Farblosen.
AU: Ognuno
è destinato a vedere il mondo
in toni di grigio
almeno
finché non si incontra la propria
anima gemella.
Basta che i
due si guardino, perché il
mondo prenda colore.
Ma se uno dei
due muore, l’altro torna a
vedere in bianco e nero.
Chissà quante sono, le
sfumature di grigio che l’occhio umano può
percepire. Era una domanda che mi ponevo spesso, quando ero bambino. Mi
chiedevo perché fossi costretto a vedere il mondo in bianco
e nero, e cosa
volesse dire vedere a colori. La mamma aveva provato più
volte a spiegarmelo,
ma oggi mi rendo conto che mai avrebbe potuto far capire ad un bambino
cosa
voglia dire amare, e vivere senza preoccuparsi troppo del grigiore,
dell’assenza dei colori.
Papà diceva sempre che un giorno sarei riuscito
anch’io, a capire cosa
volesse dire rosso, o blu, o giallo.
Mi spiegò che è da questi tre colori che nascono
tutti gli
altri. Allora gli chiesi di provare a descrivermeli, anche se sapevo
che non
avrei capito. Magari, nell’innocenza di un bambino, ancora ci
speravo. Lui ci
provò comunque: mi disse che il rosso
era il colore del fuoco e dell’amore, il giallo
del sole e della luce, il blu era
il
colore del mare più profondo - anche se, il mare,
né io né lui l’avevamo mai
visto. Ma poi, aggiunse che il suo colore preferito era il verde, perché era il colore
delle foglie degli alberi, e degli
occhi della mamma. Sorrideva, mentre lo diceva.
Mi chiesi, dunque, di colore fossero i miei occhi. Forse erano blu, come il mare che papà
aveva visto
sui libri; o verdi, come quelli di
mamma. Ma lui mi disse che erano grigi. Grigi come le nuvole in
tempesta. Fu in
quel momento che decisi che il grigio non mi sarebbe mai piaciuto.
Credo di averci fatto l’abitudine, con gli anni,
però. A vedere tutto
come se i colori non esistessero. In fondo, è sempre stata
la mia normalità. In
qualche modo, mi sono ritrovato nell’esercito. Lì,
almeno, non serviva
distinguere il bianco dal nero, per essere un buon soldato. E
quando è arrivato il momento di scegliere in quale corpo
arruolarmi, ho scelto
l’Armata Ricognitiva.
Il motivo? Probabilmente, perché è
l’unico dei tre rami del corpo
militare dove si combatte davvero. Andare fuori, trovarsi faccia a
faccia con i
giganti e lottare fino a non avere più fiato in corpo: era
quello che volevo.
Non avrei sprecato la mia vita nella Guarnigione, a guardare uno
stupido muro
fiducioso del fatto che sia indistruttibile, ma aspettando che qualcuno
lo
butti giù solo per potermi rendere utile; e, la Gendarmeria,
tantomeno. Quello
è un posto per codardi, per chi non ha di meglio da fare che
andare a baciare
le scarpe a Sua Maestà solo per la carità di un
pezzo di pane in più – anche
se, devo ammettere, ce ne vuole di coraggio.
Quello che volevo io era diverso. Volevo combattere, e vedere quello
che c’era oltre quello stupido ammasso di mattoni. E scelsi
le ali.
Oggi, sono Capitano. Il soldato
più forte dell’umanità, o
almeno così mi chiama la gente. Credo che la cosa
dovrebbe lusingarmi, ma la verità è che non
m’importa. Affatto. Io faccio solo
il mio lavoro. E non mi sento affatto forte. Ma la gente ha questa
mania di
affibbiare assurdi soprannomi alle cose, e alle persone. Come se mi
conoscessero davvero, come se sapessero chi sono io.
Dopo un po’ ci fai l’abitudine, comunque. Anche
questo fa parte del
lavoro, immagino.
In questi anni mi sono abituato a molte cose, in effetti. Anche a
questo stupido modo di vedere, e al fatto che, probabilmente, non
saprò mai
davvero cosa siano i colori. Ma ora non sono più un bambino.
Non è poi così
importante. Posso vivere anche così. Se non mi serve per
combattere, per
sconfiggere quelle creature, è qualcosa di cui posso fare
tranquillamente a
meno.
O almeno, è quello che ho sempre pensato. Finché
non ho incontrato lei.
Non pensavo che avrei mai trovato qualcuno in grado di cambiare il mio
modo di vedere le cose – e no, non è affatto una
metafora. Petra Ral è l’unica
persona che sia mai riuscita a farmi provare amore.
O almeno, la cosa che più gli si sia mai avvicinata in vita
mia. Perché per l’amore non avevo proprio tempo.
Non ti aiuta a vincere in
battaglia. Ti rende preoccupato, e scostante, e poco attento
– e in guerra
nessuno ne ha bisogno.
Anche se lei la pensava in
maniera diametralmente opposta. Diceva che l’amore era quello
che ti spinge a
lottare fino alla fine, per il bene del proprio caro. Lei era convinta
che
potesse essere uno sprono all’impegno, e alla perseveranza. E
quella
convinzione ardeva nei suoi occhi ambrati come fuoco.
Era
proprio una strana ragazza.
Aveva un modo tutto suo di
vedere il mondo, e in qualche modo, quel
pensiero così lontano e diverso dal mio mi affascinava.
Forse era quello, forse
erano i suoi inusuali capelli – di una sfumatura di grigio
che mai avevo visto
prima, in quel mondo così grigio;
un
colore particolare, forse? – che la rendevano diversa. Unica.
Speciale. Almeno, ai miei occhi. Lo
avevo capito subito. Dal primo istante che l’avevo vista.
Un
misero palco di legno spesso e
resistente era stato montato per l’occasione. Bandiere e
stendardi raffiguranti
le ali della libertà, simbolo ormai noto della Legione
Esplorativa, erano
appese in vari punti. Quello più grande, un’enorme
striscia di stoffa abilmente
tessuta, era sospesa alle spalle del Comandante Erwin Smith, come se
quelle,
una bianca e una blu – per
chi i colori poteva distinguerli,
fossero effettivamente le sue ali. In fondo, lui era
l’incarnazione vivente del
coraggio, e della volontà di continuare a lottare.
Un
evento come quello capitava solo una
volta all’anno, quando le reclute che avevano terminato
l’addestramento si
trovavano a dover scegliere il ramo dell’esercito nel quale
si sarebbero
arruolati per il resto della loro vita. Quella sera, avrebbero deciso
il loro
futuro.
Erwin scrutava la folla, le giacche
tutte uguali, ma ogni volto unico e differenziato. Guardò
gli occhi di quei
ragazzi, e si chiese, come ogni anno, chi di loro avrebbe fatto parte
dell’Armata dal giorno successivo.
“Magari uno di loro potrebbe addirittura
prendere il mio posto.”
Alla sua destra, il Caporal Maggiore
Rivaille; anche lui osservava la folla, forse cercando di celare quella
curiosità che certamente anche lui provava. Esaminava gli
sguardi uno a uno, alla
ricerca dei più coraggiosi, e nobili di cuore. Si poteva
capire dai loro occhi,
quanti sarebbero sopravvissuti là, fuori dalle mura. Alcuni
tenevano la schiena
dritta e il mento alto; altri, erano visibilmente nervosi, quasi
spaventati.
Levi non aveva mai nascosto la sua
preferenza per questi ultimi. Chi ha paura, ha sempre qualcosa per cui
combattere.
Il Caporale continuò a far vagare gli
occhi sulle reclute, mentre Erwin iniziava il suo discorso. Quelle
parole erano
importanti, e dovevano essere soppesate con molta cura: avevano il
compito di
convincere chi non era convinto, e tentare chi non si era neanche posto
il
problema. Ma Erwin Smith non era diventato Comandante per nulla.
“Lui è bravo, a toccare i cuori della
gente.”
E mentre il suo superiore arringava alla
folla, Levi continuava ad osservare i loro volti. Il discorso di Erwin
era
bello perché veritiero: l’Armata Ricognitiva non
prometteva gloria e potere
alle sue reclute – non
avrebbe potuto. Il Comandante parlava di
sangue e lacrime, e fatica, e sudore, perché era la
realtà dei fatti. Quei
ragazzi dovevano sapere a cosa andavano incontro.
Ma
non tutti sembravano apprezzare il
gesto altruistico del Comandante. Alcuni iniziarono ad andarsene,
lasciando
qualche posto vuoto qua e là tra le file ordinate.
«Entrare nella Legione Esplorativa
spesso significa “morire”, è
vero.» Ormai il discorso era in fase di chiusura.
«Ma i nostri soldati muoiono, perché combattono.
Combattono – combattiamo,
finché abbiamo aria nei polmoni. E continueremo a farlo,
fintanto che ci sarà
un nemico da abbattere. Se vorrete essere dei nostri, anche se
consapevoli che
potreste non tornare mai più ai vostri cari, saremo
felici di accogliervi
tra noi. Questo è tutto.»
Levi fece un passo avanti. «Se vorrete
arruolarvi, ottimo. Altrimenti, potete benissimo andarvene. Non capisco
cosa ci
facciate ancora qui.»
Il Caporale era un uomo rude, e diretto,
e proprio per questo le sue parole non mancavano mai di andare a segno.
Molti
soldati lasciarono il proprio posto seduta stante. Altri, stavano
ancora
soppesando le parole dei due pilastri della Legione.
Alla fine, rimasero solo in quattro. Non
erano mai in molti, quelli che avevano il coraggio di accettare la
sfida, e
contribuire alla causa che l’Armata perseguiva, complici non
solo il numero
sempre incredibile di soldati che non rientravano dalle spedizioni, ma
anche i
continui fallimenti delle stesse. Tanti morti per nulla, quale pazzo
avrebbe
accettato di crepare così?
Evidentemente, lì davanti a loro, ce
n’erano quattro. Tre uomini, e una ragazza. Levi li
esaminò uno per uno. Alcuni
di loro li aveva già notati prima, nella calca. Uno di loro
era piccolo,
mingherlino, ma il suo sguardo era fiducioso. L’altro, era il
suo opposto:
alto, ben piazzato, e un po’ meno convinto del compare, ma si
faceva comunque forza
mostrando il petto grosso. Un altro, due file dietro di loro, era
decisamente
più anziano, e sembrava tranquillo e a suo agio anche in
quel tipo di
situazione.
E poi, c’era lei. A
Levi ci
volle un po’, per studiarla bene. Teneva le mani dietro la
schiena, ma da dove
si trovava, il Caporale poteva dire che tremavano leggermente.
Nonostante
questo, il suo sguardo era puntato dritto avanti, fiero e sicuro. La
ragazza
deglutì, e spostò lo sguardo verso il palco.
Verso di lui.
I
loro occhi s’incrociarono, e Levi ne
rimase affascinato. Le sue iridi erano belle, fiere, e brillavano. Levi
le
osservò meglio. Erano color...
Un momento. Il Caporale si guardò
intorno, lasciando che sul suo viso sempre così stoico si
dipingesse per un
attimo un espressione di sorpresa. Non c’era più
solo grigio: ora i suoi occhi
si erano tinti dei colori caldi del fuoco, di quelli scuri del legno, e
dei
toni profondi della notte. In un attimo, capì cosa volessero
dire rosso, e blu, e giallo. Capì cosa volesse dire vedere le cose
per come erano, dipinte e vive
nei loro colori.
Riportò
gli occhi su di lei, ma era
troppo tardi. Petra Ral aveva già distolto lo sguardo.
Da quel giorno, Petra Ral
è entrata nella mia vita come un ciclone.
Quella fiamma che aveva negli occhi la prima volta, non l’ha
perduta mai.
Quando si allenava, quando combatteva usando l’attrezzatura
per il movimento
tridimensionale, persino quando svolgeva le semplici mansioni che le
venivano
assegnate – anche se si trattava di semplici pulizie, lei
aveva sempre quella
motivazione nello sguardo, quell’incredibile coraggio che
splendeva nelle iridi
di miele. Era un tipino assolutamente particolare, senza dubbio.
Ma era certamente anche un ottimo soldato. Quello, fu uno dei motivi
per cui chiesi a Erwin se Petra Ral potesse entrar parte della mia
squadra
speciale. Il tempo di sistemare le carte, ed era sotto la mia
dipendenza. I
membri che già allora ne facevano parte, Erd e Gunther
– uomini di fiducia, la
accolsero a braccia aperte. Continuavano a ringraziarmi, per
chissà quale
ragione. Avevano così
bisogno di una
figura femminile in squadra?
Tutti insieme, eravamo la Squadra Operazioni Speciali, sotto il mio
diretto comando, e della quale facevano parte solo i migliori soldati
dell’esercito. Qualche anno dopo si sarebbe unito anche Aoruo
Bossard, ma questa
è un’altra storia.
I nostri appartamenti erano tutti radunati in un ala del quartier
generale, quindi il contatto era inevitabile. Petra era solita portarmi
il tè,
ogni sera – un’abitudine che non saprei dire
davvero come avesse potuto
acquisire. Ma, non nascondo il fatto che mi facesse abbastanza piacere.
Come ho già detto, non le ero affatto indifferente, ma in
guerra non
c’è tempo per quello. Però, nonostante
questo, non potevo fare a meno di
chiedermi se lei non provasse la stessa cosa. In fondo, era inutile
mentire a
me stesso.
La curiosità, per quanto assolutamente indesiderata, mi
divorava
l’animo come un tarlo fa con il legno. E, la sera prima della
nostra prima
spedizione come squadra, ebbi l’occasione di soddisfarla.
Tutto quello di cui
avevo bisogno, quella sera, era un po’ d’aria
fresca. Non che fossi nervoso –
le spedizioni fuori dalle mura mai mi avevano sortito un tale effetto,
ma per
qualche motivo mi era impossibile dormire. Perciò, decisi
che due passi
nell’aria fresca della notte non mi avrebbero fatto altro che
bene. Il cielo
era scuro, puntellato da miliardi di stelle che, però,
brillavano più
debolmente del solito. Come se volessero esprimere la loro compassione
per quei
soldati che il giorno dopo non avrebbero rivisto la sicurezza del muro,
e che
si stavano godendo la loro ultima notte. Anche se non erano in molti
quelli
abbastanza tranquilli da riuscire a dormire propriamente.
Non mi aspettavo certo che Petra Ral fosse lì,
però, seduta sul
davanzale della grande finestra al piano più alto del
quartier generale, le
gambe sospese nel vuoto e i piedi nudi. Mi presi un attimo per
osservare la sua
schiena, i capelli rossi che le ricadevano sulle spalle esili.
“E’
nervosa”, si disse il Caporal
Maggiore, “lo è sicuramente. In fondo,
è la sua prima spedizione.”
Anche Levi ricordava bene l’agitazione e
i dolori di stomaco della sua prima esperienza fuori dalle mura, ma non
gli
piaceva riportare alla mente quelle sensazioni. Ora, era un soldato
diverso.
Ma capiva bene cosa aveva portato lassù
Petra Ral: la ricerca della pace che solo quel punto particolare del
quartier
generale riesce a darle in una notte come quella. Indossa gli abiti
civili –
una camicia di
lino leggero e dei pantaloni chiari arrotolati fino al ginocchio, e i
capelli
le sfiorano appena le scapole.
Se
li era tagliati, più per comodità che
per altro: quando si era arruolata, li portava molto più
lunghi.
«Ral», la chiamò.
Lei si voltò, sorpresa da quella voce
inaspettata. Ma quando riconobbe i tratti delicati e
l’espressione dura del
Caporal Maggiore, sembrò rilassarsi un po’.
«Signore», rispose, accennando ad un
frettoloso saluto, e aspettandosi probabilmente di essere rimproverata
per
essere uscita dalla sua stanza dopo l’orario prefissato per
il coprifuoco.
Ma lui non la sgridò: si limitò a far
schioccare la lingua, provocando un suono molto simile al suo tipico
“tch”,
prima di raggiungerla sul davanzale e sedersi accanto a lei;
ovviamente, a
debita distanza. Non era esattamente quello che Petra si aspettava da
lui –
quel comportamento
era così inusuale per un uomo come il Caporale! –
ma gli rivolse comunque un sorriso prima di
tornare a guardare il
cielo.
«Lei
è nervoso, Caporale?»
La domanda di lei lo colse di sorpresa – come
qualsiasi
cosa quella ragazza facesse. Era incredibile come lui non riuscisse mai
a
prevedere quello che Petra avrebbe detto, o fatto. Era una ragazza
così…
strana?
«Tsk.
No che non lo sono, Ral.»
Lei lo guardò, l’espressione sul viso
completamente neutra. Probabilmente si aspettava una risposta del
genere dal
soldato più forte dell’umanità.
«Oh», mormorò. «Io invece lo
sono,
eccome. Il solo pensiero di andare là fuori, e mi si attorciglia tutto
lo
stomaco.»
Il risolino nervoso di Petra vibrò,
riempiendo la stanza silenziosa. Levi la guardava, ma lei non
sembrò farci
caso: aveva gli occhi rivolti verso l’alto, verso il cielo
che si perdeva
all’infinito.
«Però sono davvero curiosa di sapere
cosa c’è oltre il muro», aggiunse,
sempre sorridendo. Era bello, il suo
sorriso. «Chissà che c’è, la
di là di quegli alberi?»
Levi seguì la direzione del suo dito,
che indicava debolmente l’orizzonte. Non rispose a quella
domanda, perché
sapeva che non era rivolta a lui. In realtà non era rivolta
a nessuno in
particolare: Petra stava come riflettendo ad alta voce, e Levi non se
la sentì
di interromperla. Lui era una di quelle persone che preferiva ascoltare
in
silenzio.
«Sa perché sono venuta qui stasera,
Caporale?»
Levi scosse il capo.
«Ho pensato che potesse essere l’ultima
occasione che ho per guardare il cielo, e le stelle.
C’è una bellissima luna
stanotte, non sembra anche a lei?»
Ed entrambi rivolsero gli occhi verso la
falce, che splendeva argentea e fiera, gettando riflessi preziosi sulle
onde
calme del laghetto poco lontano.
«Non morirai, domani, Ral.» La voce di
Levi era dura, e quella frase suonava quasi come un ordine. E lui si
chiese se
stesse tentando di rassicurare lei, o se stesso.
Lei si lasciò sfuggire un risolino,
senza distogliere lo sguardo dalla luna. «Preferirei di no,
effettivamente.»
Levi, inaspettatamente, sollevò un
angolo della bocca, nella cosa più vicina ad un sorriso che
si fosse mai
concesso da quando era diventato un militare. Sperò solo che
lei non lo avesse
notato. Poi, ripiombarono nel silenzio.
«Lei li vede i colori, Caporale?»
Quella era l’ultima domanda che Levi si
aspettasse di sentir uscire dalle labbra di Petra Ral. Lo aveva colto
di
sorpresa, ma si ricompose in fretta e annuì con calma. Lei
distolse lo sguardo
dal cielo per puntarlo negli occhi del Caporale – un
gesto
coraggioso che pochi altri avrebbero osato. Levi si sentiva leggermente
a
disagio, ma la lasciò fare. Cercò di mantenere la
sua consueta espressione
indifferente e approfittò della situazione per cogliere ogni
sfumatura delle
iridi di lei. Erano di un bellissimo color miele, con pagliuzze dorate
e
qualche tonalità più scura. Levi pensò
che fossero bellissimi.
«Anche
tu?», le chiese. Ormai era troppo
curioso, ed era l’occasione perfetta.
Ma lei non rispose. Non subito, almeno.
Tornò a guardare il cielo, e Levi le fu quasi grato che
avesse interrotto il
contatto visivo. Così era più facile, per lui,
gestire le sue emozioni.
Lei non lo guardava, ma lui colse il
sorriso sul suo volto. «Sì», disse.
«Li vedo anch’io.» Poi espirò
profondamente, prima di chiedere: «Da quando?»
«Cosa?»
«Lei da quando li vede?», ripeté Petra.
“Da quando ho visto te”, avrebbe voluto
risponderle, ma si trattenne. Si era fatto una promessa.
«Non da molto», disse solo, spostando
anche lui lo sguardo verso l’orizzonte, a seguire quello di
lei. «Tu?»
Lei sorrise, e lui trattenne il fiato,
in attesa di quella risposta. «Nove anni»,
dichiarò. «All’incirca.»
Fu come se qualcosa si fosse rotto,
dentro di lui. A quella macchina perfettamente oliata che era Rivaille,
era
come se si fosse incrinato un ingranaggio. Ma mantenne comunque la sua
solita
calma e non disse nulla.
Lei vedeva i colori da molto prima che
lui entrasse nella sua vita. Lei non lo amava. Lei non aveva bisogno di
lui per
essere felice. “Ma forse è meglio
così”, si disse, forse cercando di
convincersi. “Non avrei potuto darle nulla.”
Era quello che voleva, no? Non aveva
alcuna intenzione di approfondire la sua relazione con Petra Ral.
“L’amore è
una futile distrazione. Ricordi, Levi?”
«Chi è lui?», chiese comunque.
Cercò di
non far trasparire troppo l’interesse che lo aveva spinto a
rompere di nuovo il
silenzio.
«Un soldato», rispose lei,
semplicemente.
Levi sollevò un sopracciglio. «Lo
conosco?»
«Immagino di sì. Fa parte dell’Armata
Ricognitiva.»
Okay. Ora era ancora più confuso di
quanto non lo fosse prima. Lei sembrò accorgersene, e
proseguì tranquillamente
il suo racconto.
«L’ho visto per la prima volta nove anni
fa, durante una parata di rientro da una spedizione della Legione. Era
in sella
al suo cavallo, e sfilava per le strade. Ero in mezzo alla folla, ed
ero solo
una bambina in braccio a suo padre, perciò non credo che mi
abbia notata,
allora. E anche se lo avesse fatto, probabilmente oggi non mi
riconoscerebbe.
Sono cambiata molto da allora.»
Levi ascoltò in silenzio. «Lo hai già
incontrato, da quando ti sei arruolata?», le chiese, quando
lei si fermò per
prendere una pausa. Voleva un nome, un dannatissimo nome. E quando lo
avrebbe
scoperto, qualcuno si sarebbe guadagnato il grande onore di ripulire il
quartier generale da cima a fondo per il resto della sua misera vita.
«Oh, sì. Anzi, si può quasi dire che
abbia scelto questo corpo solo per rivederlo. E, effettivamente, ce
l’ho fatta.
Ormai lo vedo ogni giorno, e questo sarebbe bastato a rendermi felice.
Ma mai
avrei pensato di entrare a far parte della sua squadra speciale. Questo
andava
oltre ogni mia più rosea aspettativa.»
Levi ci mise un po’ ad elaborare
quell’ultima parte della frase. Mano a mano che la
consapevolezza di quelle
parole si faceva largo nel suo cervello, i suoi occhi si dilatavano per
la
sorpresa. I suoi occhi scattarono in direzione di Petra, ma lei si era
già
alzata e stava uscendo dalla stanza. Si voltò appena in
tempo per vedere la sua
schiena sparire oltre la porta, e oltre l’angolo, verso la
sua stanza.
Ovviamente, la spedizione
del giorno dopo fu un fallimento. Come quasi
tutte le spedizioni che l’Armata Ricognitiva intraprendeva,
d’altronde. Ma la
mia squadra tornò a casa tutta intera. Avevamo combattuto
bene, anche se non
avevamo ottenuto i risultati sperati. Tra me e Petra, la situazione era
assolutamente stabile. Ero sicuro che quello della notte precedente non
fosse
stato un sogno – ne ero più che certo, ma lei si
comportava come se nulla fosse
successo, e io seguii ben volentieri il suo esempio. Gliene fui grato.
Era la
cosa migliore per entrambi.
Ogni sera, avrebbe continuato a portarmi il tè –
nero, con appena una
punta di miele – come aveva sempre fatto. E io avrei
continuato a rivolgermi a
lei come “Ral”, e a trattarla come niente di
più di un soldato.
Certo. Ammetto che, in qualche occasione ci siamo lasciati un
po’
andare, ma abbiamo deciso consensualmente che quei piccoli momenti non
si
dovessero trasformare in qualcosa di più grosso. Era
sbagliato anche solo
provarci, e ne eravamo entrambi pienamente coscienti. Se la situazione
fosse
stata diversa, se non ci fossero stati dei giganti da sconfiggere,
là fuori,
forse sarebbe andata in maniera diversa. Forse avrei potuto garantire a
Petra
un futuro, e quella famiglia che tanto sognava in cuor suo.
Dopo quella prima spedizione, ce ne furono molte altre. La Legione
esplorativa continuava a collezionare sconfitte su sconfitte, e a
morire là
fuori erano in molti. Se non fosse stato per l’arruolamento
di soldati come
Mikasa Ackerman o Eren Jaeger, probabilmente molti avrebbero perso la
speranza
e la voglia di combattere. Avere Jaeger dalla nostra, però,
ci faceva sentire
forti e potenti come quei mostri, quasi combattessimo ad armi pari.
Un’altra spedizione fu presto organizzata, e il ragazzo fu
affidato a
me alla mia squadra. Il nostro scopo era proteggerlo a costo della
vita. Jaeger
ha imparato a fidarsi di noi, soprattutto grazie all’aiuto di
Petra. Credo che
quel marmocchio le piacesse, in qualche modo. Lo riempiva di amorevoli
e
materni consigli, e lo aiutava quando non riusciva in qualcosa. Un
comportamento che non approvavo del tutto, ma che sembrava aiutare Eren
a
reagire meglio sul campo di battaglia. Per questo, li ho lasciati fare.
Allora, non avrei saputo spiegarmi quell’improvviso
nervosismo che mi
assalì, la sera prima della spedizione. Non provavo quelle
sensazioni da anni,
da quando ero entrato nell’esercito. Dormii davvero male,
quella notte. Ma la
mattina dopo, ero pronto a combattere e a fare il mio lavoro, come
sempre.
Erwin mi mise al corrente della presenza di un gigante dal
comportamento
bizzarro che era stato avvistato più volte dalla
Guarnigione. Disse che aveva
intenzione di catturarlo, vivo. E che io e la mia squadra avremmo fatto
da
esca. Pensai che fosse una pessima idea, una follia. Gli chiesi se
c’era lo
zampino di Hanji, ma lui mi esortò semplicemente a
rispettare l’ordine.
Gli altri membri della squadra non dovevano sapere, perciò
li guidai
ignari fino alla foresta. Eravamo al centro della formazione, il
più protetti
possibile, ma era la prima spedizione di Jaegar e il marmocchio era
nervoso. Il
momento in cui siamo entrati nel bosco, è l’ultimo
in cui ricordo di essere
stato perfettamente lucido. Poi, l’arrivo del gigante, e
l’aver lasciato i miei
soldati da soli a combattere quel mostro per attuare quello stupido
piano di
cattura e il tentativo di tranquillizzare Eren, è tutto
sfocato nella mia
mente. Ricordo solo che, quando sono tornato a prenderli,
c’era solo sangue. Bagnava
le foglie, l’erba, e le divise dei miei uomini.
Erd, i capelli biondi sporchi e fradici, era stato divorato dalla vita
in giù. Delle sue gambe, non vi era traccia.
Aoruo, il sangue che usciva dalla bocca e dal naso, copioso.
Gunther, appeso inerme al ramo di un albero, lo sguardo vacuo e carico
di puro terrore. Paura di morire, di essere ucciso, di non rivedere
più i
propri cari.
In quel momento, ho solo potuto sperare che lei ce l’avesse
fatta in
qualche modo. Ma lei era lì, il corpo schiacciato contro il
tronco di
quell’albero e la schiena piegata in un angolazione
assolutamente innaturale.
Il suo viso era rivolto verso l’alto, a guardare il cielo
come aveva fatto
quella notte.
Un attimo solo, e tutto era tornato ad essere grigio. I colori erano
scomparsi, facendo sì che gli alberi – come il
resto delle cose che mi
circondavano, tornassero ad essere com’erano quando ero
bambino. Grigie e
incolori.
Ma
forse era meglio così: non avrebbe
sopportato di vedere il sangue, rosso acceso, tingere il viso di lei,
sporcandole i bellissimi capelli ramati e corrompendo la dolcezza di
quelle
iridi splendenti come miele.
Okay: io ci ho provato a
scriverla dal punto di vista di Levi, ma non so quanto possa averlo
reso IC.
Non è esattamente un personaggio facile da gestire. Spero di
non averlo
stravolto troppo, almeno.