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Autore: inibizione    16/07/2014    2 recensioni
Che potresti anche strappare il biglietto e cambiare destinazione, sceglierla a caso e puntare il dito su un altro monitor ma se gli occhi sono sempre quelli a che serve?
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Fotografie stracciate'
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Aeroporti

 

 

  

Da bambina viaggiavo spesso assieme alla mia famiglia. A distanza di anni posso affermare con quasi assoluta certezza che gli architetti e gli ingegneri di tutto il mondo, quando hanno tra le mani il progetto di un nuovo aeroporto, sono capaci di costruire una delle strutture più incredibili, confortevoli e tristi dell’universo. Sembra che facciano a gara a chi riesce a mostrare meglio entrambe le facce della stessa medaglia, rendere gli spazi allegri e vivaci per colmare gli occhi vuoti della gente e li riempiono di cose da fare e gente che deve occuparsi di tutto per ammortizzare le malinconie laconiche di alcuni passeggeri.

L’aeroporto di Madrid, ad esempio, è un drappo di legno chiaro che si srotola su colonne di varia lunghezza, di diverso colore, un’onda dalle sfumature accese e brillanti. Quello di Roma ha i bus che portano i passeggeri da un terminal all’altro, dalla macchina all’aereo, dal passato al futuro. I negozi sono sempre vuoti eppure si sente il battito degli scontrini e gli spruzzi di profumi costosi a corridoi di distanza, la gente mangia, la gente ride, si guarda intorno, fa i biglietti, parte, ritorna.

Gli aeroporti sono uno snodo di partenze-ritorni e torno-sparisco, una bolla d’acqua piena di neve candida che volteggia in aria e poi atterra un po’ a casaccio, mai nello stesso punto. Ci sono le braccia fredde d’aria condizionata e la pelle d’oca nelle felpe tirate a caso dalle valigie chiuse e l’ansia di aver dimenticato sempre qualcosa, il gas, le luci accese, il passaporto, un affetto. Le valigie appena comprate, quelle rigide e lucide, i lucchetti storti e le chiavi in tasca, i borsoni e gli zaini di stoffa scritti a penna, con i bordi sfilacciati ma guai a chi li butta, i monitor che cambiano, gli imprevisti in pixel arancioni che ti lampeggiano di fronte, ritardi e addii mancati per un soffio, la sofferenza delle attese dilatate. E turisti e macchine fotografiche, l’allegria dei viaggi di piacere e le vacanze estive, chi parte per l’erasmus e i cervelli all’estero che tornano in famiglia per il Natale. E poi le facce di quelli che affrontano gli esodi come cavalieri con l’armatura grigia un po’ storta e l’elmo bruciacchiato, con gli occhi immobili e i libri tra le mani, i passaporti nuovi di stampa, le carte d’imbarco in mezzo, nascoste perché è meglio se non ci pensi.

Un aeroporto è la metafora perfetta della presa di coscienza e la scelta che ne consegue: l’ansia di arrivare al nodo della questione, cerca il banco, rilassare i muscoli e sorridere che va tutto bene, passa le valigie sul nastrosorridi all’hostesprendi il biglietto, la paura del giudizio, passa sotto il metal detector e la depressione del dopo, lo sguardo malinconico agli aerei in partenza, le gocce d’acqua sulle finestre, i caffe annacquati, la patina di apatia tipica di certe partenze, le borse vuote e i telefoni spenti e gli occhi grigi di chi sta nel mezzo, in un non-dove, gli occhi grigi di tempesta, passata, in arrivo, temporanea. Che potresti anche strappare il biglietto e cambiare destinazione, sceglierla a caso e puntare il dito su un altro monitor ma se gli occhi sono sempre quelli a che serve?

La cosa triste degli aeroporti non sono le partenze, a quelle si sopravvivere e poi esistono le disdette e i ritorni e i treni per i ripensamenti e Skype. La cosa triste sono quelli che trovi rannicchiati e ripiegati ai margini e negli angoli delle poltroncine in attesa di partire e li vedi che fanno a botte, dentro gli occhi, perché farebbero a meno di portare se stessi. Quello è brutto, è deprimente. Sono gli addii non detti, sono quelli che arrivano e non c’è nessuno ad aspettarli, sono gli sbarchi nelle città fantasma e la gente fantasma che le abita, sono gli estraniamenti internazionali soltanto perché mettere distanza serve a spezzare i fili e i rapporti e i percorsi tracciati. O ricominciare, per chi nelle cose a metà ha sempre fatto fatica ad abituarsi e adattarsi al peggio e le cose che cambiano.

Allora si fa a pezzi tutto, si distrugge, si piange un po’ e si prenota il successivo sito archeologico dove erigere le prossime costruzioni attendendo la prossima lava. 

Gli odori di metallo e pelle delle sedie e l’inchiostro sulla carta dei giornali, l’odore di stoffa, a volte, candeggina nei corridoi delle toilette e la gomma delle scale mobili. E poi legno, qualche volta, e uno strano odore sottile che c’è ma non senti, si mischia all’aroma del caffe e al freddo pungente delle porte girevoli per l’ultima sigaretta.

Ho sempre viaggiato, da piccola, con i miei. Viaggio spesso anche adesso, con qualche amico, per lo più da sola e la sensazione è sempre la stessa. E’ una festa itinerante di invitati che non si conoscono e si divertono, si mischiano, vanno via, ti guardano, ti sorridono, ti calpestano i piedi con le ruote dei trolley e sorry, no problem eppure c’è sempre quel brivido di freddo e quegli occhi grigi. Quel paio di mani gelide e quell’espressione assente che qui o altrove è uguale, ma meglio partire che ho l’impressione che posso farmi e rifarmi daccapo, che altrove c’è aria pulita e non profuma di casa e poi casa dov’è?

E io chi sono?

E quella sul passaporto chi è?

Mi somiglia pero che faccia di cazzo, eh?

 

   
 
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