Aeroporti
Da bambina viaggiavo
spesso assieme alla mia famiglia. A distanza di anni posso affermare con quasi
assoluta certezza che gli architetti e gli ingegneri di tutto il mondo, quando
hanno tra le mani il progetto di un nuovo aeroporto, sono capaci di costruire
una delle strutture più incredibili, confortevoli e tristi dell’universo.
Sembra che facciano a gara a chi riesce a mostrare meglio entrambe le facce
della stessa medaglia, rendere gli spazi allegri e vivaci per colmare gli occhi
vuoti della gente e li riempiono di cose da fare e gente che deve occuparsi di
tutto per ammortizzare le malinconie laconiche di alcuni passeggeri.
L’aeroporto di Madrid,
ad esempio, è un drappo di legno chiaro che si srotola su colonne di varia
lunghezza, di diverso colore, un’onda dalle sfumature accese e brillanti.
Quello di Roma ha i bus che portano i passeggeri da un terminal all’altro,
dalla macchina all’aereo, dal passato al futuro. I negozi sono sempre vuoti
eppure si sente il battito degli scontrini e gli spruzzi di profumi costosi a
corridoi di distanza, la gente mangia, la gente ride, si guarda intorno, fa i
biglietti, parte, ritorna.
Gli aeroporti sono uno
snodo di partenze-ritorni e torno-sparisco, una bolla d’acqua piena
di neve candida che volteggia in aria e poi atterra un po’ a casaccio, mai
nello stesso punto. Ci sono le braccia fredde d’aria condizionata e la pelle
d’oca nelle felpe tirate a caso dalle valigie chiuse e l’ansia di aver dimenticato
sempre qualcosa, il gas, le luci accese, il passaporto, un affetto. Le valigie
appena comprate, quelle rigide e lucide, i lucchetti storti e le chiavi in
tasca, i borsoni e gli zaini di stoffa scritti a penna, con i bordi sfilacciati
ma guai a chi li butta, i monitor che cambiano, gli imprevisti in pixel
arancioni che ti lampeggiano di fronte, ritardi e addii mancati per un soffio,
la sofferenza delle attese dilatate. E turisti e macchine fotografiche,
l’allegria dei viaggi di piacere e le vacanze estive, chi parte per l’erasmus e i cervelli all’estero che tornano in
famiglia per il Natale. E poi le facce di quelli che affrontano gli esodi come
cavalieri con l’armatura grigia un po’ storta e l’elmo bruciacchiato, con gli
occhi immobili e i libri tra le mani, i passaporti nuovi di stampa, le carte
d’imbarco in mezzo, nascoste perché è meglio se non ci pensi.
Un aeroporto è la
metafora perfetta della presa di coscienza e la scelta che ne consegue: l’ansia
di arrivare al nodo della questione, cerca il banco, rilassare i
muscoli e sorridere che va tutto bene, passa le valigie sul nastro, sorridi
all’hostes, prendi il biglietto, la
paura del giudizio, passa sotto il metal detector e la
depressione del dopo, lo sguardo malinconico agli aerei in partenza, le gocce
d’acqua sulle finestre, i caffe annacquati, la patina di apatia tipica di certe
partenze, le borse vuote e i telefoni spenti e gli occhi grigi di chi sta nel
mezzo, in un non-dove, gli occhi grigi di tempesta, passata, in arrivo,
temporanea. Che potresti anche strappare il biglietto e cambiare destinazione,
sceglierla a caso e puntare il dito su un altro monitor ma se gli occhi sono
sempre quelli a che serve?
La cosa triste degli
aeroporti non sono le partenze, a quelle si sopravvivere e poi esistono le
disdette e i ritorni e i treni per i ripensamenti e Skype.
La cosa triste sono quelli che trovi rannicchiati e ripiegati ai margini e
negli angoli delle poltroncine in attesa di partire e li vedi che fanno a
botte, dentro gli occhi, perché farebbero a meno di portare se stessi. Quello è
brutto, è deprimente. Sono gli addii non detti, sono quelli che arrivano e non
c’è nessuno ad aspettarli, sono gli sbarchi nelle città fantasma e la gente
fantasma che le abita, sono gli estraniamenti internazionali soltanto perché
mettere distanza serve a spezzare i fili e i rapporti e i percorsi tracciati. O
ricominciare, per chi nelle cose a metà ha sempre fatto fatica ad abituarsi e
adattarsi al peggio e le cose che cambiano.
Allora si fa a pezzi
tutto, si distrugge, si piange un po’ e si prenota il successivo sito archeologico
dove erigere le prossime costruzioni attendendo la prossima lava.
Gli odori di metallo e
pelle delle sedie e l’inchiostro sulla carta dei giornali, l’odore di stoffa, a
volte, candeggina nei corridoi delle toilette e la gomma delle scale mobili. E
poi legno, qualche volta, e uno strano odore sottile che c’è ma non senti, si
mischia all’aroma del caffe e al freddo pungente delle porte girevoli per
l’ultima sigaretta.
Ho sempre viaggiato, da
piccola, con i miei. Viaggio spesso anche adesso, con qualche amico, per lo più
da sola e la sensazione è sempre la stessa. E’ una festa itinerante di invitati
che non si conoscono e si divertono, si mischiano, vanno via, ti guardano, ti
sorridono, ti calpestano i piedi con le ruote dei trolley e sorry, no problem eppure
c’è sempre quel brivido di freddo e quegli occhi grigi. Quel paio di mani
gelide e quell’espressione assente che qui o altrove è uguale, ma meglio partire che ho l’impressione che
posso farmi e rifarmi daccapo, che altrove c’è aria pulita e non profuma di
casa e poi casa dov’è?
E
io chi sono?
E
quella sul passaporto chi è?
Mi
somiglia pero che faccia di cazzo, eh?