
leggere le parole e il suo unico pensiero era che, in trentacinque
della sua
vita, era riuscita a perdere un marito, una figlia e tutta la
felicità e
l’allegria che aveva quando era solo una ragazzina senza
pensieri futili per la
testa – come fidanzarsi col ragazzo più popolare
della scuola –. D’altro canto,
se non avesse sposato Valentine non avrebbe avuto Clarissa e Jonathan,
ma dopo
il rapimento della sua figlia minore gli era rimasto solo il
primogenito:
ricordava quando la sera, prima di far addormentare i suoi figli,
leggeva loro
le fiabe che tanto amava quando aveva la loro età, quando
usciva e comprava
loro i pupazzi più carini e morbidi e li vedeva stringere i
loro preferiti
mentre dormivano.
«Jocelyn!»
la voce di Jace penetrò nella stanza nel momento in cui lui
aprì la porta dopo
aver bussato. La donna si mise a sedere sul letto e lo
guardò alzando un
sopracciglio, incuriosita.
«Jace,
hai bisogno di qualcosa?»
«La
spazzola non va bene» me ne ero
accorta avrebbe
voluto Jocelyn ma decise solo di annuire e di alzarsi.
«Abbiamo bisogno di
un’altra cosa. Qualcosa da cui Clary non si separava mai e
che per lei era più
importante di una spazzola. Potresti ... avere qualcosa del
genere?»
Jocelyn
si prese qualche secondo per pensare, poi scosse la testa.
«Dopo il rapimento
di Clary, Valentine distrusse la casa e io non presi niente se non
Jonathan. Non
sono più tornata lì.»
confessò, passandosi una mano fra i capelli rossi e
desiderò, futilmente, di sapere se sua figlia stesse ancora
mantenendo il
colore naturale o se, come qualunque altra sedicenne, si stesse
rovinando i
capelli con tinture di colori vivaci. «Ma forse ...»
«Forse?»
la incitò Jace avvicinandosi e sedendosi
sulla sedia di fianco al letto.
Il
ricordo più dolce che Jocelyn aveva riguardava Jonathan, un
pomeriggio dopo
essere tornato da scuola. Lei uscì di casa per ringraziare
Stephen Herondale
che si era preso la briga di portare a casa anche il suo bambino
poiché quel
giorno lei non poteva, avendo Clarissa a casa con la febbre. Quando
tornò in
camera vide la scena più bella che avesse mai visto:
Jonathan aveva portato a
sua sorella una collanina con al centro un piccolo orso di peluche e
l’aveva
abbracciata. Clary non si allontanò mai da quella collana,
fino al giorno del
rapimento. O meglio, la mattina. Quella mattina passò la
giornata a casa del
migliore amico, il figlio di un Cacciatore molto bravo, grande amico di
Jocelyn. Quando Clarissa tornò disse di averla dimenticata a
casa del
ragazzino.
«Simon!»