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Autore: NickyH    12/07/2014    2 recensioni
Élodie Wymerick, una pragmatica quindicenne sempre affrettata e spesso impulsiva, dopo l'improvvisa sparizione del fratello si ritrova per motivi sconosciuti nella misteriosa contea di Nifleimur, un pittoresco microcosmo rigidamente circoscritto e dominato da ghiaccio e neve. Immersa in un mondo non suo e non ricordandosi quasi nulla se non il suo nome, si troverà presto coinvolta in affari pericolosi e controversi. Lady Crius, spirito protettrice di Nifleimur, è scomparsa nel nulla: solo Élodie sembra essere la chiave per ritrovarla ed evitare alla contea un'imminente tragedia. Ma cos'è realmente Nifleimur? E come ci è arrivata Élodie?
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ceraunofobia = paura di tuoni e fulmini; causa attacchi di panico, tachicardia e affanno. Può spingere le persone a cercare ripari in cui non è visibile il fenomeno atmosferico.


 

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Élodie Wymerick era una ragazza terribilmente affrettata. Dall’alto dei suoi quindici anni non trovava spazio per inutili perdite di tempo e ancor più effimeri svaghi popolari. Aveva il suo da fare, e nulla poteva infrangere la sua quotidiana tabella di marcia. Portava avanti la politica del “pochi ma buoni” e così ramificava amicizie serene, risultato assai positivo e fondamentale per la semplice complessità di una teenager. Al contrario delle sue coetanee, comunque, non pensava a cosa avrebbe fatto nella vita, e viveva giorno per giorno lasciando in un polveroso angolo i pensieri relativi all’età adulta.

Viveva in un paese imprecisato, sulle coste oceaniche di una nazione ancor meno significativa. Ciò che importa è che Élodie amava il mare. Un’ammirazione infantile che la faceva fermare ogni volta che, passeggiando nel tornare a casa da scuola, scorgeva un panorama interessante. Incantata guardava le onde colpire sotto i suoi piedi i pali del molo o le rocce che costeggiavano il lungomare. Ogni giorno, immancabilmente, iniziava una silenziosa e meditata conversazione di sguardi con l’oceano stesso.

«E “lui” come ti rispondeva?» le chiedevano in molti, con un antipatico velo d’ironia.

La vista era sì piacevole, ma amici e adulti non comprendevano a fondo il motivo di questa sua naturale e semplice passione che, con tutte le probabilità, non capiva nemmeno lei.

Era convinta che i bambini sentissero ciò che poi, crescendo, non si può più cogliere, allo stesso modo in cui gli adulti possono imparare nozioni ed azioni che non sono alla portata dei più piccoli.

«È uno scambio di abilità,» spiegava Élodie «muore la prima e ne nasce una nuova, finiamo d’essere ingenui e impariamo l’arte della società, ci prepariamo a dare il nostro al mondo affrontando quell’umanità, nell’infanzia, col suo genuino egoismo, era sempre rimasta alla finestra, come il paesaggio di una favola della buonanotte.»

Tuttavia c’è da fare una precisazione che la nostra protagonista non soleva dire, ben sapendo che il novanta per cento dei suoi ascoltatori non avrebbe nemmeno colto il senso della spiegazione appena citata: secondo lei, perdere quel linguaggio infantile non implicava anche dimenticare del tutto le immagini immagazzinate, ed è per questo che ritroviamo nel corso della nostra vita sensazioni misteriosamente istintive che ci caratterizzavano fin dalla nascita, anche se noi consciamente non riusciamo a stabilire un collegamento preciso o stabile.

Nulla di scientifico, solo un’interessante conclusione che Élodie aveva plasmato per spiegare il suo esagerato attaccamento all’oceano. Quando il sole risplendeva alto nei pomeriggi estivi e quando era nascosto da nubi frastagliate e minacciose lei era lì, con le braccia sulle ringhiere di metallo della via più esterna. Quando la neve aveva ghiacciato la spiaggia, quando la pioggia allagava il marciapiede e il vento alzava le gocce, osservava convinta. E riusciva a sognare anche quando la notte avvolgeva pacificamente la città, da sola, col rumore delle onde scroscianti a tenerla sveglia. Rimaneva ancor più affascinata nei momenti in cui larghi fulmini squarciavano il cielo sopra al mare, congiungendo le loro terminazioni col bordo dell’orizzonte. 

Ma lei non si accontentava di far la parte della spettatrice. Oh, no, per nulla. Ogni singolo giorno, utilizzando un apposito quadernetto, prendeva accuratamente nota di tutti i pensieri le riflessioni che l’oceano le ispirava, per poi ricopiare al computer i suoi appunti inserendoli in un diario segreto che battezzò “tidalnet”, giusto per avere un nome in codice. Amava immergersi mentalmente in quel mare di fantasia, e, mentre lo faceva, era solita piegare la testa verso sinistra, come se volesse ruotare di novanta gradi il panorama per vederlo in modi sempre diversi.

Potrete darle della ragazza sensibile, della sognatrice, la potrete definire come una persona al di fuori apatica ma più viva che mai all’interno. E avreste tutti ragione, anche se in modo sottile.

«Se avessi una forza più grande di essere intelligente e sensibile?» si chiedeva delle volte, spinta dai banali e monotematici complimenti che soleva ricevere.

Certamente non era una ragazza di facile analisi psicologica, né una che esternava facilmente i suoi pensieri più intimi. E siccome nessuno era a conoscenza delle parole contenute nel tidalnet, nessuno la conosceva veramente.

Viveva con la sua famiglia in una tranquilla località ai bordi del trafficato centro cittadino, in una piccola villetta. A scuola otteneva buoni risultati, e per questo riusciva a ritagliarsi spesso e volentieri un cospicuo spicchio di tempo libero, che puntualmente infarciva di attività da svolgere in rigoroso ordine. Suonava il violino a discreti livelli, e faceva parte della banda scolastica. La musica riempiva ancor di più le sue giornate e, secondo lei, “le colorava di affettuosi sollievi”. 

Nei rari momenti in cui non aveva nulla da fare andava entusiasta ad aiutare sua madre in semplici lavoretti, spesso in giardino, dov’era presente un orticello esiguo per dimensioni ma ricco per varietà e colori. Era talmente piccolo che sua madre, quando comprava un nuovo sacchetto di semi, ne avanzava sempre una manciata. Élodie, grande amante della natura, non li buttava mai via: così, dopo averli puliti, essiccati e purificati, li conservava in ermetici barattoli di latta, che custodiva in uno scaffale di camera sua come se facessero parte di una collezione. Non le dispiaceva passare il tempo con la sua famiglia, specialmente con suo fratello maggiore. Durante l’infanzia passarono insieme una moltitudine inquantificabile di momenti felici, e costruirono insieme un rapporto più che ottimo.

Il ricordo più piacevole che conservava riguardava una fresca serata di primavera. Era domenica, e andarono insieme alla fatidica cerimonia d’apertura di Pleasantown, un suggestivo parco a tema permanente costruito a fianco della spiaggia. Si divertirono come mai avevano fatto, provando quasi tutte le numerose nuove attrazioni: l’alta e sfavillante ruota panoramica divenne subito la preferita di Élodie.

«Ti prego, fammi fare un altro giro!»

«Lo sai che è tardi.»

«Ma quella ruota è così carina. Le luci sembrano stelle che ballano in cerchio.»

«E vorresti tornare a danzare con loro, a costo di essere sgridata dalla mamma? Alla fine si tratta di stare seduti immobili ad aspettare che il giro finisca.»

«Ma si vede l'oceano, da lassù!»

«Lo si vede bene anche da terra. E poi è notte! Cosa pensi di vedere?»

«L'oceano. Mentre dorme, però.»

«Immagino che non abbia speranze di convincerti, sorellina.»

Anche se non lo sbandierava affatto, nutriva un’enorme stima per suo fratello, e ogni volta che parlava con lui percepiva un'educata aurea di bontà che la faceva sentire più al sicuro.

«Vedo che hai capito.»

«Poi mi spiegherai cosa sei riuscita a vedere!»

«Un giorno, forse, lo saprai.»

Ma non glie lo disse mai. 

Non perché si vergognasse a raccontargli cosa fosse riuscita a scorgere in quel buio panorama, ma semplicemente perché non trovò più occasioni per farlo. Infatti, le cose andarono improvvisamente peggiorando una volta che il fratello compì diciassette anni. Cioè qualche giorno dopo dall'apertura di Pleasantown. Più o meno da quel momento sembrò comportarsi in modo sempre meno trasparente e iniziò ad allontanarsi affettivamente dalla famiglia. Nessuno ne parlava chiaramente in casa: o non si sapeva nulla, o si sapeva troppo. Una sfilata di domande eluse e teorie represse.

Giunti al momento della linea del tempo in cui è ambientata questa narrazione, gli allarmanti comportamenti del fratello divennero abitudine e ogni volta che tornava da scuola appariva stanco, nervoso e colmo di rabbia. Élodie iniziò a vederlo arrivare a casa sempre più affranto, finché, ad un certo punto, non lo vide più tornare.

   
 
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