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Autore: Benio Hanamura    15/07/2014    1 recensioni
[Mademoiselle Anne/Haikara-san ga toru]
“Il mio nome è Kichiji Hananoya… o meglio, questo è il mio nome dall’età di 15 anni. Fino ad allora ero Tsukiko, la sesta figlia della famiglia Yamada...”
Nel manga originale della Yamato è detto ben poco del passato della geisha Kichiji, che fa la sua prima comparsa come causa inconsapevole di gelosia della protagonista Benio nei confronti del fidanzato Shinobu, ma che poi si rivelerà essere solo una sua ottima amica e stringerà una sincera amicizia con Benio stessa, per poi segnare anche l’esistenza del padre di lei, vedovo inconsolabile da tanti anni.
Per chiarire l’equivoco e per spiegarle quale rapporto c’è davvero fra lei e Shinobu, Kichiji racconta la sua storia del suo passato a Benio, dei motivi per cui è diventata geisha, abbandonando suo malgrado il suo villaggio quando era ancora una bambina, ma soprattutto del suo unico vero amore, un amore sofferto e tormentato messo a dura prova da uno spietato destino…
Dato che questa storia è solo accennata nel manga, ma mi è piaciuta e mi ha commossa molto, ho deciso di provare ad approfondirla e di proporvela come fanfiction!
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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   Mi risvegliai di soprassalto, appena un attimo prima che una raffica di colpi giunta da chissà dove colpisse anche me, ormai rannicchiata a terra, il kimono nuziale zuppo del sangue di Koji, al quale continuavo a stringermi disperatamente nonostante lo sentissi sempre più freddo e rigido fra le mie braccia. Dovevo aver gridato, infatti appena aprii gli occhi vidi  Miyuki china su di me con un’espressione preoccupata, dunque doveva avermi sentita dal corridoio  e perciò era accorsa al mio capezzale. Ero in un bagno di sudore, e dato che ormai eravamo in pieno autunno ed iniziava a far freddo, a maggior ragione raggelai. Mia sorella mi rassicurò sul fatto che fosse stato solo un incubo, mi aiutò a cambiarmi e rimase con me, ma non riuscii più a riaddormentarmi e rimasi inquieta per tutto il resto della giornata successiva, per trovare un po’ di sollievo soltanto la sera, quando Shinobu ebbe nuovamente l’occasione di venire all’okiya con un paio di amici. Come mi spiegò, si trattava di due suoi compagni di scuola, e perciò per la prima volta  anche lui era senza uniforme. Sembrava ancora più giovane vestito con abiti civili, comunque  doveva averli scelti perché anche lui voleva distrarsi completamente almeno per qualche ora, ed infatti non toccò quasi per niente l’argomento, e soprattutto grazie a quel tipo bizzarro che dichiarava un promettente scrittore riuscii a divertirmi, ed a farmi dimenticare i cupi pensieri della notte precedente.
   Il mattino successivo però il mio umore peggiorò nuovamente, e tornò pure quel soffocante senso d’inquietudine, che non mi abbandonò mai completamente per giorni; a peggiorare le cose, anche nelle notti successive dormii male: sicuramente avevo ancora incubi, anche se al risveglio non riuscivo a ricordarli bene come quello delle mie “nozze di sangue”, anzi, non li ricordavo affatto. Ma anche se li avessi ricordati la situazione non avrebbe potuto essere peggiore: quel primo lungo incubo mi aveva comunque lasciato dentro qualcosa di indelebile, spazzando via dal mio cuore tutte le aspettative, le dolci speranze che avevo coltivato da quando avevo rivisto Koji e lasciandomi solo tutto ciò che avrebbe potuto ferirmi, lentamente ma sempre più profondamente ed ossessivamente. Possibile che non ci fosse alcun modo per fare previsioni anche vaghe su quanto ancora sarebbe durata la guerra, per conoscere gli esiti delle battaglie, per sapere chi era salvo e chi invece era stato ferito oppure... (invano tentavo disperatamente di respingere anche il solo pensiero!)? Ed il fatto che non potessi sfogarmi apertamente come Keiko diventava per me sempre più insopportabile, anche se Miyuki e Kiyoko facevano di tutto per darmi anche solo un minimo di conforto.
   Mai invidiai Keiko quanto quel giorno di fine novembre, quando, in una serata alquanto fredda in cui mai ci saremmo aspettate di dover ricevere visite, ne giunse una delle più impreviste: il capitano Miura! Era smagrito, dall’aria stanca, un lungo sfregio gli solcava l’intera guancia destra e si sosteneva ad un bastone, ma lei, dimentica di ogni formalità corse fra le lacrime ad abbracciarlo. Evidentemente era stato congedato perché in quelle condizioni non poteva più continuare a combattere, ma ciò che più contava era che era vivo, e le era di nuovo accanto!!!  
    Il capitano Miura ci raccontò di come il nostro esercito si fosse fin dal primo momento fatto onore in battaglia, di come lui fosse stato gravemente ferito ed inizialmente dato per disperso. Forse per via della sua ferita non avrebbe mai più potuto combattere in prima linea ma erano riusciti miracolosamente a salvargli la gamba, inoltre era tornato da eroe distinguendosi per il suo coraggio e ciò gli aveva fatto guadagnare una medaglia al valore. Eppure, anche se era un eroe ed aveva rivisto Keiko, qualcosa in lui era cambiato: e non erano  solo le ferite fisiche che gli avrebbero segnato per sempre il corpo, non solo quelle gli avevano strappato qualcosa; mi resi conto che ciò che aveva dovuto vedere con i suoi occhi chiunque avesse anche solo letto dei libri sulla guerra non avrebbe mai potuto comprenderlo!
   Dopo che sua moglie lo aveva lasciato per sempre con un bambino morendo di parto, Keiko era l’unica persona al mondo che gli era rimasta e che lo amava e lo comprendeva, mentre non era mai riuscito ad instaurare un rapporto molto stretto col figlio, colpevole forse di avere gli stessi occhi della donna che lui con la sua nascita gli aveva involontariamente portato via. Così, appena il bambino aveva raggiunto l’età minima adatta, il capitano, che anche per via del suo lavoro stava troppo poco in casa per occuparsi di lui, aveva provveduto ad iscriverlo ad un collegio e lo vedeva assai di rado, e perciò, essendo ormai la sua esistenza in casa assai solitaria, era più che comprensibile che appena giunto in città Keiko fosse stata il suo primo pensiero. Ma non solo per rivederla: intendeva riscattarla per sposarla!!! L’annuncio sconvolse tutte noi a cominciare dalla okasan. O almeno tutte tranne la diretta interessata, che anche se non aveva ancora sentito da lui nemmeno un’ipotesi del genere, nel profondo del cuore ci aveva sempre sperato ed alla tanto sospirata proposta formale era raggiante. L’offerta di riscatto del capitano era di tutto rispetto, perciò la okasan non ebbe nulla da obbiettare. Il capitano la ringraziò, e poi commentò che aveva sprecato troppo tempo (otto anni!) da solo, dopo che la sua sfortunata Oyuki lo aveva lasciato, ma che l’orrore a cui aveva assistito, aver visto tanti del suo equipaggio morire in mare anche sotto i suoi occhi e tanti altri sopravvissuti ma brutalmente martoriati e feriti, aveva cambiato totalmente il suo modo di concepire la vita, le sue priorità: a causa della sua gamba avrebbe dovuto abbandonare il suo posto, ma era riuscito a ritrovare una donna che ormai amava profondamente ed era deciso a recuperare anche il rapporto con il figlio, per quanto possibile. Avevo sempre rispettato quell’uomo, ma lo rispettai ancora di più per come aveva deciso di seguire il suo cuore decidendo di sposare una geisha senza considerare l’opinione della gente, e finalmente riuscii anche a condividere la gioia di Keiko ed a pensare ancora una volta che quella sua gioia un giorno avrebbe potuto essere la mia.
   Ma anche quel mio ritrovato ottimismo durò davvero poco. Nonostante fossimo rimasti tutti alzati per festeggiare fino a tardi, il capitano tornò all’okiya per portare per sempre Keiko a casa con sé già l’indomani di buonora , e quando la salutammo io mi sentivo fresca e riposata come non ero da giorni, dopo un sonno non lungo ma senza incubi. Purtroppo però quello stesso giorno scoprii che la mia rinata speranza della sera prima non si sarebbe mai avverata. Quando, presolo un attimo in disparte, avevo trovato il coraggio di chiedere al capitano se aveva notizie dei soldati della 18ª Divisione fanteria (inventandomi che avevo scoperto per caso che ne faceva parte un mio conoscente originario del mio paese, il che era in buona parte vero, ed anche sfruttando il fatto che non era il tipo d’uomo da fare troppe domande che non lo riguardavano) lui mi aveva detto che dopo aver rischiato la morte era rimasto per tutto il tempo in ospedale finché non lo avevano rimandato in città, e lì non aveva potuto ricevere notizie precise.  Ma per un ulteriore, beffardo scherzo del destino, senza che il capitano avesse contribuito in alcun modo all’annuncio della notizia, proprio in quel giorno in cui iniziava una nuova felice vita per Keiko la mia sprofondò in un baratro oscuro.
    Quella mattina, fredda ma limpida, Miyuki e le altre sguattere stavano completando le pulizie nella stanza della nostra compagna, che prima o poi sarebbe stata occupata da un’altra geisha, quando Kiyoko mi manifestò il desiderio di fare una passeggiata nel parco e mangiare delle daigaku imo, presso un venditore ambulante che tornava lì ogni anno. Lei ne era golosa, e diceva che a quel chiosco erano proprio identiche a quelle che mangiavamo al nostro villaggio. Io condividevo la sua opinione ed anche a me le daigaku imo piacevano molto fin da quando ero piccola, così dato che per la mattinata non avevamo particolari impegni approvai con entusiasmo la sua proposta.
   Prima di incontrarci all’okiya io non avevo mai avuto modo di conoscere bene mia cugina, anzi, non in realtà non l’avevo mai conosciuta, essendo lei stata venduta all’okiya prima che nascessi; però quella situazione, che entrambe avevamo vissuto da piccole pur se in tempi diversi, ci avvicinava molto attraverso i nostri comuni ricordi, e finalmente decisi di parlarle più apertamente: Miyuki era sempre molto affettuosa, a lei avevo raccontato qualsiasi cosa, ma l’avevo capito da tempo, lei non era mai stata in grado di consigliarmi seriamente e tanto meno di comprendermi a fondo. Finora mi era andata bene anche così, mi bastava avere Koji accanto per sentirmi in grado di fare e sopportare qualsiasi cosa, ma con lui lontano era diverso… Forse non mi avrebbe nemmeno rimproverata per la mia incoscienza, dato che aveva già in parte compreso la situazione e dopo quella prima volta non era più tornata esplicitamente sull’argomento, ma sicuramente Kiyoko avrebbe saputo, oltre che consolarmi, darmi qualche saggio consiglio su come comportarmi quando Koji sarebbe tornato e come avrei potuto gestire al meglio la nostra storia nella mia condizione di geisha che rischiava di essere scelta da un altro uomo. Respirai a fondo, come facevo sempre quando volevo raccogliere un po’ di coraggio, ma le avevo appena accennato del mio bisogno di confidarmi con lei su una questione personale molto delicata che si udì un notevole trambusto: uno strillone era arrivato all’ingresso del parco, dove stava annunciando  il trionfo delle nostre truppe nell'assedio di Quingdao, ma stava anche distribuendo copie degli elenchi dei caduti. Senza perdere tempo lasciai Kiyoko seduta sulla panchina con il sacchetto in cui erano rimaste ancora alcune daigaku imo e corsi verso di lui, riuscendo a barcamenarmi fra la folla che lo aveva circondato ed assicurandomi una copia, dopo di che tornai di nuovo a sedermi per leggerlo, ed allora sentii che per la prima volta in vita mia le daikagu imo mi avevano lasciato un retrogusto innaturalmente amaro, anche peggio del fiele.
   Per quanto riguarda ciò che accadde subito dopo, ho un vuoto di memoria: ricordo che mi sedetti di nuovo sulla panchina accanto a Kiyoko e lessi quella lista, poi il buio totale… Quando i miei occhi rividero la luce ero di nuovo all’okiya, stesa sul mio futon, ed attorno a me c’erano Kiyoko, Miyuki ed anche la okasan. Mia cugina mi raccontò che ero svenuta al parco, e così aveva dovuto chiamare aiuto per riportarmi indietro; la okasan mi disse che stava giusto per far chiamare il dottore, ma io le dissi che non ce n’era bisogno, mi ero ripresa. Per qualche minuto non ricordai nemmeno cosa mi avesse provocato quello shock, solo dopo che la okasan fu uscita mi guardai intorno ed intravedendo il foglio spiegazzato che sporgeva dalla tasca del mio hanten realizzai. Guardai disperatamente Kiyoko, come per chiedere muta conferma, e lei annuì, desolata: “Era di lui che volevi finalmente parlarmi, vero?” mi disse “Avevo capito già tutto, mia povera Tsuki-chan!” e mi abbracciò, invitandomi a sfogarmi. Già piangeva per me, ma, per quanto assurdo potesse sembrare, proprio in quell’occasione a me non uscì nemmeno una lacrima. Ed invece, con la mente del tutto offuscata e gli occhi talmente asciutti che quasi li sentivo bruciare, mi ritrovai a fissare il vuoto dietro di lei. Dietro di lei ma non solo, perché ormai per me tutto il mondo, senza Koji, era completamente vuoto.

 
 
Note:
Daikagu Imo: patate dolci.
Daigaku in giapponese significa Università e Imo significa patata. Che c’entrano le patate dolci giapponesi con il mondo universitario? Andiamo per gradi, cercando di schivare abilmente i facili giochi di parole che, questa volta nella nostra lingua, potrebbero portare a qualche goliardico fraintendimento (già il titolo è stato più che selezionato tra i vari “patate universitarie” “la patata all’università” e via dicendo!).
Anticamente, nel Giappone feudale e in particolare durante l’era dell’unificazione del Paese ad opera della dinastia dei Tokugawa (dal XVII secolo fino agli ultimi scorci del XIX, prima della cosiddetta Era Meiji, l’era moderna e di apertura all’Occidente), venivano denominati Ronin i Samurai rimasti senza un padrone, un capo o un feudo da servire a causa dei rinnovamenti sociali, della caduta o trasformazione di dinastie guerriere o eserciti o “semplicemente” perché per scelta decidevano di abbandonare tutto intraprendendo un Musha Shugyo (viaggio di studio del guerriero) per poi dimostrare la sua abilità e venire assoldato al servizio di qualche potente signore o famiglia
La parola Ronin indicava perciò il Samurai vagabondo o che per sopravvivere poteva essere assoldato sulla base di un compenso economico o, più tristemente a volte, per il semplice vitto e alloggio e il ritorno al proprio rango. In realtà, in quei quasi quattro secoli di storia del Giappone, l’utilità del Samurai come guerriero andava via via scemando…non era raro infatti che a parte lavori da guardia del corpo o istituzionali, i Samurai fossero anche meno motivati e allenati dei loro predecessori.
In questo periodo un Samurai poteva benissimo essere anche un addetto alla contabilità o un funzionario imbranato nelle arti marziali. In questa era di poche certezze per questa classe sociale ormai allo sbando, il termine Ronin, che significa letteralmente “uomo-onda”, qualcuno che vaga cercando di raggiungere disperatamente un’affermazione sociale, era certamente adatto.
Una situazione così radicata nell’immaginario collettivo nipponico, da sempre molto attento alle classi sociali e al posto e al ruolo di ogni individuo nella società stessa, che anche nell’epoca moderna il termine Ronin ha trovato inesorabilmente una categoria sociale che ben ne rispecchia le caratteristiche: quella degli universitari o meglio degli aspiranti tali!
Già perché in Giappone, dove fin dall’accesso alle scuole materne e per tutta la carriera scolastica è necessario sostenere dei test, dei veri e propri esami per valutare l’attitudine dello studente e il suo livello in funzione degli standard della scuola prescelta, accedere all’Università sembra essere una delle imprese più difficili!
Chiaramente se la difficoltà d’accesso ad una scuola è direttamente proporzionale al suo livello e alla sua reputazione, ne consegue che esistano scuole di altissimo livello ma anche di livello…”normale” dove è più facile entrare. Ancor più ovviamente, la scuola di provenienza influirà moltissimo sul passaggio successivo. E’ difficile quindi non pensare al sistema scolastico giapponese come ad un sistema dove fin da piccoli si segna in qualche modo il proprio futuro.
L’accesso all’Università dei sogni o molto spesso a quella più alla propria portata, è costellato di una serie di tentativi, di esami, di rinunce e periodi di lavori part-time nei quali conciliare il lavoro con lo studio sembra quasi impossibile. Senza la possibilità di tornare indietro, senza la possibilità di trovare un lavoro appagante full-time e con uno scopo da realizzare, gli aspiranti universitari sono davvero dei Ronin a tutti gli effetti! La figura dello studente è infatti così stigmatizzata da aver ispirato tutta una serie di luoghi comuni e storie ed è alla base di moltissimi racconti, telefilm, cartoni animati eccetera!
Paradossalmente poi, si dice che una volta entrati all’Università le cose non siano poi così difficili e che tutto scorra più o meno liscio fino ai primi colloqui con le aziende che già nell’ultimo anno iniziano a cercare e a valutare le nuove leve.
Ma le patate che c’entrano, direte a questo punto, tra Samurai, esami e studenti?
Ecco, sembra che a Tokyo, soprattutto in passato, uno dei cibi più alla portata degli studenti squattrinati fossero proprio le Daigaku Imo, le patate dolci cucinate nel modo che vi illustreremo, e che forse la ricetta sia nata proprio ad opera degli studenti stessi...
Chissà, forse qualche studente arrivato da fuori Tokyo, dalla campagna…o forse qualche venditore di questi dolci di patate che si trovava nei pressi di qualche prestigiosa Università come la Tokyo Daigaku, detta “familiarmente” Todai, o di quella di Waseda…difficile saperlo…rimane il fatto però che questo semplice e delizioso modo di cucinare le patate dolci, del tipo Satsuma Imo, è oggi conosciuto da tutti come Daigaku Imo, le patate dell’Università!
E quindi ecco la ricetta di questo dolce, specificando (per l’angolo degli ingredienti!) che il tipo di patata utilizzata, appunto la dolce Satsuma Imo che vedrete nelle foto, rossa e leggermente “a punta” verso le estremità, è reperibile anche qui in Italia, magari non dal fruttivendolo sotto casa, forse cercando un po’ oltre che nei soliti market orientali anche nei grandi mercati. Queste che abbiamo trovato sono leggermente diverse da quelle che si trovano in Giappone…un po’ più sull’arancione all’interno che bianco-gialle…ma vanno benissimo comunque!
 
Link (con la ricetta): http://www.corriereasia.com/ricette/cucina-giapponese/daigaku-imo-patate-dolci


 
 
L'assedio di Tsingtao fu l'attacco condotto contro il porto di Tsingtao (traslitterato oggi ufficialmente dai cinesi col sistema piyin come Quingdao, in tedesco il nome della città è Tsingtau), che era sotto controllo germanico, da parte delle forze armate degli imperi britannico e giapponese nelle prime fasi della prima guerra mondiale. La battaglia, che ebbe luogo tra il 31 ottobre ed il 7 novembre del 1914, si concluse con la vittoria alleata. Si trattò della prima operazione anglo-giapponese e del primo scontro tra le forze tedesche e giapponesi durante la prima guerra mondiale. Per altri dettagli, v. Wikipedia
  
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