Una piccola formica si
arrampicò agile lungo il bordo della mensola, e raggiunto il ripiano si
avvicinò, furtiva ed affamata, alle due grosse fette di pancetta poggiate su di
un piatto.
Maryon gliele
portò via un attimo prima che potesse raggiungerle, ponendole sulla padella
sfrigolante e aprendovi subito sopra una coppia di uova recuperate dal frigo.
Tutto
attorno, l’appartamento era ancora un trionfo di scatole e casse da sballare;
era stato tirato fuori solo l’essenziale: le posate, le stoviglie, qualche
suppellettile e il proiettore televisivo, in quel momento acceso sull’edizione
delle otto della CNN.
Stava
finendo di rosolare il tutto, quando avvertì da un istante all’altro una figura
alle sue spalle, e prima che potesse rendersene conto una mano le cinse il
ventre all’altezza dell’ombelico, un’altra invece le scivolò sugli occhi.
«Kingsey, non fare il bambino!» rise tirando piccole
gomitate a casaccio sperando di fare centro.
Kingsey Walcott, King per gli amici, capelli biondo paglierino
tagliati quasi a caschetto, occhi lunghi e scuri e fisico prestante, si scostò rapidamente per evitare i
colpi, non rinunciando però a tenere stretta a sé la sua donna preferita,
l’unica tra le molte che aveva conquistato con il suo charme da giovane e
spregiudicato soldato che era stata capace di fare la stessa cosa con lui.
Si erano
conosciuti appena tre anni prima, ma il sentimento era sbocciato subito, tanto
che Kingsey era riuscito a vincere in poco tempo le
resistenze dei genitori di lei, persone perbene ma dalle idee un po’ antiquate,
strappando loro prima il consenso a poter frequentare la loro adoratissima figlia poi quello, assai più ardito, di costruire
la loro nuova vita insieme, in quel piccolo appartamento che il giovane era
riuscito a comprare con sangue e sudore quale prova di buona volontà e
dedizione.
Il padre
di Maryon non aveva fatto i salti di gioia nel sapere
che il fidanzato della figlia fosse un membro dell’Agenzia, e per poco non gli
era venuto un colpo quando Kingsey, come un figlio
disubbidiente, gli aveva confessato di far parte della Tactical
Magician Division. La
stessa Maryon d’altra parte non aveva nascosto il
proprio stupore, per non dire il proprio timore, quando il nuovo fidanzato le
aveva fatto questa ammissione, poiché sapeva come chiunque altro quanto fosse
pericolosa la vita di un TMD.
Ma per
il momento, questo non le importava. Tutto quello che voleva era stare assieme
a lui.
Si
baciarono, perdendosi in un tenero abbraccio, e dopo poco si sedettero a tavola
per consumare la loro veloce colazione.
«Hai un
appuntamento?» domandò ad un certo punto Kingsey
vedendo che la compagna seguitava a guardare l’orologio affisso alla parete
«Mi
stanno aspettando in un posto, e non vorrei fare tardi.»
«Un
altro colloquio di lavoro?»
«Più o
meno» rispose lei con un sorriso sbarazzino.
Vivere
in una grande città come Kyrador non era per niente facile né economico, e
anche se teoricamente lo stipendio da TMD del giovane Walcott
era più che sufficiente a condurre una vita decorosa, fin dal giorno in cui
avevano iniziato a pianificare il proprio futuro insieme, Maryon si era immediatamente messa alla ricerca di un impiego,
fino a quel momento senza molta fortuna.
La
goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata quando Kingsey
si era visto costretto a fare alcune ore di straordinario per venire incontro ad
una spesa imprevista quando si erano accorti che il sistema energetico della
casa, a prima vista impeccabile, aveva richiesto invece una profonda
manutenzione; e anche se Maryon sapeva quanto Kingsey amasse il proprio lavoro svolgendolo con prudenza, ogni volta le prendeva un colpo al cuore
quando sentiva alla televisione di questo o quell’incidente magico, ben sapendo
che tra le persone chiamate a risolvere il problema poteva esserci proprio il
suo compagno.
Per il
momento, però, quella era l’unica soluzione, e Maryon
lo sapeva bene; senza ulteriori entrate, con una casa da arredare e una vita di
coppia da costruire, era impensabile che Kingsey
potesse rinunciare al suo lauto stipendio, che se non altro era in linea con i
rischi che il suo lavoro lo costringeva a prendersi.
«Se va
tutto bene, questa sera ti farò una sorpresa» disse la giovane a colazione
finita sparecchiando la tavola.
«E che
genere di sorpresa?» domandò lui tirandola a sé prima che potesse allontanarsi.
«Non
essere curioso. Lo saprai a tempo debito».
Anche Kingsey aveva una sorpresa, ma a differenza della compagna
non aveva la forza di tenergliela segreta fino a sera.
Maryon non
era mai stata una ragazza frivola e spendacciona, al contrario, ma di fronte ad
una collanina con un pendente a forma di ali che faceva bella mostra di sé
nella vetrina di una gioielleria del centro i suoi occhi si erano accesi come
stelle; Kingsey se n’era accorto, anche se lei aveva
cercato di nasconderlo, e mettendo da parte ogni singolo centesimo che gli era
stato possibile racimolare era infine riuscito ad acquistarla.
La
ragazza quasi non riuscì a crederci quando, sollevando la tovaglia, vide quello
stupendo monile comparirle dinnanzi agl’occhi in tutta la sua raffinata
bellezza.
«Ma… sei diventato matto?» domandò senza eccessiva convinzione,
più mortificata che arrabbiata. «Non possiamo permettercelo.»
«Stai
tranquilla» le sussurrò lui raccogliendolo e mettendoglielo dolcemente al
collo. «Il gioielliere aveva un piccolo arretrato con le tasse. Gli ho fatto
uno sconto, e lui lo ha fatto a me. E poi,
ho visto come lo guardavi».
Maryon tentò
di dissimulare, ma la verità era che era troppo felice; non tanto per il
regalo, che per quanto gradito non era comunque indispensabile, quanto
piuttosto per la generosità e il buon cuore del compagno, che non perdeva
occasione per tentare di renderla felice.
«Sei
bellissima» disse scambiando con lei uno sguardo amorevole, cui fece seguito un
bacio appassionato. «Ti amo più della mia vita.»
«Grazie,
Kingsey. Averti incontrato è stato il più bel regalo
che la vita avrebbe potuto farmi».
Ma il
tempo correva per tutti e due, e allo scoccare delle otto e mezza fu chiaro per
Kingsey che ormai era ora di andare.
Giusto
il tempo di infilarsi la giacca dell’uniforme, lucidare un attimo i gradi da
Tenente, ed era già sulla porta di casa.
«Ciao,
amore» disse baciando ancora una volta la sua adorata. «Ci vediamo stasera.»
«A stasera.»
Il lavoro di un TMD non
differiva poi molto da quello di un vigile del fuoco.
Si
andava in caserma, si passava il tempo tra allenamenti ed esercitazioni,
intervallate da una piacevole sosta al bar o nella sala relax, attendendo eventuali
chiamate.
In ogni
momento della giornata c’erano a disposizione dalle quattro alle sei squadre
pronte ad intervenire, più altre due di riserva che in caso d’emergenza
fungevano da rinforzo, per un totale di almeno venti effettivi sempre all’erta.
La
maggior parte dei membri del TMD era composta da effettivi dell’Agenzia, ma
c’erano anche parecchi poliziotti e civili che avevano superato l’esame d’ammissione,
e che erano destinati perlopiù a mansioni logistiche. Cadetti e soldati
semplici vivevano in caserma, nei dormitori nella parte sud della sede, mentre
ufficiali, sottufficiali e qualche soldato scelto avevano delle abitazioni
proprie e fuori dal lavoro conducevano un’esistenza qualunque.
Kingsey
apparteneva alla folta schiera dei cosiddetti oriundi, civili che all’accesso al TMD avevano fatto seguire anche
quello nell’Agenzia, sì da garantirsi i gradi militari, un miglior stipendio e
la possibilità di costruirsi una carriera.
Prima di
essere un agente ed un soldato, infatti, Kingsey era
stato un pugile, ma quando lo sport che tanto adorava era pian piano caduto
nell’ombra a vantaggio del più pirotecnico chandra, si era visto
costretto a cercarsi un’altra occupazione, trovando nel TMD il posto ideale per rimettersi in gioco.
Ciò
nonostante il giovane non aveva perso la passione per la boxe, e ogni
mattina, se le circostanze lo permettevano, era solito smaltire gli ultimi
torpori nella palestra della caserma,
gonfiando un sacco o incrociando i guantoni con qualche collega.
Quel
giorno la situazione appariva abbastanza tranquilla. Kingsey
e la sua squadra, formata dal ricognitore-stregone Erikson
Ladier e dai soldati Kate Bouy
e Claude Grill, erano di riserva, e anche se poco dopo il suo arrivo era stata
segnalata un’emergenza alla cittadella commerciale di Saint Augustine, i
due team già inviati sul posto sembravano avere tutto sotto controllo.
Mentre Bouy e Grill si scioglievano le gambe sui tappetini, e Ladier ammazzava il tempo leggendo uno dei suoi adorati
romanzi di fantasia all’ombra di un albero in cortile, Kingsey
aveva trovato come sfidante del giorno il suo giovane parigrado Jake Aulas, il pupillo del Capitano Vyce.
Jake era
un bravo soldato, anche se un po’ irruento, e come pugile ci sapeva fare, ma
non era comunque al livello del suo avversario; al terzo round Kingsey gli scaricò contro tre colpi in successione, due al
costato e uno al volto, e il ragazzo andò al tappeto gettando la spugna.
«Non te
la cavi male» disse amichevolmente aiutando lo sconfitto a rialzarsi.
«Ma non
abbastanza, a quanto pare.»
«Per
quello c’è tempo».
Vyce
entrò in quel momento nella palestra. Da buona addestratore militare qual era,
ostentava un passo sicuro e l’espressione amichevole che sapeva tuttavia
incutere rispetto; e mentre Kingsey tornava al
proprio angolo, gli lanciò un asciugamano.
«Me ne
hai già smontato uno di prima mattina?»
«È più
bravo di quanto sembri» rispose l’Agente Walcott con
la familiarità che solo l’intrattenere un felice rapporto anche fuori dal
lavoro poteva garantire «Ho dovuto sudare per costringerlo a desistere. Non mi
sorprende che tu lo tenga in così alta considerazione».
Vyce
rise, rifacendosi però serio nello spazio di un istante.
«Posso
parlarti?».
I due si
appartarono in un angolo della palestra, sedendosi ad una panchina, e mentre Kingsey si reidratava con un integratore, Vyce fissava il vuoto come se avesse avuto
paura di parlare.
«Ho
parlato con il Direttore» esordì il Capitano. «C’è la possibilità di farti
trasferire al programma di collaborazione interforze. Agente di collegamento a
bordo delle astronavi di Caldesia.»
«Non è
un lavoro da polizia militare?»
«Bastano
i tuoi gradi. È sottinteso che dovresti
viaggiare parecchio. Tra spedizioni nel sistema solare, esercitazioni e confini
vari, parliamo di almeno una settimana al mese lontano da casa.»
«Meglio
una settimana fuori casa che una vita intera in una fossa.» sorrise il giovane tra l’ironico
e il desolato.
I due si
guardarono negl’occhi.
«Sei
sicuro di volerlo fare? Pensavo ti piacesse stare qui.»
«Le cose
sono cambiate, amico mio. Da quando Maryon e io
stiamo insieme, tutto mi appare diverso. Non mi fraintendere, essere un TMD mi
piace ancora. Ma in fin dei conti, Maryon ha ragione.
Quando lavori qui, ogni giorno potrebbe essere quello buono. Da una parte ti
aiuta a vivere pienamente ogni cosa che fai, dall’altra però, per la prima
volta, sento di avere qualcosa da perdere. Qualcosa di particolare. Capisci
cosa intendo, non è vero?»
«Più o
meno sì» rispose Vyce con una strana espressione sul viso. «Passerò la
richiesta. Se tutto và bene, potresti ottenere il trasferimento nel giro di un
mese.»
«Ti
ringrazio. Sei un grande amico.»
«Ma di
che? Più giovani vedo uscire da qui con le proprie gambe, meglio mi sento» e
gli diede un’amichevole pacca sulla spalla. «Dammi retta, la famiglia prima di
tutto. E poi, non mi avevi detto che volevate anche un bambino?»
«Ci
stiamo lavorando» rise Walcott. «Ma quello vorrei
posticiparlo il più possibile. Non mi sento ancora pronto per poppate e
pannolini».
Pensarono
entrambi di continuare quella piacevole conversazione davanti ad un caffè, ma
all’improvviso la sirena dell’allarme risuonò come un fosco presagio, allertando l’attenzione di tutti, soldati e
personale, cui fece seguito quasi contemporaneamente un inquietante messaggio.
«Allarme prioritario! Stato d’Emergenza Due!
Tutte le squadre di riserva si preparino immediatamente a partire! Questa non è
un’esercitazione! Ripeto: questa non è un’esercitazione!»
«Emergenza
Due!?» disse attonito Vyce. «Che sarà successo di tanto grave?».
Kingsey non
perse tempo a domandarselo, e radunata la sua squadra spedì tutti in armeria
per il rifornimento con l’ordine di essere pronti a partire in due minuti.
Quanto a
lui, raggiunse una piccola stanza attigua a quella dove era stoccato
l’equipaggiamento di tutti gli altri membri della squadra, cui ebbe accesso
dopo aver fatto scansionare la propria iride
al lettore accanto alla porta.
«Benvenuto,
Agente Walcott» disse una voce elettronica appena il
giovane, una volta entrato, si fu posizionato su di una piattaforma al centro
della stanza. «Attivazione armamento».
Coloro
che appartenevano ai Reparti d’Assalto erano diversi dai loro compagni; per loro
non c’erano le tute protettive dei soldati d’Incursione o le scarne corazze dei
Ricognitori. Il loro compito era quello di affrontare la minaccia a viso
aperto, guardandola dritta negl’occhi, e per poterci riuscire necessitavano di
un equipaggiamento speciale, a cominciare da un’adeguata protezione.
La
corazza dei Leoni, come erano chiamati i membri dei Reparti d’Assalto, era un
concentrato di tecnologia e antica sapienza metallurgica, combinando una
poderosa difesa che solo un pollice di acciaio e krylium
riusciva a fornire con una discreta libertà di movimento, fatta di varie parti
mobili unite tra loro da giunture in metallo armonico di grande elasticità.
Fino a
poco tempo prima la vestizione doveva essere fatta a mano o quasi, ma di
recente era entrato in funzione un nuovo sistema che tramite il riconoscimento
dell’iride selezionava e assemblava autonomamente la corazza di ogni soldato,
velocizzando i tempi.
Kingsey si
mise al centro della pedana, gambe leggermente divaricate e braccia distese ai
lati, mentre tutto attorno, scendendo dal soffitto, comparivano lunghe braccia
metalliche, e un po’ alla volta l’armatura gli venne letteralmente saldata
attorno.
Prima
comparvero gli schinieri e i gambali, dal basso, che come una bocca si chiusero
sulle sue gambe dopo essere emersi da sotto, quindi fu il turno di guanti e avambracci,
fatti scendere dall’alto e posizionati al loro posto dagli arti meccanici. Si
trattava forse della parte più articolata e complessa dell’intera armatura; una
mano umana non sarebbe mai stata in grado di impugnare efficacemente gli enormi
e pesantissimi equipaggiamenti in dotazione ai Leoni, e per questa ragione il
guanto non era in realtà che un secondo arto,
grande quasi il doppio della mano dell’utente. Questa in realtà era
posizionata all’altezza del polso, ed era collegata alla propria protesi metallica
tramite una serie di sensori che ne permettevano un completo movimento, fino a
permettere una forma rudimentale di percezione tattile che aumentava l’affinità
e facilitava il lavoro.
La corazza
vera e propria comparve solo nell’ultima parte della vestizione, divisa in
parte frontale e posteriore, che come le due metà di un guscio vennero riassemblate e saldate attorno a Kingsey;
a lavoro finito, con l’aggiunta delle spalliere, il Capitano si era tramutato
in una specie di minaccioso carro armato su due gambe.
Come
ultimo atto, una delle tante nicchie posizionate a distanze regolari tutto
attorno alla pedana e contrassegnate con un avviso di pericolo radiazioni si
aprì lentamente, e da esso uno dei bracci meccanici prese una grossa batteria
al krylium grande quanto una palla da rugby; questa
venne rinchiusa all’interno di una sorta di involucro metallico triangolare
simile alla sommità di un terzo omero, il quale venne saldato dietro la schiena
del giovane soldato all’interno di un’apposita rientranza.
Nel
momento in cui la batteria fu collegata all’armatura, entrambe emisero
un tenue bagliore, e solo a quel punto i sostegni che sorreggevano Kingsey vennero allentati, permettendogli di posare i piedi
a terra; senza l’appoggio di quella fonte di energia, infatti, sarebbe stato
impossibile per chiunque sopportare il peso di quasi duecento chili di metallo,
cui venne aggiunto anche un cinturone cui era assicurata una pistola che, per
dimensioni che per rinculo, neanche l’essere umano più forte avrebbe potuto
maneggiare.
Terminata
la vestizione, Kingsey
lasciò stanza per una seconda porta, uscendo direttamente nell’hangar dei
veicoli.
Giunto
alla camionetta della sua squadra vi trovò già i suoi tre compagni, che lo
salutarono mettendosi sull’attenti.
«Squadra
Folgore, in marcia!» ordinò.
La cittadella commerciale
di Rue Saint Augustine era circondata da un
impressionante cordone di polizia e agenti della MAB, con transenne,
sbarramenti e persino dei reticolati, e l’intero edificio era stato
precauzionalmente rinchiuso all’interno di una cupola magica che ora lo
avvolgeva interamente come una gigantesca bolla di sapone.
I due
automezzi che trasportavano i rinforzi giunti dalla caserma dovettero farsi
strada attraverso un mare di folla, soprattutto curiosi, ma anche il solito
gruppo di manifestanti e infervorati che non perdevano occasione per farsi
sentire ogni qualvolta scoppiavano incidenti di quel genere.
Nel
grande piazzale antistante l’ingresso principale, un grande quadrato lastricato
di marmo e puntellato da piccole aiuole, erano stati allestiti un campo base ed
un centro coordinamenti, e lo stesso Capitano Vyce, intuendo la gravità della
situazione, aveva ottenuto di recarsi personalmente sul posto per prendere in
mano personalmente lo svolgimento delle operazioni: dopotutto, era risaputo che
il Direttore Harlow nutrisse più fiducia in lui che in chiunque altro
all’interno dell’unità, tanto da considerarlo quasi il suo secondo.
Quando
Vyce, accompagnato da Kingsey, entrò nella tenda di
comando, i sottufficiali e gli altri agenti, non solo della MAB e del TMD, gli
fecero immediatamente il saluto.
«Tenente
Patton, responsabile intelligence per la Polizia» gli disse un anziano
sottufficiale.
Oltre a
lui c’erano anche il Capitano Kallen, ufficiale in
comando delle squadre TMD intervenute sul posto, e il Privato Zoe, famiglio
emancipato dello stesso capitano che dopo la liberazione era voluta restare
accanto al vecchio padrone, mettendo
a sua disposizione le proprie esperienze di ricognitrice
e cacciatrice d’informazioni.
«Riposo,
Tenente. La situazione?»
«Drammatica»
rispose Patton chiamando tutti attorno alla mappa tridimensionale che gravitava
al centro della stanza. «All’incirca un’ora fa, un’EDA è apparso all’interno
del centro commerciale iniziando ad assalire chiunque gli capitasse a tiro. I
testimoni dicono che una commessa ha dato di matto e si è trasformata
maneggiando un vessel che probabilmente era difettoso.»
«Quel
bastardo è terribilmente coriaceo» mugugnò Kallen a
denti stretti. «Un plotone SRT che stava perlustrando il centro alla ricerca di
civili è stato attaccato e quasi massacrato. Ho mandato dentro le nostre due
squadre per aiutarli e neutralizzare l’EDA, ma di otto che erano sono tornati
in cinque. Tre sono morti, e due SRT sono ancora là dentro. Uno pare sia ferito
gravemente.»
«Di che
EDA stiamo parlando?» domandò Kingsey. «Un Classe
Alfiere?».
I due
uomini e Zoe lo guardarono severamente, stando un attimo in silenzio.
«No,
ragazzo. Un Classe Regina».
Nel
sentire quella parola, persino Vyce rimase di sasso.
Classe
Regina.
Ovvero,
EDA che non risentivano del deterioramento genetico proprio dei loro simili.
Solitamente
gli EDA avevano un’aspettativa di vita molto breve, il più delle volte di
appena qualche ora, poiché il potere magico da cui traevano energia tendeva inesorabilmente
a consumarsi; i Classe Regina, invece, erano più resistenti, e possedevano un core stabile, che consentiva loro di sopravvivere in modo
non dissimile da qualunque altro essere vivente. Inoltre, a differenza degli altri EDA,
il cui comportamento era dettato solo dall’istinto di conservazione, i Classe Regina
sembravano possedere un qualche retaggio della loro condizione umana, tale da
permettergli una rudimentale capacità di pensare, forse anche di pianificare, e
all’apparenza anche un briciolo di memoria.
Ma la
cosa più orribile che aveva, e rendeva l’epiteto Regina decisamente calzante,
era l’orrenda peculiarità, che
permetteva loro, proprio come le regine di un alveare o un formicaio, di dare
vita a intere legioni di propri
simili infettando i cadaveri delle proprie vittime, i quali una volta deceduti
tornavano in vita sotto forma di EDA, contribuendo a rendere
un’eventuale manifestazione ancor più problematica e difficile da arginare.
Solo una
decina d’anni prima nessuno aveva mai neppure visto un Classe Regina, ma
nell’ultimo periodo il loro numero era pericolosamente e drammaticamente
aumentato; secondo i più la causa era l’eccessiva diffusione dei vessel, che
permettevano anche a chi non era dotato di un core
sufficientemente sviluppato di esercitare la stregoneria, ma dalle
controindicazioni potenzialmente molto pericolose.
«C’è già
un’infestazione in atto?» chiese Kingsey.
«Purtroppo
sì.»
rispose Zoe. «Abbiamo portato via più corpi possibili, ma i superstiti e gli
agenti sopravvissuti parlano di almeno quaranta tra Classe Pedone e Cavallo
ancora all’interno.»
«Com’è
possibile che la situazione sia degenerata fino a questo punto?» domandò Vyce
quasi contrariato.
«Lo
stronzetto è furbo» ringhiò Patton. «Ha aspettato che i nostri si
avventurassero in profondità nel centro commerciale prima di attaccarli.»
«Sappiamo
se ci sono ancora dei civili intrappolati all’interno?»
«Nessuno»
rispose Kallen. «Abbiamo inviato famigli e sonde di
esplorazione. A parte i due SRT, lì dentro non c’è anima viva.»
«Allora
la priorità è portare loro in salvo. Dove si trovano?»
«Abbiamo perso i contatti dieci minuti fa a
causa delle interferenze prodotte dalla barriera. Ma se non si sono mossi,
dovrebbero trovarsi qui: Nella zona ristoranti.»
«Walcott?»
«Signore?»
«La
squadra di Howard si occuperà di attirare altrove l’attenzione degli EDA per
garantire un’estrazione in sicurezza. Terranno quei mostri lontani dai
ristoranti. Nel frattempo, tu e i tuoi uomini dovrete recuperare e portare al
sicuro gli agenti feriti dopo essere entrati dal tetto. Appena saranno stati
portati in salvo, andrete a dare manforte ad Howard e ai suoi. Sterilizzate
l’area e chiudiamo questa storia il prima possibile. Tutto chiaro?»
«Sissignore».
Dopo
poco Kingsey uscì dalla tenda, incontrandosi con il
suo parigrado Tidus Howard che guidava la seconda
squadra destinata a prendere parte all’operazione, gli Eagles.
«Niente
colpi di testa» si raccomandò. «Teneteli impegnati fino al nostro arrivo.»
«Sta
tranquillo» scherzò lui. «Ve ne lasceremo qualcuno» e detto questo si avviò
verso i suoi compagni per aggiornarli sulla missione.
Kingsey
invece raggiunse un furgone dell’Agenzia, e aperto uno sportello sulla fiancata
rivelò il mostruoso fucile da 75mm in dotazione ai Reparti d’Assalto, un vero e
proprio cannone portatile capace di sparare proiettili da sette chili e gestire
un potere magico impensabile per qualunque altro fucile o bastone da battaglia.
Nonostante
il supporto offerto dalla sua armatura, il giovane dovette metterci un
po’ di forza per riuscire a sollevarlo. dopo averlo collegato alla presa della
batteria per mezzo di un lungo cavo elastico che spuntava dal calcio, lo
assicurò all’apposito fermo alla base della schiena, proprio mentre Erikson e gli altri lo raggiungevano per avere
informazioni.
«Allora,
statemi a sentire. È una missione di Recupero e Soppressione. Dobbiamo portare
fuori da lì due agenti rimasti bloccati. Una volta che li avremo salvati,
torneremo indietro e daremo manforte ad Howard e chiuderemo la faccenda. Tutto
chiaro?»
«Che
tipo di resistenza troveremo?» chiese Kate.
«È qui
che vi voglio. Abbiamo a che fare con un Classe Regina, che a quanto pare si è
già creato un bell’esercito di tirapiedi. Il che significa: niente iniziative.
Testa bassa, culo stretto, e sparate solo se necessario. Howard cercherà di
garantirci la copertura necessaria, ma siate pronti ad ogni cosa».
Kingsey si
fermò un attimo, prendendo un breve respiro; in quanto caposquadra non poteva
permettersi il lusso di apparire insicuro o preoccupato, ma nessuno dei suoi
compagni nutriva il minimo dubbio sulla sua competenza, e poteva contare sulla
loro più assoluta fiducia.
«Forza,
allora. Facciamo il lavoro e torniamo a casa» sorrise. «In fin dei conti,
abbiamo tutti di meglio da fare» quindi lui e gli altri incrociarono il pugno
destro. «Uno, due, tre…»
«Folgore!»
La zona commerciale di
Saint Augustine, vista da fuori, sembrava quasi un
villaggio di campagna, o una piccola cittadella, ed era proprio a
questo che i suoi architetti avevano voluto farla assomigliare.
Più ci
si avvicinava al centro della struttura più questa si alzava verso l’alto, con
il grande eliporto a svettare sulla sommità della torre principale, unico
edificio i cui negozi ospitati all’interno - soprattutto gioiellerie e altri
centri di lusso. Le altre attività commerciali erano disseminate tutto intorno,
con il retro degli edifici più esterni che andava a formare il variopinto ed
elegante muro di cinta, idealmente attraversato da un piccolo fossato di acqua cristallina
che ne segnava interamente il perimetro; si accedeva attraverso cinque diversi
ingressi, strade maestre che poste ad uguale distanza l’una dall’altra
confluivano verso la grande piazza ai piedi della torre, diramandosi lungo il
tragitto in una serie di stradine, viuzze e porticati.
Per
rendere la cosa ancor più realistica, ogni negozio rassomigliava in tutto e per
tutto ad una elegante residenza signorile, dipinta con motivi allo stesso tempo
sgargianti ma sobri, con ampie vetrine e un secondo piano dove facevano bella
mostra di sé finestre, persiane mezze chiuse e balconcini. La maggior parte
erano solo sceniche, ma alcune erano vere e proprie case, cosicché la
cittadella risultava allo stesso tempo una zona sia commerciale che
residenziale, anche se gli affitti erano a dir poco stratosferici.
E poi c’erano
i sotterranei. Due in tutto, ognuno occupato nella sua interezza da una diversa
realtà commerciale, con l’enorme supermercato nel primo piano interrato e le
piscine olimpioniche con annessi centri relax nel secondo; vi si poteva
arrivare con scale mobili, ascensori e trasporti a nastro disseminati un po’
ovunque, e grazie ad una serie di aperture nelle strade e nelle piazze
soprastanti coperte da controsoffitti trasparenti, la luce del sole
riusciva ad arrivare persino laggiù.
Forse
non era l’impianto commerciale più grande di Kyrador, ma era sicuramente il più
caratteristico e apprezzato, soprattutto dalla gente che contava, a due passi
dal centro e nel cuore del Secondo Distretto.
Mentre
l’elicottero percorreva il breve tragitto tra il campo base e la pista di
atterraggio sulla torre, Kingsey e gli altri
gettarono uno sguardo sulle strade sottostanti, trovandole deserte e prive di
vita, ma la cosa non li sorprese più di tanto: era risaputo che gli EDA
detestavano la luce del sole e cercavano di evitarla, quindi era probabile che
si fossero rifugiati nei sotterranei o nella torre.
«Quindici
secondi!» disse il pilota mentre si iniziava la salita finale.
Tutti,
come da abitudine, ricontrollarono un’ultima volta le armi, e Kingsey, sfiorato un interruttore posto sul collo,
materializzò l’elmetto dell’uniforme tutto attorno alla propria testa,
tramutandosi così in una sorta di mostro metallico dall’aria minacciosa e
invalicabile.
I
quattro si guardarono, quindi, appena giunti sopra l’eliporto, e Claude aprì il portellone.
«Fuori!
Fuori!» ordinò Kingsey, e tutti si lanciarono da dieci
metri d’altezza, usando le proprie divise speciali per attutire la caduta e
atterrare senza danni.
Velocemente
raggiunsero la porta del casotto nell’angolo della pista, aprendola su di una
scala a chiocciola che stando alle mappe li avrebbe condotti direttamente nella
zona ristoranti all’ultimo piano.
«Siamo
dentro» disse via radio il Capitano mentre lui e i suoi scendevano.
«Procedete.»
«It’s showtime!» rispose elettrizzato
Tidus, che malgrado caposquadra aveva la tendenza ad
accendersi facilmente.
Da una
finestrella lungo le scale i quattro agenti videro un altro elicottero alzarsi
dalla base e scaricare dall’alto i membri della squadra Eagle,
che sfondata una delle vetrate panoramiche lungo una delle strade maestre
atterrarono direttamente al primo livello sotterraneo, e dopo pochi attimi
cominciarono già ad arrivare via radio i primi colpi di pistola.
«Siamo
in ballo! Andate!»
Non
senza essere preparati a qualche imprevisto, Kingsey
e i suoi lasciarono dopo poco la scala di servizio ritrovandosi direttamente
all’interno di uno dei tanti ristoranti che riempivano i piani più alti della
torre.
In giro
non c’era anima viva, ma anche lì, come probabilmente in tutte le altre parti
del centro, era evidente l’effetto catastrofico e drammatico generato dalla
comparsa dell’EDA. I tavoli, le sedie, persino i vasi di fiori e le panchine
erano sottosopra, piatti e bicchieri giacevano in terra o abbandonati un po’
dappertutto, ed era possibile sentire l’olezzo dei cibi rimasti a bruciare sui
fornelli prima che venisse staccata l’energia.
Ovunque
silenzio di morte.
L’assenza
di sangue faceva pensare che non vi fossero state vittime, e benché quell’area
fosse stata isolata per salvaguardare i due agenti rimasti intrappolati,
il rischio di imbattersi in qualche EDA era considerevole, tanto che la Folgore
non abbassò un attimo la guardia, dandosi direttive e istruzioni con il
linguaggio dei segni o quello telepatico, stando bene attenti a fare meno
rumore possibile.
Scale
mobili, ascensori e quant’altro erano stati tutti disattivati, così la squadra
dovette farsi strada attraverso i vari piani rigorosamente a piedi, immersi in
una quiete innaturale che pareva celare minacce dietro ogni angolo. A causa
della perdita di contatti non era stato possibile stabilire l’esatta posizione
degli agenti da salvare, ma l’analisi termica condotta prima dell’avvio della
missione aveva segnalato la presenza di due fonti di calore di probabile
origine umana al dodicesimo piano, così Kingsey e i
suoi continuarono a scendere di livello in livello fino a raggiungere la loro
destinazione.
Come
misero piede al piano desiderato cominciarono i problemi. Forse non si era
stati abbastanza veloci ad isolare l’area, o forse quella zona era
raggiungibile per vie traverse che i tecnici non avevano preso in
considerazione, ma scesa l’ultima rampa di scale la Folgore trovò ad attenderli
un piccolo gruppo di EDA, poveri sventurati che non avevano fatto in tempo a
sfuggire alla furia dell’EDA e che neanche con la morte erano riusciti a porre fine
alle proprie sofferenze.
Dal
punto di vista della pericolosità, se presi singolarmente erano bersagli
relativamente facili, che pur sapendo ancora correre attaccavano in modo istintivo
risultando prevedibili, ma se incontrati in gran numero allora la faccenda era
assai più problematica, poiché era come essere assaliti da un branco di canni
rabbiosi.
In quei casi
un proiettile in testa, o una scarica di potere magico che mandasse in corto la
loro energia corrotta, era l’unico gesto caritatevole che si potesse compiere
nei loro confronti, e la squadra di Kingsey non esitò
ad agire in tal senso. Claude e Kate fecero fuoco con le pistole provviste di
silenziatore, mentre Erikson si limitò ad usare il
suo incantesimo Freezing Chain
per immobilizzarli e renderli bersagli ancor più facili. Il Capitano, invece,
non fece nulla: la sua riserva di munizioni era troppo scarsa e preziosa per
sprecarla su pesci piccoli come quelli.
Abbatterli
risultò stranamente facile; probabilmente l’EDA che li aveva generati non era
molto potente, ma in ogni caso Kingsey e gli altri ne
fecero scempio lasciandoli tutti a terra senza vita.
«Munizioni?»
si sincerò il Capitano.
«Due
caricatori per pistola, cinque per fucile.» rispose Kate.
«Idem
come sopra.»
la incalzò Claude.
«Erikson?»
«Mi sono
appena scaldato.»
«Andiamo
allora. Se loro sono qui, significa che anche i nostri agenti probabilmente non
sono lontani».
E
infatti, fatti pochi altri metri lungo l’ampio corridoio che congiungeva la
parte esterna della torre con l’immensa tromba che da quel piano scendeva giù a
strapiombo fino a terra in un susseguirsi di rampe e balconate, il rilevatore
termico indicò qualcosa all’interno di un ristorante etnico della catena Amaterasu Dokutsu, la più famosa
dell’arcipelago di Zipangu.
Come
tutti i locali della stessa catena era arredato in modo particolare, con ampi
paraluce, coperture a soffietto e varie stanzette divise tra loro da pareti di
carta, che se da una parte rendevano tutto molto suggestivo dall’altra ne
facevano un luogo ideale per le imboscate.
Tuttavia,
nel momento in cui Erikson, che guidava un gruppo,
posò un piede sul pavimento ligneo, questo scricchiolò con un suono strano,
simile al cinguettare di un uccellino, e immediatamente in un altro punto della
grande sala si udì il rumore di una sicura che veniva rimossa.
«Lampo!»
gridò allora istintivamente Kingsey.
«Fulmine!»
rispose dopo qualche secondo una voce altrettanto vibrante, e allora tutti
abbassarono le armi e si fecero avanti.
Quel
giovane agente aveva avuto una gran bella pensata. Con quel pavimento così
rumoroso, sarebbe stato impossibile per chiunque riuscire ad entrare senza
essere notato.
«Agente
Scelto Benjamin Masticht, Signore. Squadra SRT» disse
il giovane apparso dalla porta delle cucine, fucile a tracolla e qualche
macchia di sangue sull’uniforme, per fortuna non sua. «Sono felice che siate
qui.»
«Riposo,
soldato. Siamo venuti ad aiutarvi. Ci hanno detto che uno di voi è ferito.»
«Sì, Signore.
Il Caporale Pinkerton, il mio caposquadra. Venite».
Kingsey e i suoi avevano visto coi loro occhi in
più occasioni i segni dell’attacco di un’EDA, sia sui cadaveri che su vittime
ancora vive, ma ogni volta era uno strazio assistere ad una cosa del genere.
Dal
canto suo, il Caporale Pinkerton pur nella sventura
era stato incredibilmente fortunato; le ferite inflitte da un Classe Regina
avevano un effetto mutante solo sui defunti, ma ogni singolo EDA si portava
dietro un ricettacolo di infezioni psicofisiche che tramite il morso potevano
avere effetti devastanti sia sul piano energetico che, soprattutto, su quello
fisico. L’EDA che aveva assalito il Caporale era un pesce piccolo, Classe
Pedone, ma il morso che quel maledetto era riuscito ad infliggergli alla gamba
destra era riuscito a penetrare le protezione e ad incancrenire orribilmente
l’arto, rendendolo nero, putrescente e quasi insensibile.
Masticht, da
bravo agente, aveva applicato un laccio emostatico per fermare l’infezione e
somministrato attenuatori e incantesimi lenitivi, ma il suo superiore era
comunque ridotto molto male, seduto sulle mattonelle fredde della cucina in uno
stato di semi-incoscienza, febbricitante e sudato.
«Quartier
Generale, qui Folgore. Abbiamo trovato gli agenti superstiti, ma abbiamo una
ferita da aggressione in pieno decorso. Si richiede urgente trattamento
profilattico e predisposizione per un’estrazione d’emergenza.»
«Ricevuto,
Folgore. Portate il ferito alla terrazza panoramica di quel piano. Lo
recupereremo da lì.»
Mentre Claude
e Kate approntavano la barella portatile di emergenza per trasportare il
Caporale ed Erikson ne leniva le sofferenze
applicandogli vari incantesimi curativi, Kingsey
chiese conto al giovane Masticht di quanto accaduto.
«Sembrava
un incarico facile» disse l’Agente con espressione atterrita e gli occhi
spalancati. «Non abbiamo quasi trovato resistenza mentre avanzavamo. Poi
all’improvviso, appena siamo entrati nella torre, è cominciato l’inferno: i miei compagni sono spariti nel nulla uno dopo
l’altro, come se una mano invisibile li avesse afferrati e trascinati via. Abbiamo
sparato in tutte le direzioni, ma quel maledetto essere non si è mai fatto
vedere. Poi sono arrivati quegli altri. Il Caporale ha lanciato una granata, e
subito dopo lo hanno morso. Io l’ho preso, ho fatto ripartire un ascensore, e
siamo scappati».
Dovette
fermarsi, perché il tremore alle mani si era fatto tale che il suo fucile
tintinnava sulle parti metalliche dell’uniforme.
«Mi
scusi, Signore.»
«Non fa
niente. È normale sentirsi così dopo aver visto morire i propri compagni. Ora
pensiamo a portare al sicuro il tuo Caposquadra».
Con
molta cura il Caporale venne caricato sulla barella, che, scortata da Kingsey, Erikson e il giovane Masticht,
fu condotta velocemente sulla grande terrazza a semicerchio che come una cupola
rovesciata si protendeva verso l’esterno sospesa nel vuoto a quasi duecento
metri da terra.
Al loro
arrivo l’elicottero era già in posizione di volo stabile sopra le loro teste,
producendo con l’incessante rotare delle pale raffiche di vento che sollevavano
senza sosta nuvole di polvere, oltre agli eleganti tavoli da giardino e le
sedie di vimini della caffetteria all’aperto che riempiva interamente il vasto
balcone.
«Non
lasciarti andare, soldato» continuava a ripetergli Kingsey
per impedirgli di addormentarsi. «Te la caverai. Continua ad ascoltare la mia
voce».
Uno dei
membri dell’equipaggio aprì il portello laterale, e venne calata una fune cui
assicurare la barella.
«Preparati,
ragazzo. Quando lui sarà salito toccherà a te».
Masticht,
però, non sembrava intenzionato ad andarsene.
«Capitano,
con il suo permesso vorrei venire con voi. Sento che potrei esservi di grande
aiuto.»
«Non è
necessario che tu rischi la vita, Agente Masticht.
Hai già dimostrato pienamente il tuo valore. Il tuo posto è sull’elicottero.»
«Con il
dovuto rispetto, signore, quel bastardo ha ucciso i miei compagni. Non mi
sentirò in pace con me stesso se prima non gli avrò piantato un proiettile in
testa».
Alle volte
era difficile riuscire a distinguere l’intraprendenza dalla follia, ma il
giovane Masticht in quel momento aveva negli occhi un
tale ardore,
e una tale voglia di rivalsa, che Kingsey non se la
sentì di soffocare la sua fiamma.
«D’accordo,
Agente.»
«La ringrazio,
Signore.»
«Tanto è
probabile che a quest’ora ci abbiano già pensato i ragazzi della Wheelfire.»
A tal
proposito il Capitano si rimise in contatto con il suo parigrado per avere
informazioni sullo stato delle cose, e la prima cosa che sentì aprendo il
canale furono raffiche di mitra.
«Rapporto!»
«Tutto
alla grande!» rispose sovreccitato Tidus. «Per ora
abbiamo incontrato solo gregari, ma li teniamo a bada senza problemi. Certamente
ce ne sono più di quelli che i capoccia della logistica avevano predetto, ma
nulla di significativo. Se non vi sbrigate ad arrivare, finirà che vi lasceremo
a secco!».
In
quell’istante, in sottofondo, si udì dapprima un sibilo, e subito dopo uno
straziante urlo di dolore che si allontanava sempre di più, seguito da nuove
raffiche e grida scomposte.
«Ma cosa
diavolo…» si sentì strillare Tidus.
«Che è
successo?» domandò Kingsey ugualmente allarmato.
«Qualcosa
ha afferrato uno dei miei! Lo ha trascinato via!»
«Fate
attenzione! Il bersaglio può rendersi invisibile!»
Ma pochi
secondi dopo si udì un nuovo urlo, ugualmente spaventoso, e le raffiche si
fecero talmente furiose e ravvicinate da rendere impossibile riuscire a capire
realmente cosa stesse succedendo.
«Charlie!
– Attento! Attento! – Dietro di te! – Muovetevi! – Sparate, sparate!».
Poi, la
comunicazione si interruppe di colpo, lasciando il Capitano immobile e
sconvolto.
«Maledizione!
Muoviamoci!» e senza neppure aspettare che l’elicottero si fosse allontanato
lui e gli altri tornarono all’interno della torre.
«Venite
con me!» disse Masticht guidandoli attraverso una
porticina seminascosta dietro un vivaio. «C’è una scorciatoia che ci
velocizzerà la discesa!»
«Come
fai a conoscere così bene questo posto?» domando Kate mentre scendevano.
«Ho
fatto la guardia di sicurezza qui per un anno. Conosco questo posto come il
palmo della mia mano».
In effetti, tramite quella rampa, vennero aggirate quasi tutte le
barriere che erano state preventivamente chiuse per isolare la zona ristoranti,
anche se ad un certo punto i cinque furono costretti ad abbandonarla poiché non
arrivava che al settimo piano, dove cioè finiva l’area ristoro e divertimento e
iniziava quella vera e propria dei negozi.
Ancora
una volta fu il giovane Masticht a fare loro da guida
trovando la soluzione più rapida, e attraversato un corridoio condusse Kingsey e gli altri al grande anello centrale, che ora si
presentava proteso in egual misura verso l’alto e verso il basso.
«C’è
un’altra scala due piani più in basso, che porta direttamente ai sotterranei!».
Con gli
ascensori spenti, il gruppo non ebbe altra scelta che percorrere da una parte
all’altra la balconata in direzione delle rampe sull’altro lato.
In giro
non si vedeva anima viva, e non vi era traccia di alcun elemento ostile;
eppure, Kingsey e gli altri avevano la netta
sensazione di essere osservati, tanto che dopo la foga iniziale avevano
iniziato a muoversi con maggior circospezione, seppur a passo spedito.
Qualcosa,
impossibile capire di che si trattasse, afferrò la caviglia del Capitano come
il tentacolo di una piovra che serra istintivamente tutto ciò che la sfiora,
sollevandolo violentemente in aria nonostante l’enorme massa che si portava
addosso e trascinandolo sempre più verso l’alto dopo avergli fatto scavalcare
il parapetto lasciandolo a penzolare sopra cento metri e oltre di vuoto.
«Capitano!».
Istintivamente
tutti provarono a sparare, ma quell’essere maledetto, come aveva riferito Masticht, doveva avere la capacità di rendersi invisibile, e
inoltre si muoveva ad una velocità tale, saltando in continuazione da una parte
all’altra, che riuscire a inquadrarlo era quasi impossibile, per non parlare
del rischio di colpire Kingsey.
Questi,
a testa in giù e sballottato da una parte all’altra, dapprincipio tentò
inutilmente di liberarsi strattonando la gamba prigioniera, ma non ottenendo
risultati si risolse a sfoderare il coltello, con cui prese a menare fendenti a
casaccio nella speranza di fare centro. Neanche la visuale termica in dotazione
agli agenti era d’aiuto: o la barriera ne
pregiudicava il funzionamento, o cosa assai più probabile quell’EDA era dotato
di una qualche protezione che impediva di leggerne le emissioni di calore.
Riuscire
a muoversi in quelle condizioni era più che un’impresa, ma per qualche miracolo
o intervento della buona sorte Kingsey, menando un
affondo deciso verso l’alto, trovò una innaturale resistenza nel vuoto e appena
spinse un po’ dal nulla comparvero piccoli schizzi di sangue, e la lama del
pugnale si tinse di rosso; inoltre, nell’aria risuonò un ringhio di dolore.
Il
Capitano affondò con decisione e di colpo la presa si sciolse, minacciando di
farlo precipitare al suolo; data l’altezza, neanche l’armatura sarebbe bastata
a salvarlo da un volo simile.
Per
fortuna intervenne Erikson, che invocata la Wind Cage
materializzò tutto attorno al suo caposquadra una specie di cuscinetto d’aria
compressa che oltre a rallentare notevolmente la velocità di caduta attutì
anche il contatto con il suolo, il quale pur risultando molto violento non ebbe
nei fatti gravi conseguenze fisiche.
Kingsey si
sentì come il tappetino sbattuto e schiacciato di un’automobile, tanto gli
facevano male le ossa dopo quel volo pazzesco, e quando finalmente riuscì a
rimettersi in piedi si rese conto, con suo grande sgomento, che quello
probabilmente era l’ultimo dei suoi problemi.
Nel
momento in cui tornò a poggiarsi sulle gambe, infatti, l’armatura gli sembrò di
colpo più pesante, e l’indicatore di energia presente sia sul polso sinistro
che sulla parte superiore dell’arma aveva subito un crollo verticale di quasi
la metà; qualche cavo di alimentazione doveva essersi rotto o danneggiato, e
così ora l’energia arrivava sia all’arma che alle fibre disseminate per la
corazza solo in parte.
La
fatica era tale che bastarono pochi passi perché Kingsey
iniziasse a sentirsi senza forze, ma il suo istinto gli diceva che quell’essere
maledetto era ancora lì attorno, e messa una mano dietro la schiena afferrò
saldamente il fucile, stingendo con forza la maniglia al centro per dargli
stabilità.
«Fate
attenzione!» gridò ai suoi compagni che osservavano dall’alto. «Quella bestia è
ancora qui!».
E
infatti, poco dopo, la bestia
comparve, annunciata dallo scheggiarsi del pavimento marmoreo e un rumore di
passi stentati, quasi a quattro zampe, ma molto rumorosi. Non fu di nascosto;
quasi avesse deciso di giocare ad armi pari, come un fantasma che si
materializza dal nulla, il mostro si palesò davanti agli occhi del Capitano
rapidamente e avvolto da un tenue bagliore, che fece scintillare per un attimo
le scaglie pietrose che ricoprivano parte del suo corpo.
Doveva
essere stata una donna prima di mutarsi in quell’abominio, perché dal petto
emergeva un vistoso e carnoso paio di seni, forse l’unica cosa che ne
testimoniava le origini umane. aveva braccia e gambe piuttosto lunghe, con le
articolazioni delle ginocchia posizionate al contrario, mani e piedi con solo
quattro dita ciascuno, una testa triangolare con due corna ricurve da diavolo,
ed una lunga coda da scimmia a metà della quale faceva mostra di sé una grave
ferita che buttava sangue a fiotti.
Di
solito era raro che gli EDA mutassero al punto da perdere quasi completamente
la loro parvenza umana, ma quelli delle classi più elevate, Alfiere e Regina in
particolar modo, potevano assumere fattezze abominevoli, oltre a raggiungere,
come in quel caso, dimensioni superiori ai tre metri per diversi quintali di
peso. Persino Kingsey e i suoi rimasero impietriti: in tante missioni compiute insieme, non avevano
mai visto niente del genere.
Il
mostro parve esitare, tenendo le distanze dalla sua preda senza tuttavia
smettere di guardarla, il respiro roco e quasi affannoso che per interminabili
istanti fu l’unico rumore a riempire di tensione e sgomento un silenzio
altrimenti assoluto.
Poi, la situazione
precipitò di colpo.
Forse
attirati dalla presenza del loro padrone, un gran numero di EDA sbucarono fuori
da ogni parte della balconata dove si trovavano Kate e gli altri, costringendo gli
agenti ad aprire il fuoco; il rumore degli spari rimbombò fragorosamente in
tutto l’edificio, e il Classe Regina, lanciato una specie di assordante
ruggito, si scagliò contro Kingsey, che senza indugio
tirò il grilletto sparando il primo dei suoi dieci proiettili.
Dal
cannone partì un colpo che, senza le dovute protezioni, avrebbe potuto ridurre
in brandelli qualunque braccio, tanto che i magneti sotto le suole nel fare
presa sul terreno arrivarono ad incrinarlo; per non parlare del fragore, della
vampata di fuoco, della nuvola iridescente prodotta dallo scoppio e dell’enorme
bossolo che venne automaticamente espulso dal retro dell’arma, grande come una
gamba umana.
Il
vortice di luce generatosi dalla canna andò quasi a vuoto, riuscendo solo a
ferire leggermente l’EDA alla spalla destra, ma scaricatosi contro la parete
retrostante ne disintegrò una parte aprendo un enorme squarcio nel muro, che
tuttavia resistette.
Cercando
di fare appello a tutte le sue forze l’agente cominciò a correre per tutto il
salone, sparando uno dopo l’altro tutti i proiettili del caricatore non appena
ne aveva l’occasione; ma era tutto inutile, perché anche quei colpi che
andavano a segno risultavano inefficaci, a causa della spessa corazza rocciosa
che ricopriva quasi per intero il corpo di quella dannata bestia.
E ad
ogni proiettile che respingeva, l’EDA
caricava sempre più a testa bassa demolendo ogni muretto, aiuola e colonna di
sostegno dietro cui il Capitano cercava di rifugiarsi, senza che i compagni
impegnati in una lotta alla disperata contro un’orda che non voleva saperne di
arrestarsi potessero fare qualcosa per lui.
Quando
il caricatore infine saltò via dall’alloggiamento, fu chiaro che la situazione
stava precipitando; Kingsey non ebbe altra scelta che
passare all’alimentazione diretta, anche se per cercare di risparmiare quanta
più energia possibile si limitò fin da subito a sparare piccole raffiche di
poca potenza, nella speranza che prima o poi lo scudo dell’EDA finisse per
cedere.
Ma era
tutto inutile, quella bestia era peggio di un carro armato.
L’unica
speranza di averne ragione era un attacco di piena potenza, lo Sturmstahl, ma
eseguirlo richiedeva tempo, tempo che l’EDA non sembrava volergli concedere;
per questo i Leoni non agivano mai da soli: i loro attacchi erano molto
potenti, ma spesso lunghi a caricarsi, e necessitavano pertanto di adeguato
supporto, o di qualcuno che distraesse il bersaglio il tempo necessario.
E ad
ogni attacco la batteria si scaricava sempre di più, rendendo l’arma meno
efficace e l’armatura sempre più pesante, tanto che Kingsey
ad un certo punto non riuscì quasi più a muoversi tanto aveva il fiatone.
La
resistenza disperata del Capitano venne infine annichilita quando il nemico,
sventrata una delle poche colonne decorative ancora in piedi, e con un braccio
proteso sul volto per difendersi dall’ennesima raffica caricò il suo bersaglio
colpendolo in pieno e scagliandolo via con una poderosa manata che lo sparò
contro la parete minacciando di frantumargli la schiena.
Un colpo
tremendo, che avrebbe messo al tappeto chiunque, e infatti Kingsey,
rantolato al suolo tra calcinacci e detriti, non riuscì più a ritrovare la
forza per rimettersi in piedi.
«Capitano!»
urlarono dall’alto i suoi compagni, ancora impossibilitati ad aiutarlo.
Il
giovane aspettava solo il colpo di grazia, che tuttavia per qualche motivo
misterioso esitò ad arrivare, e quando gli riuscì di riprendere coscienza di sé
si ritrovò a tu per tu con una scena a dir poco insolita: l’EDA era ancora lì,
come immobilizzato, intento a fissarsi la mano con cui aveva colpito il suo
nemico ringhiando e ansimando sommessamente.
Forse si
era ferito, o forse l’estrema durezza della corazza lo aveva colto un po’ di
sorpresa.
Una
granata gli arrivò improvvisamente alle spalle, e pur non generando
un’esplosione abbastanza potente da riuscire a danneggiarlo lo fece piegare con
violenza in avanti, tanto che solo puntellandosi sulle lunghe braccia riuscì ad
evitare di cadere.
Alzati
gli occhi, Kingsey vide il suo amico Tidus dinnanzi all’ingresso sventrato, il braccio sinistro
gravemente ferito, l’uniforme lacera, e il volto ridotto ad una maschera di
sangue e odio, che reggeva il proprio fucile sorreggendolo con una mano.
«Hai
ucciso la mia squadra, lurido pezzo di merda!».
Immediatamente
l’EDA si concentrò su di lui, e fattosi strada tra le raffiche di proiettili
gli piantò con forza una mano nello stomaco, facendola uscire dalla parte
opposta inondata di sangue per poi alzare violentemente la sua vittima in aria.
«Tidus!»
Tidus urlò
come un dannato, ma non smise un momento di sparare, tanto che il nemico
dovette seguitare a tenere il braccio libero davanti al volto per evitare che
qualche pallottola gli finisse negli occhi.
«Ora Kingsey! Ammazzalo!»
«Ma se
lo faccio…»
«Non
commentare, spara!».
Per lui,
con quella ferita, era comunque la fine, e probabilmente dal profondo del suo
orgoglio Tidus preferiva morire che vivere con la
vergogna di essere sopravvissuto al massacro dei suoi uomini.
Kingsey non
ebbe altre esitazioni.
Tratto
un lungo respiro, e assieme ad esso tutte le energie di cui era capace, si
rialzò, si piantò saldamente sulle gambe divaricate, afferrò con forza il
fucile e aprì la valvola centrale di alimentazione, facendovi confluire dentro
tutto il potere magico rimasto nella batteria.
L’aria tutto attorno iniziò rapidamente a
caricarsi di energia, tanto che persino i pochi EDA ancora vivi ai piani
superiori presero a correre come pazzi in ogni direzione dimenticandosi
totalmente di Kate e degli altri. Tutto attorno al Capitano, il terreno parve
tremare, e quasi la gravità si fosse annullata detriti più o meno piccoli
presero a sollevarsi lentamente da terra restando a levitare a mezz’aria.
Le
turbine del fucile giravano talmente veloce da produrre un rumore quasi
insopportabile, e come Kingsey rilasciò il primo dei
due grilletti tutta quell’energia si concentrò sulla sommità della canna dando
vita ad un grande circolo magico che brillava di un azzurro argenteo.
L’EDA si
accorse solo a quel punto di ciò che stava accadendo, ma ormai era troppo
tardi.
Il
Capitano tirò il secondo grilletto, e quasi fosse un proiettile esploso da una
comune pistola, tutta l’energia accumulata all’interno del circolo venne
liberata sottoforma di una vera e propria tempesta distruttrice che sventrando
il terreno e facendo volare via anche gli oggetti più pesanti investì in pieno
il mostro, il quale ebbe appena il tempo di notare l’espressione ghignante
della sua ultima preda ormai morta e lanciare un terrificante urlo di dolore
per poi scomparire avvolta da un mare di luce.
Quando
gli altri membri della squadra riuscirono finalmente a raggiungere il loro
Capitano ormai era già tutto finito.
L’atrio
della torre era ridotto in pezzi, con un enorme solco a dividerlo quasi a metà,
dentro il quale bruciavano piccoli incendi destinati a spegnersi entro breve.
Tutto ciò che non era ancorato al suolo, o non lo era a sufficienza, era stato
spazzato via. Colonne, statue e altri arredi estetici in pietra
giacevano in pezzi e non era rimasto un solo vetro intatto.
Kingsey era
anche lui a terra, e per un attimo tutti pensarono che fosse morto, ma tolto
l’elmo e la parte superiore della corazza ci si rese conto che in un modo
nell’altro era ancora vivo, anche se distrutto dalla fatica.
«Non
fare mai più una cosa del genere, ci siamo capiti?» lo ammonì Erikson. «Ci hai fatti morire di paura.»
Alla
fine il suo tiro non era stato molto preciso, sicuramente a causa dello sforzo
prolungato, ma i risultati c’erano comunque stati. L’EDA era ancora vivo, ma
del suo corpo rimanevano solo la testa e la parte destra del torso, braccio
incluso; qualche volta era ancora possibile salvare la vittima di una
mutazione, ma non quando questa raggiungeva simili livelli, e il destino di
quel poveraccio si era compiuto non appena il suo corpo aveva smesso di essere
umano.
La
creatura rantolava, sembrava piangesse.
Trascinandosi
sull’unico braccio che gli restava, si avvicinò stancamente ai quattro uomini,
e nel delirio della fatica Kingsey ebbe quasi
l’impressione di scorgere delle lacrime nei suoi occhi bruciati dal calore che
lo aveva investito.
Kate e
Claude erano già pronti a mettere fine alla sua agonia, ma il giovane Masticht fu più veloce di tutti loro, e sbucando dalle loro
spalle sfoderò la pistola esplodendo un primo colpo dritto alla fronte; l’EDA
lo ricevette in pieno, mugolando un po’ più forte, ma dopo un attimo di
esitazione tornò ad avanzare. A quel punto il giovane sparò altri due
proiettili in successione, e al terzo colpo la creatura, finalmente, si
accasciò senza vita, giusto un attimo prima che potesse arrivare con la mano
protesa a sfiorare il proprio carnefice.
«Questo
è per i miei amici, stronzo».
Passato il momento della
crisi, venne come sempre quello di fare la conta dei danni e, soprattutto, dei
caduti.
L’Incidente di Saint Augustine,
come sarebbe divenuto celebre in seguito, era stato sicuramente uno dei più
gravi mai occorsi a Kyrador, almeno per l’alto numero di vittime. Quarantasei
morti, tra i quali otto membri delle forze dell’ordine tra TMD, SRT e semplici
agenti di polizia.
Kingsey
dovette ricorrere alle cure dei paramedici, ma a parte una sindrome da
affaticamento e qualche graffio, se
l’era cavata egregiamente. Vyce lo raggiunse mentre, terminata l’ultima visita,
si stava rivestendo dopo essersi finalmente liberato della sua ingombrante
armatura.
«Buon
lavoro, Kingsey.»
«Ma non
abbastanza. Sette dei nostri sono rimasti lì dentro.»
«Lo so.
Ma ormai ci ho fatto l’abitudine. E scommetto anche tu.»
«Hai
ragione. È per questo che ho ufficialmente chiuso. Oggi mi sono trovato a tu
per tu col Tristo Mietitore come mai nella mia vita, e ho capito una volta di
più quanto voglia godermi la vita il più a lungo possibile» quindi guardò
l’amico quasi con severità. «Questo lavoro lasciamolo agli aspiranti suicidi, o
a chi non ha nulla da perdere.»
Detto
questo, si avviò velocemente verso il furgone della squadra, infilando
nervosamente le sue cose dentro ad un borsone.
«Per
quanto mi riguarda, io ho chiuso. Fammi sapere per quel posto di cui mi parlavi.» e se
ne andò scomparendo nel più vicino taxi, proprio mentre dalla parte opposta
giungeva la solita frotta di giornalisti in cerca del superstite da
intervistare.
Vyce se
ne liberò prima che potessero accerchiarlo, tornando verso la tenda di comando
mentre i paramedici e le unità forensi finivano di portare via i corpi.
«Signore.» lo
fermò Patton passandogli un palmare.
«I dati dell’EDA abbattuto.»
Il
Capitano lo prese, dandogli una rapida
scorta in attesa di rileggere il tutto con più calma al momento di stendere il
rapporto. i suoi occhi si spalancarono come quelli di una fiera, e una luce di
sgomento si accese nei suoi occhi.
«Oddio, no…»
Kingsey tornò a casa con l’animo sollevato. Non
aveva paura di essere considerato un codardo.
Sapeva
che i suoi compagni, quelli veri, non lo reputavano tale; del resto, era
difficile trovare padri di famiglia o giovani felicemente legati all’interno
del TMD. Chi prima o chi dopo, quasi tutti quelli che sopravvivevano abbastanza
a lungo da guadagnarsi il congedo sceglievano di appendere il fucile al chiodo
virando su occupazioni meno rischiose; in fin dei conti, Semper Fidelis era solo una frase. Anche per
Kate, Claude ed Erikson sarebbe venuto il momento di
dire basta, persino per quella testa matta di Jake.
Lungo la
strada di casa il Capitano comprò dei pasticcini e una torta: c’erano da molte
cose da festeggiare, e da come
l’aveva vista quella mattina aveva il sentore che anche la sua compagna, al suo
arrivo, avrebbe avuto qualcosa di importante da riferirgli.
Arrivato
a casa aprì il portone, salì le scale, e canticchiando la musica che aveva
sentito la sera prima nel suo programma preferito girò la chiave nella
serratura entrando in casa.
«Maryon?»
Le tapparelle
erano ancora tutte abbassate, e nell’appartamento regnava il silenzio; a quanto
sembrava, una volta tanto, era arrivato prima lui.
Meglio così.
Avrebbe
avuto tutto il tempo per mettere insieme il più caloroso dei benvenuti.
Accesa
la televisione, si diede immediatamente da fare in cucina, ascoltando
distrattamente le notizie del telegiornale mentre cercava di arrabattarsi tra
pentole, taglieri e il forno a microonde, mentre la cena più fresca e prelibata
che si potesse immaginare prendeva gradualmente forma assieme al pensiero di
quale stupenda serata lo attendeva.
Lavorò
senza sosta per diverso tempo, e prima che se ne rendesse conto si era ormai
fatta sera.
«Come
mai non arriva?» si domandò a quel punto il Capitano guardando l’orologio.
Non
prese neppure in considerazione l’idea di chiamarla sul comunicatore: Maryon era talmente distratta che lo teneva spento
praticamente sempre, persino quando aspettava telefonate importanti. Comunque
non era raro che tardasse, soprattutto in quel periodo in cui passava il tempo
girovagando in cerca di lavoro, così Kingsey non si
preoccupò.
Poi,
mentre finiva di preparare la tavola, si accorse che il registratore di
messaggi accanto all’appendiabiti stava lampeggiando, e nella speranza che
contenesse il perché di un tale ritardo lo accese.
L’immagine
in tre dimensioni a grandezza ridotta di Maryon
apparve sopra l’apparecchio, sorridente come non mai e con indosso il suo abito
migliore.
«Amore.
A quanto pare non sono riuscita a dirtelo, ma ero così nervosa che stamattina
non ne ho trovato la forza. Stasera come al solito dovrei essere a casa prima di
te, ma se così non fosse voglio che tu lo sappia appena arrivi. Ho trovato un
lavoro. Per la verità è solo un impiego part-time in un negozio di elettronica,
ma il datore di lavoro mi ha già detto che probabilmente passati sei mesi mi
assumerà a tempo indeterminato. Cercavano qualcuno che sapesse maneggiare i
vessel, e tu lo sai che ne ho una certa dimestichezza. Ne sono molto felice,
perché finalmente avrò la possibilità di essere d’aiuto all’economia della
nostra casa. Così, tu potrai considerare l’eventualità di lasciare le Squadre
Speciali. Lo so che il tuo lavoro attuale ti piace, ma non posso fare a meno di
essere in ansia per te ogni volta che ti vedo andare via, e tu mi avevi detto
che stavi pensando di lasciarlo. Per questo ho accettato questo impiego. Se il
Grande Padre lo vorrà, potrebbe essere l’inizio di un nuovo capitolo del nostro
rapporto. Un capitolo bellissimo che non vedo l’ora di scrivere» quindi piegò
le labbra in uno di quei suoi sorrisi da bambina. «Ora però sto diventando
melodrammatica. Se vedi questo messaggio, aspettami. Sarò a casa al massimo per
le sette. A prestissimo, amore mio.»
Kingsey sentì
un fastidioso e preoccupante moto d’ansia salire dentro di lui.
Qualcosa
non tornava.
Nel
messaggio Maryon parlava di essere a casa per le
sette, ma ormai erano le otto passate, e di lei non vi era ancora traccia.
Sollevò
il telefono e chiamò Dorothy, la sua migliore amica, che abitava nello stesso
condominio, chiedendole se sapesse dove si trovasse il luogo di lavoro di Maryon o eventualmente come poterla contattare, ma anche
lei parve cadere dalle nuvole: sembrava proprio che quella ragazzina immatura
avesse deciso di mantenere il segreto con tutto e tutti fino all’ultimo.
«Grazie
lo stesso.»
Mentre
riattaccava, al telegiornale l’argomento virò nuovamente su quanto accaduto al
centro commerciale, poiché a detta della conduttrice c’erano importanti novità.
«Signori,
ora ne abbiamo la conferma. In esclusiva per la CNN, siamo in grado di
mostrarvi i resti dell’EDA che oggi è comparso alla Cittadella di Saint Augustine. Ricordiamo per coloro che si fossero messi
all’ascolto soltanto adesso che l’incidente di oggi ha provocato oltre quaranta
vittime, tra le quali un numero imprecisato di agenti di polizia e delle forze
TMD che secondo le nostre fonti varia da due a dieci. A quanto pare l’EDA che è
apparso alla cittadella era un Classe Regina, il che porta a cinque le
manifestazioni di questo tipo avvenute a Kyrador e nel resto della provincia
solo in quest’ultimo mese. Vi avvertiamo che si tratta di immagini piuttosto
forti, pertanto suggeriamo la vista solo ad un pubblico maturo e consapevole.»
La
visuale si spostò quindi sul parcheggio della cittadella, dove in un gruppo
eterogeneo e piuttosto movimentato di persone, sicuramente altri giornalisti,
si poteva intravedere in lontananza un corpo orrendamente mutilato e
parzialmente coperto da un telo, che una raffica di vento o qualche impiegato
infedele doveva avere parzialmente rimosso.
Fu
sufficiente uno zoom, e il volto del mostro divenne così vicino da dare l’idea
che volesse rompere lo schermo, catturando lo sguardo di Kingsey
con la forza ed il magnetismo di un esperto ipnotizzatore.
A causa
del deterioramento post mortem parte del tessuto
esteriore e delle scaglie rocciose che ricoprivano il corpo dell’EDA si erano
nel frattempo dissolte o staccate, riducendo di parecchio le dimensioni della
creatura, oltre a portare allo scoperto brandelli di vestiti, monili e altre
cose che la violenta trasformazione aveva finito involontariamente per
inglobare.
Un
luccichio di pochi attimi si rifletté sull’obiettivo,
mentre quell’immagine confusa girava a destra e a sinistra.
Sembrava
un gioiello; forse un pendente. Un gioiello a forma di ali.