Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Umiko_chan    17/07/2014    4 recensioni
«Anche se lei la pensava in maniera diametralmente opposta. Diceva che l’amore era quello che ti spinge a lottare fino alla fine, per il bene del proprio caro. Lei era convinta che potesse essere uno sprono all’impegno, e alla perseveranza. E quella convinzione ardeva nei suoi occhi ambrati come fuoco.
Era proprio una strana ragazza.»
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Petra, Ral
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Farblosen.
AU: Ognuno è destinato a vedere il mondo in toni di grigio
almeno finché non si incontra la propria anima gemella.
Basta che i due si guardino, perché il mondo prenda colore.
Ma se uno dei due muore, l’altro torna a vedere in bianco e nero.

 

 

 

Chissà quante sono, le sfumature di grigio che l’occhio umano può percepire. Era una domanda che mi ponevo spesso, quando ero bambino. Mi chiedevo perché fossi costretto a vedere il mondo in bianco e nero, e cosa volesse dire vedere a colori. La mamma aveva provato più volte a spiegarmelo, ma oggi mi rendo conto che mai avrebbe potuto far capire ad un bambino cosa voglia dire amare, e vivere senza preoccuparsi troppo del grigiore, dell’assenza dei colori.
Papà diceva sempre che un giorno sarei riuscito anch’io, a capire cosa volesse dire rosso, o blu, o giallo. Mi spiegò che è da questi tre colori che nascono tutti gli altri. Allora gli chiesi di provare a descrivermeli, anche se sapevo che non avrei capito. Magari, nell’innocenza di un bambino, ancora ci speravo. Lui ci provò comunque: mi disse che il rosso era il colore del fuoco e dell’amore, il giallo del sole e della luce, il blu era il colore del mare più profondo - anche se, il mare, né io né lui l’avevamo mai visto. Ma poi, aggiunse che il suo colore preferito era il verde, perché era il colore delle foglie degli alberi, e degli occhi della mamma. Sorrideva, mentre lo diceva.
Mi chiesi, dunque, di colore fossero i miei occhi. Forse erano blu, come il mare che papà aveva visto sui libri; o verdi, come quelli di mamma. Ma lui mi disse che erano grigi. Grigi come le nuvole in tempesta. Fu in quel momento che decisi che il grigio non mi sarebbe mai piaciuto.
Credo di averci fatto l’abitudine, con gli anni, però. A vedere tutto come se i colori non esistessero. In fondo, è sempre stata la mia normalità. In qualche modo, mi sono ritrovato nell’esercito. Lì, almeno, non serviva distinguere il bianco dal nero, per essere un buon soldato. E quando è arrivato il momento di scegliere in quale corpo arruolarmi, ho scelto l’Armata Ricognitiva.
Il motivo? Probabilmente, perché è l’unico dei tre rami del corpo militare dove si combatte davvero. Andare fuori, trovarsi faccia a faccia con i giganti e lottare fino a non avere più fiato in corpo: era quello che volevo. Non avrei sprecato la mia vita nella Guarnigione, a guardare uno stupido muro fiducioso del fatto che sia indistruttibile, ma aspettando che qualcuno lo butti giù solo per potermi rendere utile; e, la Gendarmeria, tantomeno. Quello è un posto per codardi, per chi non ha di meglio da fare che andare a baciare le scarpe a Sua Maestà solo per la carità di un pezzo di pane in più – anche se, devo ammettere, ce ne vuole di coraggio.
Quello che volevo io era diverso. Volevo combattere, e vedere quello che c’era oltre quello stupido ammasso di mattoni. E scelsi le ali.
Oggi, sono Capitano. Il soldato più forte dell’umanità, o almeno così mi chiama la gente. Credo che la cosa dovrebbe lusingarmi, ma la verità è che non m’importa. Affatto. Io faccio solo il mio lavoro. E non mi sento affatto forte. Ma la gente ha questa mania di affibbiare assurdi soprannomi alle cose, e alle persone. Come se mi conoscessero davvero, come se sapessero chi sono io.
Dopo un po’ ci fai l’abitudine, comunque. Anche questo fa parte del lavoro, immagino.
In questi anni mi sono abituato a molte cose, in effetti. Anche a questo stupido modo di vedere, e al fatto che, probabilmente, non saprò mai davvero cosa siano i colori. Ma ora non sono più un bambino. Non è poi così importante. Posso vivere anche così. Se non mi serve per combattere, per sconfiggere quelle creature, è qualcosa di cui posso fare tranquillamente a meno.
O almeno, è quello che ho sempre pensato. Finché non ho incontrato lei.
Non pensavo che avrei mai trovato qualcuno in grado di cambiare il mio modo di vedere le cose – e no, non è affatto una metafora. Petra Ral è l’unica persona che sia mai riuscita a farmi provare amore. O almeno, la cosa che più gli si sia mai avvicinata in vita mia. Perché per l’amore non avevo proprio tempo. Non ti aiuta a vincere in battaglia. Ti rende preoccupato, e scostante, e poco attento – e in guerra nessuno ne ha bisogno.
Anche se lei la pensava in maniera diametralmente opposta. Diceva che l’amore era quello che ti spinge a lottare fino alla fine, per il bene del proprio caro. Lei era convinta che potesse essere uno sprono all’impegno, e alla perseveranza. E quella convinzione ardeva nei suoi occhi ambrati come fuoco.

Era proprio una strana ragazza.
Aveva un modo tutto suo di vedere il mondo, e in qualche modo, quel pensiero così lontano e diverso dal mio mi affascinava. Forse era quello, forse erano i suoi inusuali capelli – di una sfumatura di grigio che mai avevo visto prima, in quel mondo così grigio; un colore particolare, forse? – che la rendevano diversa. Unica. Speciale. Almeno, ai miei occhi. Lo avevo capito subito. Dal primo istante che l’avevo vista.

 
Un misero palco di legno spesso e resistente era stato montato per l’occasione. Bandiere e stendardi raffiguranti le ali della libertà, simbolo ormai noto della Legione Esplorativa, erano appese in vari punti. Quello più grande, un’enorme striscia di stoffa abilmente tessuta, era sospesa alle spalle del Comandante Erwin Smith, come se quelle, una bianca e una blu per chi i colori poteva distinguerli, fossero effettivamente le sue ali. In fondo, lui era l’incarnazione vivente del coraggio, e della volontà di continuare a lottare.
Un evento come quello capitava solo una volta all’anno, quando le reclute che avevano terminato l’addestramento si trovavano a dover scegliere il ramo dell’esercito nel quale si sarebbero arruolati per il resto della loro vita. Quella sera, avrebbero deciso il loro futuro.
Erwin scrutava la folla, le giacche tutte uguali, ma ogni volto unico e differenziato. Guardò gli occhi di quei ragazzi, e si chiese, come ogni anno, chi di loro avrebbe fatto parte dell’Armata dal giorno successivo.
“Magari uno di loro potrebbe addirittura prendere il mio posto.”
Alla sua destra, il Caporal Maggiore Rivaille; anche lui osservava la folla, forse cercando di celare quella curiosità che certamente anche lui provava. Esaminava gli sguardi uno a uno, alla ricerca dei più coraggiosi, e nobili di cuore. Si poteva capire dai loro occhi, quanti sarebbero sopravvissuti là, fuori dalle mura. Alcuni tenevano la schiena dritta e il mento alto; altri, erano visibilmente nervosi, quasi spaventati.
Levi non aveva mai nascosto la sua preferenza per questi ultimi. Chi ha paura, ha sempre qualcosa per cui combattere.
Il Caporale continuò a far vagare gli occhi sulle reclute, mentre Erwin iniziava il suo discorso. Quelle parole erano importanti, e dovevano essere soppesate con molta cura: avevano il compito di convincere chi non era convinto, e tentare chi non si era neanche posto il problema. Ma Erwin Smith non era diventato Comandante per nulla.
“Lui è bravo, a toccare i cuori della gente.”
E mentre il suo superiore arringava alla folla, Levi continuava ad osservare i loro volti. Il discorso di Erwin era bello perché veritiero: l’Armata Ricognitiva non prometteva gloria e potere alle sue reclute
non avrebbe potuto. Il Comandante parlava di sangue e lacrime, e fatica, e sudore, perché era la realtà dei fatti. Quei ragazzi dovevano sapere a cosa andavano incontro.
Ma non tutti sembravano apprezzare il gesto altruistico del Comandante. Alcuni iniziarono ad andarsene, lasciando qualche posto vuoto qua e là tra le file ordinate.
«Entrare nella Legione Esplorativa spesso significa “morire”, è vero.» Ormai il discorso era in fase di chiusura. «Ma i nostri soldati muoiono, perché combattono. Combattono
combattiamo, finché abbiamo aria nei polmoni. E continueremo a farlo, fintanto che ci sarà un nemico da abbattere. Se vorrete essere dei nostri, anche se consapevoli che potreste non tornare mai più ai vostri cari, saremo felici di accogliervi tra noi. Questo è tutto.»
Levi fece un passo avanti. «Se vorrete arruolarvi, ottimo. Altrimenti, potete benissimo andarvene. Non capisco cosa ci facciate ancora qui.»
Il Caporale era un uomo rude, e diretto, e proprio per questo le sue parole non mancavano mai di andare a segno. Molti soldati lasciarono il proprio posto seduta stante. Altri, stavano ancora soppesando le parole dei due pilastri della Legione.
Alla fine, rimasero solo in quattro. Non erano mai in molti, quelli che avevano il coraggio di accettare la sfida, e contribuire alla causa che l’Armata perseguiva, complici non solo il numero sempre incredibile di soldati che non rientravano dalle spedizioni, ma anche i continui fallimenti delle stesse. Tanti morti per nulla, quale pazzo avrebbe accettato di crepare così?
Evidentemente, lì davanti a loro, ce n’erano quattro. Tre uomini, e una ragazza. Levi li esaminò uno per uno. Alcuni di loro li aveva già notati prima, nella calca. Uno di loro era piccolo, mingherlino, ma il suo sguardo era fiducioso. L’altro, era il suo opposto: alto, ben piazzato, e un po’ meno convinto del compare, ma si faceva comunque forza mostrando il petto grosso. Un altro, due file dietro di loro, era decisamente più anziano, e sembrava tranquillo e a suo agio anche in quel tipo di situazione.
E poi, c’era
lei. A Levi ci volle un po’, per studiarla bene. Teneva le mani dietro la schiena, ma da dove si trovava, il Caporale poteva dire che tremavano leggermente. Nonostante questo, il suo sguardo era puntato dritto avanti, fiero e sicuro. La ragazza deglutì, e spostò lo sguardo verso il palco. Verso di lui.
I loro occhi s’incrociarono, e Levi ne rimase affascinato. Le sue iridi erano belle, fiere, e brillavano. Levi le osservò meglio. Erano color...
Un momento. Il Caporale si guardò intorno, lasciando che sul suo viso sempre così stoico si dipingesse per un attimo un espressione di sorpresa. Non c’era più solo grigio: ora i suoi occhi si erano tinti dei colori caldi del fuoco, di quelli scuri del legno, e dei toni profondi della notte. In un attimo, capì cosa volessero dire
rosso, e blu, e giallo. Capì cosa volesse dire vedere le cose per come erano, dipinte e vive nei loro colori.
Riportò gli occhi su di lei, ma era troppo tardi. Petra Ral aveva già distolto lo sguardo.

 
Da quel giorno, Petra Ral è entrata nella mia vita come un ciclone. Quella fiamma che aveva negli occhi la prima volta, non l’ha perduta mai. Quando si allenava, quando combatteva usando l’attrezzatura per il movimento tridimensionale, persino quando svolgeva le semplici mansioni che le venivano assegnate – anche se si trattava di semplici pulizie, lei aveva sempre quella motivazione nello sguardo, quell’incredibile coraggio che splendeva nelle iridi di miele. Era un tipino assolutamente particolare, senza dubbio.
Ma era certamente anche un ottimo soldato. Quello, fu uno dei motivi per cui chiesi a Erwin se Petra Ral potesse entrar parte della mia squadra speciale. Il tempo di sistemare le carte, ed era sotto la mia dipendenza. I membri che già allora ne facevano parte, Erd e Gunther – uomini di fiducia, la accolsero a braccia aperte. Continuavano a ringraziarmi, per chissà quale ragione. Avevano così bisogno di una figura femminile in squadra?
Tutti insieme, eravamo la Squadra Operazioni Speciali, sotto il mio diretto comando, e della quale facevano parte solo i migliori soldati dell’esercito. Qualche anno dopo si sarebbe unito anche Aoruo Bossard, ma questa è un’altra storia.
I nostri appartamenti erano tutti radunati in un ala del quartier generale, quindi il contatto era inevitabile. Petra era solita portarmi il tè, ogni sera – un’abitudine che non saprei dire davvero come avesse potuto acquisire. Ma, non nascondo il fatto che mi facesse abbastanza piacere.
Come ho già detto, non le ero affatto indifferente, ma in guerra non c’è tempo per quello. Però, nonostante questo, non potevo fare a meno di chiedermi se lei non provasse la stessa cosa. In fondo, era inutile mentire a me stesso.
La curiosità, per quanto assolutamente indesiderata, mi divorava l’animo come un tarlo fa con il legno. E, la sera prima della nostra prima spedizione come squadra, ebbi l’occasione di soddisfarla. Tutto quello di cui avevo bisogno, quella sera, era un po’ d’aria fresca. Non che fossi nervoso – le spedizioni fuori dalle mura mai mi avevano sortito un tale effetto, ma per qualche motivo mi era impossibile dormire. Perciò, decisi che due passi nell’aria fresca della notte non mi avrebbero fatto altro che bene. Il cielo era scuro, puntellato da miliardi di stelle che, però, brillavano più debolmente del solito. Come se volessero esprimere la loro compassione per quei soldati che il giorno dopo non avrebbero rivisto la sicurezza del muro, e che si stavano godendo la loro ultima notte. Anche se non erano in molti quelli abbastanza tranquilli da riuscire a dormire propriamente.
Non mi aspettavo certo che Petra Ral fosse lì, però, seduta sul davanzale della grande finestra al piano più alto del quartier generale, le gambe sospese nel vuoto e i piedi nudi. Mi presi un attimo per osservare la sua schiena, i capelli rossi che le ricadevano sulle spalle esili.

 
“E’ nervosa”, si disse il Caporal Maggiore, “lo è sicuramente. In fondo, è la sua prima spedizione.”
Anche Levi ricordava bene l’agitazione e i dolori di stomaco della sua prima esperienza fuori dalle mura, ma non gli piaceva riportare alla mente quelle sensazioni. Ora, era un soldato diverso.
Ma capiva bene cosa aveva portato lassù Petra Ral: la ricerca della pace che solo quel punto particolare del quartier generale riesce a darle in una notte come quella. Indossa gli abiti civili
una camicia di lino leggero e dei pantaloni chiari arrotolati fino al ginocchio, e i capelli le sfiorano appena le scapole.
Se li era tagliati, più per comodità che per altro: quando si era arruolata, li portava molto più lunghi.
«Ral», la chiamò.
Lei si voltò, sorpresa da quella voce inaspettata. Ma quando riconobbe i tratti delicati e l’espressione dura del Caporal Maggiore, sembrò rilassarsi un po’.
«Signore», rispose, accennando ad un frettoloso saluto, e aspettandosi probabilmente di essere rimproverata per essere uscita dalla sua stanza dopo l’orario prefissato per il coprifuoco.
Ma lui non la sgridò: si limitò a far schioccare la lingua, provocando un suono molto simile al suo tipico “tch”, prima di raggiungerla sul davanzale e sedersi accanto a lei; ovviamente, a debita distanza. Non era esattamente quello che Petra si aspettava da lui
quel comportamento era così inusuale per un uomo come il Caporale! ma gli rivolse comunque un sorriso prima di tornare a guardare il cielo.
«Lei è nervoso, Caporale?»
La domanda di lei lo colse di sorpresa
come qualsiasi cosa quella ragazza facesse. Era incredibile come lui non riuscisse mai a prevedere quello che Petra avrebbe detto, o fatto. Era una ragazza così… strana?
«Tsk. No che non lo sono, Ral.»
Lei lo guardò, l’espressione sul viso completamente neutra. Probabilmente si aspettava una risposta del genere dal soldato più forte dell’umanità.
«Oh», mormorò. «Io invece lo sono, eccome. Il solo pensiero di andare là fuori, e mi si attorciglia tutto lo stomaco.»
Il risolino nervoso di Petra vibrò, riempiendo la stanza silenziosa. Levi la guardava, ma lei non sembrò farci caso: aveva gli occhi rivolti verso l’alto, verso il cielo che si perdeva all’infinito.
«Però sono davvero curiosa di sapere cosa c’è oltre il muro», aggiunse, sempre sorridendo. Era bello, il suo sorriso. «Chissà che c’è, la di là di quegli alberi?»
Levi seguì la direzione del suo dito, che indicava debolmente l’orizzonte. Non rispose a quella domanda, perché sapeva che non era rivolta a lui. In realtà non era rivolta a nessuno in particolare: Petra stava come riflettendo ad alta voce, e Levi non se la sentì di interromperla. Lui era una di quelle persone che preferiva ascoltare in silenzio.
«Sa perché sono venuta qui stasera, Caporale?»
Levi scosse il capo.
«Ho pensato che potesse essere l’ultima occasione che ho per guardare il cielo, e le stelle. C’è una bellissima luna stanotte, non sembra anche a lei?»
Ed entrambi rivolsero gli occhi verso la falce, che splendeva argentea e fiera, gettando riflessi preziosi sulle onde calme del laghetto poco lontano.
«Non morirai, domani, Ral.» La voce di Levi era dura, e quella frase suonava quasi come un ordine. E lui si chiese se stesse tentando di rassicurare lei, o se stesso.
Lei si lasciò sfuggire un risolino, senza distogliere lo sguardo dalla luna. «Preferirei di no, effettivamente.»
Levi, inaspettatamente, sollevò un angolo della bocca, nella cosa più vicina ad un sorriso che si fosse mai concesso da quando era diventato un militare. Sperò solo che lei non lo avesse notato. Poi, ripiombarono nel silenzio.
«Lei li vede i colori, Caporale?»
Quella era l’ultima domanda che Levi si aspettasse di sentir uscire dalle labbra di Petra Ral. Lo aveva colto di sorpresa, ma si ricompose in fretta e annuì con calma. Lei distolse lo sguardo dal cielo per puntarlo negli occhi del Caporale
un gesto coraggioso che pochi altri avrebbero osato. Levi si sentiva leggermente a disagio, ma la lasciò fare. Cercò di mantenere la sua consueta espressione indifferente e approfittò della situazione per cogliere ogni sfumatura delle iridi di lei. Erano di un bellissimo color miele, con pagliuzze dorate e qualche tonalità più scura. Levi pensò che fossero bellissimi.
«Anche tu?», le chiese. Ormai era troppo curioso, ed era l’occasione perfetta.
Ma lei non rispose. Non subito, almeno. Tornò a guardare il cielo, e Levi le fu quasi grato che avesse interrotto il contatto visivo. Così era più facile, per lui, gestire le sue emozioni.
Lei non lo guardava, ma lui colse il sorriso sul suo volto. «Sì», disse. «Li vedo anch’io.» Poi espirò profondamente, prima di chiedere: «Da quando?»
«Cosa?»
«Lei da quando li vede?», ripeté Petra.
“Da quando ho visto te”, avrebbe voluto risponderle, ma si trattenne. Si era fatto una promessa.
«Non da molto», disse solo, spostando anche lui lo sguardo verso l’orizzonte, a seguire quello di lei. «Tu?»
Lei sorrise, e lui trattenne il fiato, in attesa di quella risposta. «Nove anni», dichiarò. «All’incirca.»
Fu come se qualcosa si fosse rotto, dentro di lui. A quella macchina perfettamente oliata che era Rivaille, era come se si fosse incrinato un ingranaggio. Ma mantenne comunque la sua solita calma e non disse nulla.
Lei vedeva i colori da molto prima che lui entrasse nella sua vita. Lei non lo amava. Lei non aveva bisogno di lui per essere felice. “Ma forse è meglio così”, si disse, forse cercando di convincersi. “Non avrei potuto darle nulla.”
Era quello che voleva, no? Non aveva alcuna intenzione di approfondire la sua relazione con Petra Ral. “L’amore è una futile distrazione. Ricordi, Levi?”
«Chi è lui?», chiese comunque. Cercò di non far trasparire troppo l’interesse che lo aveva spinto a rompere di nuovo il silenzio.
«Un soldato», rispose lei, semplicemente.
Levi sollevò un sopracciglio. «Lo conosco?»
«Immagino di sì. Fa parte dell’Armata Ricognitiva.»
Okay. Ora era ancora più confuso di quanto non lo fosse prima. Lei sembrò accorgersene, e proseguì tranquillamente il suo racconto.
«L’ho visto per la prima volta nove anni fa, durante una parata di rientro da una spedizione della Legione. Era in sella al suo cavallo, e sfilava per le strade. Ero in mezzo alla folla, ed ero solo una bambina in braccio a suo padre, perciò non credo che mi abbia notata, allora. E anche se lo avesse fatto, probabilmente oggi non mi riconoscerebbe. Sono cambiata molto da allora.»
Levi ascoltò in silenzio. «Lo hai già incontrato, da quando ti sei arruolata?», le chiese, quando lei si fermò per prendere una pausa. Voleva un nome, un dannatissimo nome. E quando lo avrebbe scoperto, qualcuno si sarebbe guadagnato il grande onore di ripulire il quartier generale da cima a fondo per il resto della sua misera vita.
«Oh, sì. Anzi, si può quasi dire che abbia scelto questo corpo solo per rivederlo. E, effettivamente, ce l’ho fatta. Ormai lo vedo ogni giorno, e questo sarebbe bastato a rendermi felice. Ma mai avrei pensato di entrare a far parte della sua squadra speciale. Questo andava oltre ogni mia più rosea aspettativa.»
Levi ci mise un po’ ad elaborare quell’ultima parte della frase. Mano a mano che la consapevolezza di quelle parole si faceva largo nel suo cervello, i suoi occhi si dilatavano per la sorpresa. I suoi occhi scattarono in direzione di Petra, ma lei si era già alzata e stava uscendo dalla stanza. Si voltò appena in tempo per vedere la sua schiena sparire oltre la porta, e oltre l’angolo, verso la sua stanza.

 
Ovviamente, la spedizione del giorno dopo fu un fallimento. Come quasi tutte le spedizioni che l’Armata Ricognitiva intraprendeva, d’altronde. Ma la mia squadra tornò a casa tutta intera. Avevamo combattuto bene, anche se non avevamo ottenuto i risultati sperati. Tra me e Petra, la situazione era assolutamente stabile. Ero sicuro che quello della notte precedente non fosse stato un sogno – ne ero più che certo, ma lei si comportava come se nulla fosse successo, e io seguii ben volentieri il suo esempio. Gliene fui grato. Era la cosa migliore per entrambi.
Ogni sera, avrebbe continuato a portarmi il tè – nero, con appena una punta di miele – come aveva sempre fatto. E io avrei continuato a rivolgermi a lei come “Ral”, e a trattarla come niente di più di un soldato.
Certo. Ammetto che, in qualche occasione ci siamo lasciati un po’ andare, ma abbiamo deciso consensualmente che quei piccoli momenti non si dovessero trasformare in qualcosa di più grosso. Era sbagliato anche solo provarci, e ne eravamo entrambi pienamente coscienti. Se la situazione fosse stata diversa, se non ci fossero stati dei giganti da sconfiggere, là fuori, forse sarebbe andata in maniera diversa. Forse avrei potuto garantire a Petra un futuro, e quella famiglia che tanto sognava in cuor suo.
Dopo quella prima spedizione, ce ne furono molte altre. La Legione esplorativa continuava a collezionare sconfitte su sconfitte, e a morire là fuori erano in molti. Se non fosse stato per l’arruolamento di soldati come Mikasa Ackerman o Eren Jaeger, probabilmente molti avrebbero perso la speranza e la voglia di combattere. Avere Jaeger dalla nostra, però, ci faceva sentire forti e potenti come quei mostri, quasi combattessimo ad armi pari.
Un’altra spedizione fu presto organizzata, e il ragazzo fu affidato a me alla mia squadra. Il nostro scopo era proteggerlo a costo della vita. Jaeger ha imparato a fidarsi di noi, soprattutto grazie all’aiuto di Petra. Credo che quel marmocchio le piacesse, in qualche modo. Lo riempiva di amorevoli e materni consigli, e lo aiutava quando non riusciva in qualcosa. Un comportamento che non approvavo del tutto, ma che sembrava aiutare Eren a reagire meglio sul campo di battaglia. Per questo, li ho lasciati fare.
Allora, non avrei saputo spiegarmi quell’improvviso nervosismo che mi assalì, la sera prima della spedizione. Non provavo quelle sensazioni da anni, da quando ero entrato nell’esercito. Dormii davvero male, quella notte. Ma la mattina dopo, ero pronto a combattere e a fare il mio lavoro, come sempre. Erwin mi mise al corrente della presenza di un gigante dal comportamento bizzarro che era stato avvistato più volte dalla Guarnigione. Disse che aveva intenzione di catturarlo, vivo. E che io e la mia squadra avremmo fatto da esca. Pensai che fosse una pessima idea, una follia. Gli chiesi se c’era lo zampino di Hanji, ma lui mi esortò semplicemente a rispettare l’ordine.
Gli altri membri della squadra non dovevano sapere, perciò li guidai ignari fino alla foresta. Eravamo al centro della formazione, il più protetti possibile, ma era la prima spedizione di Jaegar e il marmocchio era nervoso. Il momento in cui siamo entrati nel bosco, è l’ultimo in cui ricordo di essere stato perfettamente lucido. Poi, l’arrivo del gigante, e l’aver lasciato i miei soldati da soli a combattere quel mostro per attuare quello stupido piano di cattura e il tentativo di tranquillizzare Eren, è tutto sfocato nella mia mente. Ricordo solo che, quando sono tornato a prenderli, c’era solo sangue. Bagnava le foglie, l’erba, e le divise dei miei uomini.
Erd, i capelli biondi sporchi e fradici, era stato divorato dalla vita in giù. Delle sue gambe, non vi era traccia.
Aoruo, il sangue che usciva dalla bocca e dal naso, copioso.
Gunther, appeso inerme al ramo di un albero, lo sguardo vacuo e carico di puro terrore. Paura di morire, di essere ucciso, di non rivedere più i propri cari.
In quel momento, ho solo potuto sperare che lei ce l’avesse fatta in qualche modo. Ma lei era lì, il corpo schiacciato contro il tronco di quell’albero e la schiena piegata in un angolazione assolutamente innaturale. Il suo viso era rivolto verso l’alto, a guardare il cielo come aveva fatto quella notte.
Un attimo solo, e tutto era tornato ad essere grigio. I colori erano scomparsi, facendo sì che gli alberi – come il resto delle cose che mi circondavano, tornassero ad essere com’erano quando ero bambino. Grigie e incolori.

 
Ma forse era meglio così: non avrebbe sopportato di vedere il sangue, rosso acceso, tingere il viso di lei, sporcandole i bellissimi capelli ramati e corrompendo la dolcezza di quelle iridi splendenti come miele.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note autrice.   Finalmente ce l’ho fatta! Sono mesi che avevo intenzione di scrivere questa one-shot, e sono contenta, dopo tanto lavoro di averla finita in tempo per pubblicarla oggi. Mi dispiace non aver potuto scrivere nulla per la Rivetra Week, ma ho un sacco di storie per le mani, e non ne ho avuto occasione. Ma, per rimediare, pubblico questa oggi, visto che secondo il programma doveva essere la giornata degli AU.
Okay: io ci ho provato a scriverla dal punto di vista di Levi, ma non so quanto possa averlo reso IC. Non è esattamente un personaggio facile da gestire. Spero di non averlo stravolto troppo, almeno.

[Il titolo, “Farblosen”, è una parola tedesca che può essere tradotta come ‘incolore’.]

   
 
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