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Autore: Atticus 182    17/07/2014    1 recensioni
"L'aria bruciava la pelle, il silenzio teneva con cura tutto il Giacimento nelle sue mani e il dente di leone era appassito."
Questa è la storia vista dalla prospettiva di Primrose, e racconta tutto ciò che succede durante l'assenza di Katniss nella vita di Prim. Ricordi, sensazioni, amori, luce e oscurità.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Primrose Everdeen
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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«Sarà solo uno spreco di risorse, la risposta è no! » Sbraitava Plutarch, in abito grigio fin troppo stretto sulla pancia rotonda. «Vi prego di farmi spiegare le mie motivazio... » Quell’ uomo era un tale cocciuto e la sua segretaria mi guardava con una certa punta di superiorità che mi dava decisamente sui nervi. I miei muscoli erano tesi, ma cercai di pronunciare le parole con tutta la calma possibile. «No, signorina Everdeen. Sono stato molto chiaro riguardo la faccenda. Adesso ci lasci lavorare. » Disse lui stizzito, troncando ogni mia parola. Il silenzio della Coin mi fece sperare. Stava lì, con la mano sotto il mento e l’indice a reggerle il viso, era una donna molto silenziosa, incantevole, ma autoritaria. Intraprendeva scelte ben studiate e decise. Analizzava il complesso della situazione e scrutava ogni dettaglio, evitando di pronunciarsi, limitandosi ad osservare. L’avevo vista in azione durante il bombardamento e nelle volte in cui compariva ai corsi di orientamento. Poche volte ci aveva rivolto la parola, ma non aveva mai usato la sua posizione per farci sentire inferiori a lei. Indifferenza, pura indifferenza e durezza,ecco cosa riuscivo a leggere nei suoi occhi, e mi chiedevo se quella donna fosse davvero fatta di carne e ossa, o se sotto lo strato di pelle ci fossero fili elettrici e materiale metallico collegati a un cuore interamente fatto di ghiaccio. Il suo sguardo continuava a scrutarmi lentamente, fissandomi le pupille, ghiacciandomi ogni millimetro di pelle. Mi chiedevo quando le sue ciglia si sarebbero mosse per far sbattere l’una contro l’altra le palpebre e idratare il bulbo oculare scoperto, che a quel punto sarebbe già dovuto essere secco e bisognoso del contatto con la pelle. Dopo vari minuti di silenzio, le speranze mi abbandonarono e tutta l’energia che mi ero portata dietro scomparì, i miei occhi si rabbuiarono e con le spalle basse stavo per dirigermi alla porta. «Lascia parlare la ragazzina. » Una voce sottile e femminile, e allo stesso tempo dura e ferma, mi fece irrigidire e fermare di colpo. Mi voltai e vidi lo sguardo incredulo e spazientito di Plutarch fissarsi su di me. Una smorfia di impazienza si fece largo sul suo viso, come a dire ‘Dai, sbrigati’. Ero riuscita solo ad esporre la mia idea, prima, quando avevo varcato quella porta. L’idea di portare una ragazzina malata di cancro in visita al Distretto 4, per farle vedere il mare. Quando l’involucro liscio della perla aveva sbattuto contro le mie dita per scivolare sul palmo della mano, avvertii la sabbia sotto le suole delle scarpe e l’immagine delle onde schiumose sbattere sulla riva del mare mi furono di illuminazione. «Ho visitato la paziente appena quattordicenne questa mattina e accusava forti dolori al ventre. L’ho visitata, ma era chiaramente spaventata così ho cercato qualcosa di cui parlare, da quello che ci hanno insegnato ai corsi, ovvero ‘Parlare al paziente in modo confidenziale’. Un ragazzo mi aveva parlato del mare e così le ho riportato le sue parole, sapete al dodici non l’abbiamo mai visto il mare e sicuramente nemmeno qui nessuno è mai riuscito a vederlo, se non in televisione o nei libri di scuola. Mi è sembrata meravigliata e mi ha risposto ‘Grazie’, dopo averle dato una descrizione accurata di questo ‘fenomeno’. Le resta davvero poco tempo e non ha nemmeno iniziato a vivere, il suo cancro le sta risucchiando la vita e poco prima che le prendessero le crisi epilettiche mi ha detto che le piacerebbe vederlo. Non sto chiedendo una completa squadra dei miglior soldati con me, semplicemente un hovercraft con 2 o massimo 3 soldati a guardarci le spalle, che ci porti su una spiaggia» Breve pausa. « 1 ora, le chiedo solo 1 ora. » Indignazione, stupore, un filo di tristezza colorarono il viso roseo e paffuto di Plutarch. «Inoltre... » continuo, ispirata. « ... qualcuno potrebbe filmare un pass-pro con questa ragazzina sulla spiaggia e mostrarlo a Snow, per fargli capire che nonostante tutto noi del tredici sappiamo ancora godere delle piccole cose che ci offre la vita, che nonostante la guerra, la speranza di un futuro migliore risplende ancora nei nostri cuori. » Non so da dove usciva fuori tutta quella audacia da parte mia, forse il carattere intraprendente di mia sorella e di mio padre si era insinuato in me per essere sfoderato in queste occasioni. Volevo che quella ragazza meritasse di piu’ che emanare i suoi ultimi sospiri in un letto dell’anonimo ospedale del Distretto 13, inghiottita da strati di terra e senza aver goduto di qualcosa di così bello. Per tutta la vita eravamo stati privati di ogni cosa bella, di ogni frivolezza, volevo cambiare le cose, con un piccolo gesto come quello. Non sarebbe di certo stato come la forte scintilla che aveva innescato Katniss in tutti i distretti, ma sarebbe bastato a far stare meglio me. Qualcosa stava comparendo sul viso inespressivo della Coin, approvazione, disinteresse forse ? Si guardarono negli occhi per 5 lunghi minuti come se potessero comunicare telepaticamente, come se uno sguardo bastasse a capire l’altro, e a ragionare sull’idea, se potesse andare in porto o se sarebbe stata un vero e proprio fallimento. «Non ci costerebbe nulla, d’altronde. » Pronunciò Plutarch, adesso con tono più calmo e meno severo, ma sempre un po’ scettico. La presidentessa staccò lo sguardo dall’uomo e lo fissò su di me, sembrava invasa da una luce nuova, diversa. Quasi di ammirazione, verso la mia figura, le mie parole. Non capii bene come interpretare quegli occhi spenti di un chiarore prosciugato dall’oscurità, restò il fatto che le parole che pronunciò tradirono la sua espressione cruda e senza sentimenti. «Ottima idea, signorina Everdeen. Richiesta approvata, preparate subito un hovercraft, la partenza avverrà alle prime luci dell’alba di domattina. » Si rivolse ai suoi soldati, che al semplice contatto della sua voce con le loro orecchie, si mossero come comandati da miliardi di fili invisibili legati alle dita della Coin. « Chissà se in futuro potrò mandarla in prima linea a salvare qualche ribelle ferito in guerra, Primrose, giusto? » Mi chiese. Annuii, timidamente. Una nube di soddisfazione mi invase tutto il corpo per ricadere sugli organi come pioggia fresca, un po’ confusa e spaesata dalle sue parole. Ma che importava al momento ? Non ci ragionai su piu’ di tanto. Avevo ottenuto ciò che speravo, ciò che desideravo così ardentemente. La faccenda sarebbe funzionata. E sentii di aver compiuto qualcosa di davvero buono nella mia esistenza. Girai i tacchi e mi fiondai fuori da quella stanza, carica di una strana aria elettrica e soffocante. Emanai un grosso respiro, come se avessi trattenuto aria nei polmoni fino a quel momento e adesso ero libera di respirare a fondo. Responsabilità, determinazione, astuzia. Erano quelle le giuste parole che riuscivo ad affibbiarmi in quel momento. Dopotutto sarei potuta tornare in ospedale col cuore sgonfio da quella preoccupazione. Chissà la ragazzina come avrebbe appreso la notizia, forse si sarebbe messa a ballare per tutta la stanza, forse avrebbe solo risposto con un timido ‘grazie di cuore’, magari mi avrebbe semplicemente chiesto perché fare tutto questo per lei. Durante il mio cammino verso l’ospedale nel corridoio meno frequentato del piano, continuavo a sperare che la notizia del cancro le fosse già stata somministrata dai medici, e che il fardello non fosse stato riversato sulle spalle della neo-dottoressa di turno, ovvero la sottoscritta. Una nuova preoccupazione affiorò nella mia mente, ma non dava fastidio come la precedente. Passai proprio davanti la cucina di Sae e il profumo della fragranza di pane appena sfornato mi attraversò e rilassò i sensi, inebriandomi e avvolgendomi in una sensazione di profonda serenità. Mi fermai a controllare , curiosa, cosa bolliva sui fornelli e scorsi in un angolo della cucina la figura chiara di un ragazzo, ammanettato da manette speciali, che impastava la pasta del pane con movimenti decisi e precisi, morbidi e cauti, in modo da modellarla sotto le dita. Peeta stava seguendo una terapia, pensai. Il filo che teneva unite le sue manette si allungava e accompagnava il movimento delle sue mani per creare magnifiche opere d’arte con il suo pane. Grossi omaccioni erano irti contro le pareti e osservavano ogni suo movimento e spostamento, in modo che se si fosse ferito volontariamente o avesse usato qualcosa per liberarsi, i loro giocattolini appesi alle cinte l’avrebbero steso all’istante. Ma nei suoi occhi potevo vedere l’innocenza di un ragazzino, la purezza della gioventù, l’anima lacerata di un giovane uomo alle prese con i mostri nella sua testa. Ma io sapevo che Peeta, il vero Peeta, il Peeta di Katniss sarebbe rinato dalle sue ceneri, come l’araba fenice dopo essersi spenta.
Riposi in un angolino remoto della mia mente quei pensieri, per far posto all’ansia mista alla gioia del mio ritorno in ospedale e dell’incontro con Caroline. Il tragitto verso quel posto sembrava piu’ lungo del solito, come se una strana sensazione mi dicesse di starne cautamente alla larga. Ma la ignorai, come tutte le brutte sensazioni, come la consapevolezza che potessero dirmi davvero qualcosa. Le mie scarpe scivolavano piano sul pavimento, una calma inaspettata aveva preso possesso dei miei muscoli, irradiandola fino nelle ossa, sciolsi i capelli dalle trecce per farli ricadere sulle scapole fluenti e morbidi. Sentivo di dovermi proteggere le spalle da qualcosa e la massa di capelli che erano appena stati riversati sulla mia schiena mi davano quella protezione che cercavo. Il mio viso era sempre concentrato nella stessa espressione senza emozioni che assumevo nelle ore di lavoro. Entrai dalla porta scorrevole a due ante che portava al Pronto Soccorso, mi diressi verso l’infermiera di turno e le chiesi il numero della stanza. Un brivido di freddo mi percorse la schiena, uno sbuffo d’aria dalla porta era arrivato a sfiorarmi la pelle, ma nei pensieri avevo solo il viso felice della ragazzina. Un suono stridulo invase le pareti, era in atto un Codice Rosso, non me ne curai, c’erano tanti medici che si sarebbero fiondati nella stanza del paziente con arresto cardiaco o chissà che altro, io avevo buone notizie da recapitare.  Accelerai il passo, mossa da un fremito di impazienza. Un gruppo di medici mi superò nel corridoio a passo veloce, i loro camici svolazzanti alleggiarono nell’aria. Vidi il numero della stanza in cui erano scomparsi, lo fissai, cercai di ricordare il numero che mi aveva suggerito l’infermiera, inciso nella mia mente, ricontrollai che fosse esatto, realizzai, troppo lentamente, troppo tardi, con minuti, secondi di ritardo. Un suono netto, freddo, deciso si stagliò nella stanza.

I miei piedi nudi al contatto con l’acqua regalarono una scossa elettrica a tutto il resto del corpo, il profumo inebriante di salsedine si era infilato tra le ciocche dei miei capelli, a creare un intreccio di fili aromatici, il mio profumo mischiato a quello dell’aria di mare. Un raggio di sole mi bruciò la vista, portando la cecità nella mia vita. Un incubo moltiplicato nel vento gelido d’inverno, un veleno corrosivo per il cuore.

«.Ora del decesso 21 e 15 »

Nascosi il mio corpo nell’angolo piu’ remoto di quella stanza che adesso sembrava fin troppo vuota, ripulita del letto e dalle sue apparecchiature. Cercai di comprimere il corpo, conficcandomi le ossa delle ginocchia nel petto e spingendo per rimpicciolire la mia sagoma ancora, e ancora e ancora. Giacevo inerme, trattenendo il respiro, portatomi via insieme al resto delle cose presenti lì. Le mie dita presero a raschiare il suolo, a graffiare, a scavare, sporcando di sangue il pavimento, avrei voluto affondare la testa sotto terra, o magari sprofondare tutta intera. Persi tutta l’aria nei polmoni fino a svenire, allora doveva essere così che ci si sentiva a toccare il fondo, a perdersi nei meandri piu’ oscuri della notte, a sentirsi portare via la vita, ingiustamente, lentamente, troppo sola, troppo presto. 


AUTRICE: E questo  è il tredicesimo capitolo, cari lettori! So che sto aggiornando in fretta, ma che dirvi la mia musa ispiratrice, è piu' ispirata del solito e le idee mi si riversano a fiumi ormai. Spero che con questa nuova piccola storia tra Prim e questa ragazzina vi abbia fatto appassionare ancora un pochino di piu' alla mia FF e spero vi piaccia il modo in cui continuo a mandare avanti la storia. Seguitemi e recensite in tanti. Vorrei fare un ringraziamento a ronald_weasley che ha seguito la mia storia dal principio e continua a recensire e apprezzare la mia storia. Grazie anche a chi mi ha aggiunto tra i preferiti, e chi ha aggiunto anche la storia. Alla prossima! :)
   
 
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