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Autore: Carlos Olivera    17/07/2014    2 recensioni
In fin dei conti, per Kingsey Walcott, era una giornata come le altre.
Una normale giornata di lavoro
Storia partecipante al contest Creepy Bloody Summer di Hikarimegami
Genere: Fantasy, Horror, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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Una piccola formica si arrampicò agile lungo il bordo della mensola, e raggiunto il ripiano si avvicinò, furtiva ed affamata, alle due grosse fette di pancetta poggiate su di un piatto.

Maryon gliele portò via un attimo prima che potesse raggiungerle, ponendole sulla padella sfrigolante e aprendovi subito sopra una coppia di uova recuperate dal frigo.

Tutto attorno, l’appartamento era ancora un trionfo di scatole e casse da sballare; era stato tirato fuori solo l’essenziale: le posate, le stoviglie, qualche suppellettile e il proiettore televisivo, in quel momento acceso sull’edizione delle otto della CNN.

Stava finendo di rosolare il tutto, quando avvertì da un istante all’altro una figura alle sue spalle, e prima che potesse rendersene conto una mano le cinse il ventre all’altezza dell’ombelico, un’altra invece le scivolò sugli occhi.

«Kingsey, non fare il bambino!» rise tirando piccole gomitate a casaccio sperando di fare centro.

Kingsey Walcott, King per gli amici, capelli biondo paglierino tagliati quasi a caschetto, occhi lunghi e scuri e fisico prestante, si scostò rapidamente per evitare i colpi, non rinunciando però a tenere stretta a sé la sua donna preferita, l’unica tra le molte che aveva conquistato con il suo charme da giovane e spregiudicato soldato che era stata capace di fare la stessa cosa con lui.

Si erano conosciuti appena tre anni prima, ma il sentimento era sbocciato subito, tanto che Kingsey era riuscito a vincere in poco tempo le resistenze dei genitori di lei, persone perbene ma dalle idee un po’ antiquate, strappando loro prima il consenso a poter frequentare la loro adoratissima figlia poi quello, assai più ardito, di costruire la loro nuova vita insieme, in quel piccolo appartamento che il giovane era riuscito a comprare con sangue e sudore quale prova di buona volontà e dedizione.

Il padre di Maryon non aveva fatto i salti di gioia nel sapere che il fidanzato della figlia fosse un membro dell’Agenzia, e per poco non gli era venuto un colpo quando Kingsey, come un figlio disubbidiente, gli aveva confessato di far parte della Tactical Magician Division. La stessa Maryon d’altra parte non aveva nascosto il proprio stupore, per non dire il proprio timore, quando il nuovo fidanzato le aveva fatto questa ammissione, poiché sapeva come chiunque altro quanto fosse pericolosa la vita di un TMD.

Ma per il momento, questo non le importava. Tutto quello che voleva era stare assieme a lui.

Si baciarono, perdendosi in un tenero abbraccio, e dopo poco si sedettero a tavola per consumare la loro veloce colazione.

«Hai un appuntamento?» domandò ad un certo punto Kingsey vedendo che la compagna seguitava a guardare l’orologio affisso alla parete

«Mi stanno aspettando in un posto, e non vorrei fare tardi.»

«Un altro colloquio di lavoro?»

«Più o meno» rispose lei con un sorriso sbarazzino.

Vivere in una grande città come Kyrador non era per niente facile né economico, e anche se teoricamente lo stipendio da TMD del giovane Walcott era più che sufficiente a condurre una vita decorosa, fin dal giorno in cui avevano iniziato a pianificare il proprio futuro insieme, Maryon si era immediatamente messa alla ricerca di un impiego, fino a quel momento senza molta fortuna.

La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata quando Kingsey si era visto costretto a fare alcune ore di straordinario per venire incontro ad una spesa imprevista quando si erano accorti che il sistema energetico della casa, a prima vista impeccabile, aveva richiesto invece una profonda manutenzione; e anche se Maryon sapeva quanto Kingsey amasse il proprio lavoro svolgendolo con prudenza, ogni volta le prendeva un colpo al cuore quando sentiva alla televisione di questo o quell’incidente magico, ben sapendo che tra le persone chiamate a risolvere il problema poteva esserci proprio il suo compagno.

Per il momento, però, quella era l’unica soluzione, e Maryon lo sapeva bene; senza ulteriori entrate, con una casa da arredare e una vita di coppia da costruire, era impensabile che Kingsey potesse rinunciare al suo lauto stipendio, che se non altro era in linea con i rischi che il suo lavoro lo costringeva a prendersi.

«Se va tutto bene, questa sera ti farò una sorpresa» disse la giovane a colazione finita sparecchiando la tavola.

«E che genere di sorpresa?» domandò lui tirandola a sé prima che potesse allontanarsi.

«Non essere curioso. Lo saprai a tempo debito».

Anche Kingsey aveva una sorpresa, ma a differenza della compagna non aveva la forza di tenergliela segreta fino a sera.

Maryon non era mai stata una ragazza frivola e spendacciona, al contrario, ma di fronte ad una collanina con un pendente a forma di ali che faceva bella mostra di sé nella vetrina di una gioielleria del centro i suoi occhi si erano accesi come stelle; Kingsey se n’era accorto, anche se lei aveva cercato di nasconderlo, e mettendo da parte ogni singolo centesimo che gli era stato possibile racimolare era infine riuscito ad acquistarla.

La ragazza quasi non riuscì a crederci quando, sollevando la tovaglia, vide quello stupendo monile comparirle dinnanzi agl’occhi in tutta la sua raffinata bellezza.

«Ma… sei diventato matto?» domandò senza eccessiva convinzione, più mortificata che arrabbiata. «Non possiamo permettercelo.»

«Stai tranquilla» le sussurrò lui raccogliendolo e mettendoglielo dolcemente al collo. «Il gioielliere aveva un piccolo arretrato con le tasse. Gli ho fatto uno sconto, e lui lo ha fatto a me. E poi, ho visto come lo guardavi».

Maryon tentò di dissimulare, ma la verità era che era troppo felice; non tanto per il regalo, che per quanto gradito non era comunque indispensabile, quanto piuttosto per la generosità e il buon cuore del compagno, che non perdeva occasione per tentare di renderla felice.

«Sei bellissima» disse scambiando con lei uno sguardo amorevole, cui fece seguito un bacio appassionato. «Ti amo più della mia vita.»

«Grazie, Kingsey. Averti incontrato è stato il più bel regalo che la vita avrebbe potuto farmi».

Ma il tempo correva per tutti e due, e allo scoccare delle otto e mezza fu chiaro per Kingsey che ormai era ora di andare.

Giusto il tempo di infilarsi la giacca dell’uniforme, lucidare un attimo i gradi da Tenente, ed era già sulla porta di casa.

«Ciao, amore» disse baciando ancora una volta la sua adorata. «Ci vediamo stasera.»

«A stasera.»

 

Il lavoro di un TMD non differiva poi molto da quello di un vigile del fuoco.

Si andava in caserma, si passava il tempo tra allenamenti ed esercitazioni, intervallate da una piacevole sosta al bar o nella sala relax, attendendo eventuali chiamate.

In ogni momento della giornata c’erano a disposizione dalle quattro alle sei squadre pronte ad intervenire, più altre due di riserva che in caso d’emergenza fungevano da rinforzo, per un totale di almeno venti effettivi sempre all’erta.

La maggior parte dei membri del TMD era composta da effettivi dell’Agenzia, ma c’erano anche parecchi poliziotti e civili che avevano superato l’esame d’ammissione, e che erano destinati perlopiù a mansioni logistiche. Cadetti e soldati semplici vivevano in caserma, nei dormitori nella parte sud della sede, mentre ufficiali, sottufficiali e qualche soldato scelto avevano delle abitazioni proprie e fuori dal lavoro conducevano un’esistenza qualunque.

Kingsey apparteneva alla folta schiera dei cosiddetti oriundi, civili che all’accesso al TMD avevano fatto seguire anche quello nell’Agenzia, sì da garantirsi i gradi militari, un miglior stipendio e la possibilità di costruirsi una carriera.

Prima di essere un agente ed un soldato, infatti, Kingsey era stato un pugile, ma quando lo sport che tanto adorava era pian piano caduto nell’ombra a vantaggio del più pirotecnico chandra, si era visto costretto a cercarsi un’altra occupazione, trovando nel TMD il posto ideale per rimettersi in gioco.

Ciò nonostante il giovane non aveva perso la passione per la boxe, e ogni mattina, se le circostanze lo permettevano, era solito smaltire gli ultimi torpori nella palestra della caserma, gonfiando un sacco o incrociando i guantoni con qualche collega.

Quel giorno la situazione appariva abbastanza tranquilla. Kingsey e la sua squadra, formata dal ricognitore-stregone Erikson Ladier e dai soldati Kate Bouy e Claude Grill, erano di riserva, e anche se poco dopo il suo arrivo era stata segnalata un’emergenza alla cittadella commerciale di Saint Augustine, i due team già inviati sul posto sembravano avere tutto sotto controllo.

Mentre Bouy e Grill si scioglievano le gambe sui tappetini, e Ladier ammazzava il tempo leggendo uno dei suoi adorati romanzi di fantasia all’ombra di un albero in cortile, Kingsey aveva trovato come sfidante del giorno il suo giovane parigrado Jake Aulas, il pupillo del Capitano Vyce.

Jake era un bravo soldato, anche se un po’ irruento, e come pugile ci sapeva fare, ma non era comunque al livello del suo avversario; al terzo round Kingsey gli scaricò contro tre colpi in successione, due al costato e uno al volto, e il ragazzo andò al tappeto gettando la spugna.

«Non te la cavi male» disse amichevolmente aiutando lo sconfitto a rialzarsi.

«Ma non abbastanza, a quanto pare.»

«Per quello c’è tempo».

Vyce entrò in quel momento nella palestra. Da buona addestratore militare qual era, ostentava un passo sicuro e l’espressione amichevole che sapeva tuttavia incutere rispetto; e mentre Kingsey tornava al proprio angolo, gli lanciò un asciugamano.

«Me ne hai già smontato uno di prima mattina?»

«È più bravo di quanto sembri» rispose l’Agente Walcott con la familiarità che solo l’intrattenere un felice rapporto anche fuori dal lavoro poteva garantire «Ho dovuto sudare per costringerlo a desistere. Non mi sorprende che tu lo tenga in così alta considerazione».

Vyce rise, rifacendosi però serio nello spazio di un istante.

«Posso parlarti?».

I due si appartarono in un angolo della palestra, sedendosi ad una panchina, e mentre Kingsey si reidratava con un integratore, Vyce fissava il vuoto come se avesse avuto paura di parlare.

«Ho parlato con il Direttore» esordì il Capitano. «C’è la possibilità di farti trasferire al programma di collaborazione interforze. Agente di collegamento a bordo delle astronavi di Caldesia.»

«Non è un lavoro da polizia militare?»

«Bastano i tuoi gradi. È sottinteso che dovresti viaggiare parecchio. Tra spedizioni nel sistema solare, esercitazioni e confini vari, parliamo di almeno una settimana al mese lontano da casa.»

«Meglio una settimana fuori casa che una vita intera in una fossa.» sorrise il giovane tra l’ironico e il desolato.

I due si guardarono negl’occhi.

«Sei sicuro di volerlo fare? Pensavo ti piacesse stare qui.»

«Le cose sono cambiate, amico mio. Da quando Maryon e io stiamo insieme, tutto mi appare diverso. Non mi fraintendere, essere un TMD mi piace ancora. Ma in fin dei conti, Maryon ha ragione. Quando lavori qui, ogni giorno potrebbe essere quello buono. Da una parte ti aiuta a vivere pienamente ogni cosa che fai, dall’altra però, per la prima volta, sento di avere qualcosa da perdere. Qualcosa di particolare. Capisci cosa intendo, non è vero?»

«Più o meno sì» rispose Vyce con una strana espressione sul viso. «Passerò la richiesta. Se tutto và bene, potresti ottenere il trasferimento nel giro di un mese.»

«Ti ringrazio. Sei un grande amico.»

«Ma di che? Più giovani vedo uscire da qui con le proprie gambe, meglio mi sento» e gli diede un’amichevole pacca sulla spalla. «Dammi retta, la famiglia prima di tutto. E poi, non mi avevi detto che volevate anche un bambino?»

«Ci stiamo lavorando» rise Walcott. «Ma quello vorrei posticiparlo il più possibile. Non mi sento ancora pronto per poppate e pannolini».

Pensarono entrambi di continuare quella piacevole conversazione davanti ad un caffè, ma all’improvviso la sirena dell’allarme risuonò come un fosco presagio, allertando l’attenzione di tutti, soldati e personale, cui fece seguito quasi contemporaneamente un inquietante messaggio.

«Allarme prioritario! Stato d’Emergenza Due! Tutte le squadre di riserva si preparino immediatamente a partire! Questa non è un’esercitazione! Ripeto: questa non è un’esercitazione!»

«Emergenza Due!?» disse attonito Vyce. «Che sarà successo di tanto grave?».

Kingsey non perse tempo a domandarselo, e radunata la sua squadra spedì tutti in armeria per il rifornimento con l’ordine di essere pronti a partire in due minuti.

Quanto a lui, raggiunse una piccola stanza attigua a quella dove era stoccato l’equipaggiamento di tutti gli altri membri della squadra, cui ebbe accesso dopo aver fatto scansionare la propria iride al lettore accanto alla porta.

«Benvenuto, Agente Walcott» disse una voce elettronica appena il giovane, una volta entrato, si fu posizionato su di una piattaforma al centro della stanza. «Attivazione armamento».

Coloro che appartenevano ai Reparti d’Assalto erano diversi dai loro compagni; per loro non c’erano le tute protettive dei soldati d’Incursione o le scarne corazze dei Ricognitori. Il loro compito era quello di affrontare la minaccia a viso aperto, guardandola dritta negl’occhi, e per poterci riuscire necessitavano di un equipaggiamento speciale, a cominciare da un’adeguata protezione.

La corazza dei Leoni, come erano chiamati i membri dei Reparti d’Assalto, era un concentrato di tecnologia e antica sapienza metallurgica, combinando una poderosa difesa che solo un pollice di acciaio e krylium riusciva a fornire con una discreta libertà di movimento, fatta di varie parti mobili unite tra loro da giunture in metallo armonico di grande elasticità.

Fino a poco tempo prima la vestizione doveva essere fatta a mano o quasi, ma di recente era entrato in funzione un nuovo sistema che tramite il riconoscimento dell’iride selezionava e assemblava autonomamente la corazza di ogni soldato, velocizzando i tempi.

Kingsey si mise al centro della pedana, gambe leggermente divaricate e braccia distese ai lati, mentre tutto attorno, scendendo dal soffitto, comparivano lunghe braccia metalliche, e un po’ alla volta l’armatura gli venne letteralmente saldata attorno.

Prima comparvero gli schinieri e i gambali, dal basso, che come una bocca si chiusero sulle sue gambe dopo essere emersi da sotto, quindi fu il turno di guanti e avambracci, fatti scendere dall’alto e posizionati al loro posto dagli arti meccanici. Si trattava forse della parte più articolata e complessa dell’intera armatura; una mano umana non sarebbe mai stata in grado di impugnare efficacemente gli enormi e pesantissimi equipaggiamenti in dotazione ai Leoni, e per questa ragione il guanto non era in realtà che un secondo arto,  grande quasi il doppio della mano dell’utente. Questa in realtà era posizionata all’altezza del polso, ed era collegata alla propria protesi metallica tramite una serie di sensori che ne permettevano un completo movimento, fino a permettere una forma rudimentale di percezione tattile che aumentava l’affinità e facilitava il lavoro.

La corazza vera e propria comparve solo nell’ultima parte della vestizione, divisa in parte frontale e posteriore, che come le due metà di un guscio vennero riassemblate e saldate attorno a Kingsey; a lavoro finito, con l’aggiunta delle spalliere, il Capitano si era tramutato in una specie di minaccioso carro armato su due gambe.

Come ultimo atto, una delle tante nicchie posizionate a distanze regolari tutto attorno alla pedana e contrassegnate con un avviso di pericolo radiazioni si aprì lentamente, e da esso uno dei bracci meccanici prese una grossa batteria al krylium grande quanto una palla da rugby; questa venne rinchiusa all’interno di una sorta di involucro metallico triangolare simile alla sommità di un terzo omero, il quale venne saldato dietro la schiena del giovane soldato all’interno di un’apposita rientranza.

Nel momento in cui la batteria fu collegata all’armatura, entrambe emisero un tenue bagliore, e solo a quel punto i sostegni che sorreggevano Kingsey vennero allentati, permettendogli di posare i piedi a terra; senza l’appoggio di quella fonte di energia, infatti, sarebbe stato impossibile per chiunque sopportare il peso di quasi duecento chili di metallo, cui venne aggiunto anche un cinturone cui era assicurata una pistola che, per dimensioni che per rinculo, neanche l’essere umano più forte avrebbe potuto maneggiare.

Terminata la vestizione, Kingsey lasciò stanza per una seconda porta, uscendo direttamente nell’hangar dei veicoli.

Giunto alla camionetta della sua squadra vi trovò già i suoi tre compagni, che lo salutarono mettendosi sull’attenti.

«Squadra Folgore, in marcia!» ordinò.

 

La cittadella commerciale di Rue Saint Augustine era circondata da un impressionante cordone di polizia e agenti della MAB, con transenne, sbarramenti e persino dei reticolati, e l’intero edificio era stato precauzionalmente rinchiuso all’interno di una cupola magica che ora lo avvolgeva interamente come una gigantesca bolla di sapone.

I due automezzi che trasportavano i rinforzi giunti dalla caserma dovettero farsi strada attraverso un mare di folla, soprattutto curiosi, ma anche il solito gruppo di manifestanti e infervorati che non perdevano occasione per farsi sentire ogni qualvolta scoppiavano incidenti di quel genere.

Nel grande piazzale antistante l’ingresso principale, un grande quadrato lastricato di marmo e puntellato da piccole aiuole, erano stati allestiti un campo base ed un centro coordinamenti, e lo stesso Capitano Vyce, intuendo la gravità della situazione, aveva ottenuto di recarsi personalmente sul posto per prendere in mano personalmente lo svolgimento delle operazioni: dopotutto, era risaputo che il Direttore Harlow nutrisse più fiducia in lui che in chiunque altro all’interno dell’unità, tanto da considerarlo quasi il suo secondo.

Quando Vyce, accompagnato da Kingsey, entrò nella tenda di comando, i sottufficiali e gli altri agenti, non solo della MAB e del TMD, gli fecero immediatamente il saluto.

«Tenente Patton, responsabile intelligence per la Polizia» gli disse un anziano sottufficiale.

Oltre a lui c’erano anche il Capitano Kallen, ufficiale in comando delle squadre TMD intervenute sul posto, e il Privato Zoe, famiglio emancipato dello stesso capitano che dopo la liberazione era voluta restare accanto al vecchio padrone, mettendo a sua disposizione le proprie esperienze di ricognitrice e cacciatrice d’informazioni.

«Riposo, Tenente. La situazione?»

«Drammatica» rispose Patton chiamando tutti attorno alla mappa tridimensionale che gravitava al centro della stanza. «All’incirca un’ora fa, un’EDA è apparso all’interno del centro commerciale iniziando ad assalire chiunque gli capitasse a tiro. I testimoni dicono che una commessa ha dato di matto e si è trasformata maneggiando un vessel che probabilmente era difettoso.»

«Quel bastardo è terribilmente coriaceo» mugugnò Kallen a denti stretti. «Un plotone SRT che stava perlustrando il centro alla ricerca di civili è stato attaccato e quasi massacrato. Ho mandato dentro le nostre due squadre per aiutarli e neutralizzare l’EDA, ma di otto che erano sono tornati in cinque. Tre sono morti, e due SRT sono ancora là dentro. Uno pare sia ferito gravemente.»

«Di che EDA stiamo parlando?» domandò Kingsey. «Un Classe Alfiere?».

I due uomini e Zoe lo guardarono severamente, stando un attimo in silenzio.

«No, ragazzo. Un Classe Regina».

Nel sentire quella parola, persino Vyce rimase di sasso.

Classe Regina.

Ovvero, EDA che non risentivano del deterioramento genetico proprio dei loro simili.

Solitamente gli EDA avevano un’aspettativa di vita molto breve, il più delle volte di appena qualche ora, poiché il potere magico da cui traevano energia tendeva inesorabilmente a consumarsi; i Classe Regina, invece, erano più resistenti, e possedevano un core stabile, che consentiva loro di sopravvivere in modo non dissimile da qualunque altro essere vivente. Inoltre, a differenza degli altri EDA, il cui comportamento era dettato solo dall’istinto di conservazione, i Classe Regina sembravano possedere un qualche retaggio della loro condizione umana, tale da permettergli una rudimentale capacità di pensare, forse anche di pianificare, e all’apparenza anche un briciolo di memoria.

Ma la cosa più orribile che aveva, e rendeva l’epiteto Regina decisamente calzante, era l’orrenda peculiarità, che permetteva loro, proprio come le regine di un alveare o un formicaio, di dare vita a intere legioni di propri simili infettando i cadaveri delle proprie vittime, i quali una volta deceduti tornavano in vita sotto forma di EDA, contribuendo a rendere un’eventuale manifestazione ancor più problematica e difficile da arginare.

Solo una decina d’anni prima nessuno aveva mai neppure visto un Classe Regina, ma nell’ultimo periodo il loro numero era pericolosamente e drammaticamente aumentato; secondo i più la causa era l’eccessiva diffusione dei vessel, che permettevano anche a chi non era dotato di un core sufficientemente sviluppato di esercitare la stregoneria, ma dalle controindicazioni potenzialmente molto pericolose.

«C’è già un’infestazione in atto?» chiese Kingsey.

«Purtroppo sì.» rispose Zoe. «Abbiamo portato via più corpi possibili, ma i superstiti e gli agenti sopravvissuti parlano di almeno quaranta tra Classe Pedone e Cavallo ancora all’interno.»

«Com’è possibile che la situazione sia degenerata fino a questo punto?» domandò Vyce quasi contrariato.

«Lo stronzetto è furbo» ringhiò Patton. «Ha aspettato che i nostri si avventurassero in profondità nel centro commerciale prima di attaccarli.»

«Sappiamo se ci sono ancora dei civili intrappolati all’interno?»

«Nessuno» rispose Kallen. «Abbiamo inviato famigli e sonde di esplorazione. A parte i due SRT, lì dentro non c’è anima viva.»

«Allora la priorità è portare loro in salvo. Dove si trovano?»

«Abbiamo perso i contatti dieci minuti fa a causa delle interferenze prodotte dalla barriera. Ma se non si sono mossi, dovrebbero trovarsi qui: Nella zona ristoranti.»

«Walcott

«Signore?»

«La squadra di Howard si occuperà di attirare altrove l’attenzione degli EDA per garantire un’estrazione in sicurezza. Terranno quei mostri lontani dai ristoranti. Nel frattempo, tu e i tuoi uomini dovrete recuperare e portare al sicuro gli agenti feriti dopo essere entrati dal tetto. Appena saranno stati portati in salvo, andrete a dare manforte ad Howard e ai suoi. Sterilizzate l’area e chiudiamo questa storia il prima possibile. Tutto chiaro?»

«Sissignore».

Dopo poco Kingsey uscì dalla tenda, incontrandosi con il suo parigrado Tidus Howard che guidava la seconda squadra destinata a prendere parte all’operazione, gli Eagles.

«Niente colpi di testa» si raccomandò. «Teneteli impegnati fino al nostro arrivo.»

«Sta tranquillo» scherzò lui. «Ve ne lasceremo qualcuno» e detto questo si avviò verso i suoi compagni per aggiornarli sulla missione.

Kingsey invece raggiunse un furgone dell’Agenzia, e aperto uno sportello sulla fiancata rivelò il mostruoso fucile da 75mm in dotazione ai Reparti d’Assalto, un vero e proprio cannone portatile capace di sparare proiettili da sette chili e gestire un potere magico impensabile per qualunque altro fucile o bastone da battaglia.

Nonostante il supporto offerto dalla sua armatura, il giovane dovette metterci un po’ di forza per riuscire a sollevarlo. dopo averlo collegato alla presa della batteria per mezzo di un lungo cavo elastico che spuntava dal calcio, lo assicurò all’apposito fermo alla base della schiena, proprio mentre Erikson e gli altri lo raggiungevano per avere informazioni.

«Allora, statemi a sentire. È una missione di Recupero e Soppressione. Dobbiamo portare fuori da lì due agenti rimasti bloccati. Una volta che li avremo salvati, torneremo indietro e daremo manforte ad Howard e chiuderemo la faccenda. Tutto chiaro?»

«Che tipo di resistenza troveremo?» chiese Kate.

«È qui che vi voglio. Abbiamo a che fare con un Classe Regina, che a quanto pare si è già creato un bell’esercito di tirapiedi. Il che significa: niente iniziative. Testa bassa, culo stretto, e sparate solo se necessario. Howard cercherà di garantirci la copertura necessaria, ma siate pronti ad ogni cosa».

Kingsey si fermò un attimo, prendendo un breve respiro; in quanto caposquadra non poteva permettersi il lusso di apparire insicuro o preoccupato, ma nessuno dei suoi compagni nutriva il minimo dubbio sulla sua competenza, e poteva contare sulla loro più assoluta fiducia.

«Forza, allora. Facciamo il lavoro e torniamo a casa» sorrise. «In fin dei conti, abbiamo tutti di meglio da fare» quindi lui e gli altri incrociarono il pugno destro. «Uno, due, tre…»

«Folgore!»

 

La zona commerciale di Saint Augustine, vista da fuori, sembrava quasi un villaggio di campagna, o una piccola cittadella, ed era proprio a questo che i suoi architetti avevano voluto farla assomigliare.

Più ci si avvicinava al centro della struttura più questa si alzava verso l’alto, con il grande eliporto a svettare sulla sommità della torre principale, unico edificio i cui negozi ospitati all’interno - soprattutto gioiellerie e altri centri di lusso. Le altre attività commerciali erano disseminate tutto intorno, con il retro degli edifici più esterni che andava a formare il variopinto ed elegante muro di cinta, idealmente attraversato da un piccolo fossato di acqua cristallina che ne segnava interamente il perimetro; si accedeva attraverso cinque diversi ingressi, strade maestre che poste ad uguale distanza l’una dall’altra confluivano verso la grande piazza ai piedi della torre, diramandosi lungo il tragitto in una serie di stradine, viuzze e porticati.

Per rendere la cosa ancor più realistica, ogni negozio rassomigliava in tutto e per tutto ad una elegante residenza signorile, dipinta con motivi allo stesso tempo sgargianti ma sobri, con ampie vetrine e un secondo piano dove facevano bella mostra di sé finestre, persiane mezze chiuse e balconcini. La maggior parte erano solo sceniche, ma alcune erano vere e proprie case, cosicché la cittadella risultava allo stesso tempo una zona sia commerciale che residenziale, anche se gli affitti erano a dir poco stratosferici.

E poi c’erano i sotterranei. Due in tutto, ognuno occupato nella sua interezza da una diversa realtà commerciale, con l’enorme supermercato nel primo piano interrato e le piscine olimpioniche con annessi centri relax nel secondo; vi si poteva arrivare con scale mobili, ascensori e trasporti a nastro disseminati un po’ ovunque, e grazie ad una serie di aperture nelle strade e nelle piazze soprastanti coperte da controsoffitti trasparenti, la luce del sole riusciva ad arrivare persino laggiù.

Forse non era l’impianto commerciale più grande di Kyrador, ma era sicuramente il più caratteristico e apprezzato, soprattutto dalla gente che contava, a due passi dal centro e nel cuore del Secondo Distretto.

Mentre l’elicottero percorreva il breve tragitto tra il campo base e la pista di atterraggio sulla torre, Kingsey e gli altri gettarono uno sguardo sulle strade sottostanti, trovandole deserte e prive di vita, ma la cosa non li sorprese più di tanto: era risaputo che gli EDA detestavano la luce del sole e cercavano di evitarla, quindi era probabile che si fossero rifugiati nei sotterranei o nella torre.

«Quindici secondi!» disse il pilota mentre si iniziava la salita finale.

Tutti, come da abitudine, ricontrollarono un’ultima volta le armi, e Kingsey, sfiorato un interruttore posto sul collo, materializzò l’elmetto dell’uniforme tutto attorno alla propria testa, tramutandosi così in una sorta di mostro metallico dall’aria minacciosa e invalicabile.

I quattro si guardarono, quindi, appena giunti sopra l’eliporto, e Claude aprì il portellone.

«Fuori! Fuori!» ordinò Kingsey, e tutti si lanciarono da dieci metri d’altezza, usando le proprie divise speciali per attutire la caduta e atterrare senza danni.

Velocemente raggiunsero la porta del casotto nell’angolo della pista, aprendola su di una scala a chiocciola che stando alle mappe li avrebbe condotti direttamente nella zona ristoranti all’ultimo piano.

«Siamo dentro» disse via radio il Capitano mentre lui e i suoi scendevano. «Procedete.»

«It’s showtime!» rispose elettrizzato Tidus, che malgrado caposquadra aveva la tendenza ad accendersi facilmente.

Da una finestrella lungo le scale i quattro agenti videro un altro elicottero alzarsi dalla base e scaricare dall’alto i membri della squadra Eagle, che sfondata una delle vetrate panoramiche lungo una delle strade maestre atterrarono direttamente al primo livello sotterraneo, e dopo pochi attimi cominciarono già ad arrivare via radio i primi colpi di pistola.

«Siamo in ballo! Andate!»

Non senza essere preparati a qualche imprevisto, Kingsey e i suoi lasciarono dopo poco la scala di servizio ritrovandosi direttamente all’interno di uno dei tanti ristoranti che riempivano i piani più alti della torre.

In giro non c’era anima viva, ma anche lì, come probabilmente in tutte le altre parti del centro, era evidente l’effetto catastrofico e drammatico generato dalla comparsa dell’EDA. I tavoli, le sedie, persino i vasi di fiori e le panchine erano sottosopra, piatti e bicchieri giacevano in terra o abbandonati un po’ dappertutto, ed era possibile sentire l’olezzo dei cibi rimasti a bruciare sui fornelli prima che venisse staccata l’energia.

Ovunque silenzio di morte.

L’assenza di sangue faceva pensare che non vi fossero state vittime, e benché quell’area fosse stata isolata per salvaguardare i due agenti rimasti intrappolati, il rischio di imbattersi in qualche EDA era considerevole, tanto che la Folgore non abbassò un attimo la guardia, dandosi direttive e istruzioni con il linguaggio dei segni o quello telepatico, stando bene attenti a fare meno rumore possibile.

Scale mobili, ascensori e quant’altro erano stati tutti disattivati, così la squadra dovette farsi strada attraverso i vari piani rigorosamente a piedi, immersi in una quiete innaturale che pareva celare minacce dietro ogni angolo. A causa della perdita di contatti non era stato possibile stabilire l’esatta posizione degli agenti da salvare, ma l’analisi termica condotta prima dell’avvio della missione aveva segnalato la presenza di due fonti di calore di probabile origine umana al dodicesimo piano, così Kingsey e i suoi continuarono a scendere di livello in livello fino a raggiungere la loro destinazione.

Come misero piede al piano desiderato cominciarono i problemi. Forse non si era stati abbastanza veloci ad isolare l’area, o forse quella zona era raggiungibile per vie traverse che i tecnici non avevano preso in considerazione, ma scesa l’ultima rampa di scale la Folgore trovò ad attenderli un piccolo gruppo di EDA, poveri sventurati che non avevano fatto in tempo a sfuggire alla furia dell’EDA e che neanche con la morte erano riusciti a porre fine alle proprie sofferenze.

Dal punto di vista della pericolosità, se presi singolarmente erano bersagli relativamente facili, che pur sapendo ancora correre attaccavano in modo istintivo risultando prevedibili, ma se incontrati in gran numero allora la faccenda era assai più problematica, poiché era come essere assaliti da un branco di canni rabbiosi.

In quei casi un proiettile in testa, o una scarica di potere magico che mandasse in corto la loro energia corrotta, era l’unico gesto caritatevole che si potesse compiere nei loro confronti, e la squadra di Kingsey non esitò ad agire in tal senso. Claude e Kate fecero fuoco con le pistole provviste di silenziatore, mentre Erikson si limitò ad usare il suo incantesimo Freezing Chain per immobilizzarli e renderli bersagli ancor più facili. Il Capitano, invece, non fece nulla: la sua riserva di munizioni era troppo scarsa e preziosa per sprecarla su pesci piccoli come quelli.

Abbatterli risultò stranamente facile; probabilmente l’EDA che li aveva generati non era molto potente, ma in ogni caso Kingsey e gli altri ne fecero scempio lasciandoli tutti a terra senza vita.

«Munizioni?» si sincerò il Capitano.

«Due caricatori per pistola, cinque per fucile.» rispose Kate.

«Idem come sopra.» la incalzò Claude.

«Erikson

«Mi sono appena scaldato.»

«Andiamo allora. Se loro sono qui, significa che anche i nostri agenti probabilmente non sono lontani».

E infatti, fatti pochi altri metri lungo l’ampio corridoio che congiungeva la parte esterna della torre con l’immensa tromba che da quel piano scendeva giù a strapiombo fino a terra in un susseguirsi di rampe e balconate, il rilevatore termico indicò qualcosa all’interno di un ristorante etnico della catena Amaterasu Dokutsu, la più famosa dell’arcipelago di Zipangu.

Come tutti i locali della stessa catena era arredato in modo particolare, con ampi paraluce, coperture a soffietto e varie stanzette divise tra loro da pareti di carta, che se da una parte rendevano tutto molto suggestivo dall’altra ne facevano un luogo ideale per le imboscate.

Tuttavia, nel momento in cui Erikson, che guidava un gruppo, posò un piede sul pavimento ligneo, questo scricchiolò con un suono strano, simile al cinguettare di un uccellino, e immediatamente in un altro punto della grande sala si udì il rumore di una sicura che veniva rimossa.

«Lampo!» gridò allora istintivamente Kingsey.

«Fulmine!» rispose dopo qualche secondo una voce altrettanto vibrante, e allora tutti abbassarono le armi e si fecero avanti.

Quel giovane agente aveva avuto una gran bella pensata. Con quel pavimento così rumoroso, sarebbe stato impossibile per chiunque riuscire ad entrare senza essere notato.

«Agente Scelto Benjamin Masticht, Signore. Squadra SRT» disse il giovane apparso dalla porta delle cucine, fucile a tracolla e qualche macchia di sangue sull’uniforme, per fortuna non sua. «Sono felice che siate qui.»

«Riposo, soldato. Siamo venuti ad aiutarvi. Ci hanno detto che uno di voi è ferito.»

«Sì, Signore. Il Caporale Pinkerton, il mio caposquadra. Venite».

 

Kingsey e i suoi avevano visto coi loro occhi in più occasioni i segni dell’attacco di un’EDA, sia sui cadaveri che su vittime ancora vive, ma ogni volta era uno strazio assistere ad una cosa del genere.

Dal canto suo, il Caporale Pinkerton pur nella sventura era stato incredibilmente fortunato; le ferite inflitte da un Classe Regina avevano un effetto mutante solo sui defunti, ma ogni singolo EDA si portava dietro un ricettacolo di infezioni psicofisiche che tramite il morso potevano avere effetti devastanti sia sul piano energetico che, soprattutto, su quello fisico. L’EDA che aveva assalito il Caporale era un pesce piccolo, Classe Pedone, ma il morso che quel maledetto era riuscito ad infliggergli alla gamba destra era riuscito a penetrare le protezione e ad incancrenire orribilmente l’arto, rendendolo nero, putrescente e quasi insensibile.

Masticht, da bravo agente, aveva applicato un laccio emostatico per fermare l’infezione e somministrato attenuatori e incantesimi lenitivi, ma il suo superiore era comunque ridotto molto male, seduto sulle mattonelle fredde della cucina in uno stato di semi-incoscienza, febbricitante e sudato.

«Quartier Generale, qui Folgore. Abbiamo trovato gli agenti superstiti, ma abbiamo una ferita da aggressione in pieno decorso. Si richiede urgente trattamento profilattico e predisposizione per un’estrazione d’emergenza.»

«Ricevuto, Folgore. Portate il ferito alla terrazza panoramica di quel piano. Lo recupereremo da lì.»

Mentre Claude e Kate approntavano la barella portatile di emergenza per trasportare il Caporale ed Erikson ne leniva le sofferenze applicandogli vari incantesimi curativi, Kingsey chiese conto al giovane Masticht di quanto accaduto.

«Sembrava un incarico facile» disse l’Agente con espressione atterrita e gli occhi spalancati. «Non abbiamo quasi trovato resistenza mentre avanzavamo. Poi all’improvviso, appena siamo entrati nella torre, è cominciato l’inferno: i miei compagni sono spariti nel nulla uno dopo l’altro, come se una mano invisibile li avesse afferrati e trascinati via. Abbiamo sparato in tutte le direzioni, ma quel maledetto essere non si è mai fatto vedere. Poi sono arrivati quegli altri. Il Caporale ha lanciato una granata, e subito dopo lo hanno morso. Io l’ho preso, ho fatto ripartire un ascensore, e siamo scappati».

Dovette fermarsi, perché il tremore alle mani si era fatto tale che il suo fucile tintinnava sulle parti metalliche dell’uniforme.

«Mi scusi, Signore.»

«Non fa niente. È normale sentirsi così dopo aver visto morire i propri compagni. Ora pensiamo a portare al sicuro il tuo Caposquadra».

Con molta cura il Caporale venne caricato sulla barella, che, scortata da Kingsey, Erikson e il giovane Masticht, fu condotta velocemente sulla grande terrazza a semicerchio che come una cupola rovesciata si protendeva verso l’esterno sospesa nel vuoto a quasi duecento metri da terra.

Al loro arrivo l’elicottero era già in posizione di volo stabile sopra le loro teste, producendo con l’incessante rotare delle pale raffiche di vento che sollevavano senza sosta nuvole di polvere, oltre agli eleganti tavoli da giardino e le sedie di vimini della caffetteria all’aperto che riempiva interamente il vasto balcone.

«Non lasciarti andare, soldato» continuava a ripetergli Kingsey per impedirgli di addormentarsi. «Te la caverai. Continua ad ascoltare la mia voce».

Uno dei membri dell’equipaggio aprì il portello laterale, e venne calata una fune cui assicurare la barella.

«Preparati, ragazzo. Quando lui sarà salito toccherà a te».

Masticht, però, non sembrava intenzionato ad andarsene.

«Capitano, con il suo permesso vorrei venire con voi. Sento che potrei esservi di grande aiuto.»

«Non è necessario che tu rischi la vita, Agente Masticht. Hai già dimostrato pienamente il tuo valore. Il tuo posto è sull’elicottero.»

«Con il dovuto rispetto, signore, quel bastardo ha ucciso i miei compagni. Non mi sentirò in pace con me stesso se prima non gli avrò piantato un proiettile in testa».

Alle volte era difficile riuscire a distinguere l’intraprendenza dalla follia, ma il giovane Masticht in quel momento aveva negli occhi un tale ardore, e una tale voglia di rivalsa, che Kingsey non se la sentì di soffocare la sua fiamma.

«D’accordo, Agente.»

«La ringrazio, Signore.»

«Tanto è probabile che a quest’ora ci abbiano già pensato i ragazzi della Wheelfire

A tal proposito il Capitano si rimise in contatto con il suo parigrado per avere informazioni sullo stato delle cose, e la prima cosa che sentì aprendo il canale furono raffiche di mitra.

«Rapporto!»

«Tutto alla grande!» rispose sovreccitato Tidus. «Per ora abbiamo incontrato solo gregari, ma li teniamo a bada senza problemi. Certamente ce ne sono più di quelli che i capoccia della logistica avevano predetto, ma nulla di significativo. Se non vi sbrigate ad arrivare, finirà che vi lasceremo a secco!».

In quell’istante, in sottofondo, si udì dapprima un sibilo, e subito dopo uno straziante urlo di dolore che si allontanava sempre di più, seguito da nuove raffiche e grida scomposte.

«Ma cosa diavolo…» si sentì strillare Tidus.

«Che è successo?» domandò Kingsey ugualmente allarmato.

«Qualcosa ha afferrato uno dei miei! Lo ha trascinato via!»

«Fate attenzione! Il bersaglio può rendersi invisibile!»

Ma pochi secondi dopo si udì un nuovo urlo, ugualmente spaventoso, e le raffiche si fecero talmente furiose e ravvicinate da rendere impossibile riuscire a capire realmente cosa stesse succedendo.

«Charlie! – Attento! Attento! – Dietro di te! – Muovetevi! – Sparate, sparate!».

Poi, la comunicazione si interruppe di colpo, lasciando il Capitano immobile e sconvolto.

«Maledizione! Muoviamoci!» e senza neppure aspettare che l’elicottero si fosse allontanato lui e gli altri tornarono all’interno della torre.

«Venite con me!» disse Masticht guidandoli attraverso una porticina seminascosta dietro un vivaio. «C’è una scorciatoia che ci velocizzerà la discesa!»

«Come fai a conoscere così bene questo posto?» domando Kate mentre scendevano.

«Ho fatto la guardia di sicurezza qui per un anno. Conosco questo posto come il palmo della mia mano».

In effetti, tramite quella rampa, vennero aggirate quasi tutte le barriere che erano state preventivamente chiuse per isolare la zona ristoranti, anche se ad un certo punto i cinque furono costretti ad abbandonarla poiché non arrivava che al settimo piano, dove cioè finiva l’area ristoro e divertimento e iniziava quella vera e propria dei negozi.

Ancora una volta fu il giovane Masticht a fare loro da guida trovando la soluzione più rapida, e attraversato un corridoio condusse Kingsey e gli altri al grande anello centrale, che ora si presentava proteso in egual misura verso l’alto e verso il basso.

«C’è un’altra scala due piani più in basso, che porta direttamente ai sotterranei!».

Con gli ascensori spenti, il gruppo non ebbe altra scelta che percorrere da una parte all’altra la balconata in direzione delle rampe sull’altro lato.

In giro non si vedeva anima viva, e non vi era traccia di alcun elemento ostile; eppure, Kingsey e gli altri avevano la netta sensazione di essere osservati, tanto che dopo la foga iniziale avevano iniziato a muoversi con maggior circospezione, seppur a passo spedito.

Qualcosa, impossibile capire di che si trattasse, afferrò la caviglia del Capitano come il tentacolo di una piovra che serra istintivamente tutto ciò che la sfiora, sollevandolo violentemente in aria nonostante l’enorme massa che si portava addosso e trascinandolo sempre più verso l’alto dopo avergli fatto scavalcare il parapetto lasciandolo a penzolare sopra cento metri e oltre di vuoto.

«Capitano!».

Istintivamente tutti provarono a sparare, ma quell’essere maledetto, come aveva riferito Masticht, doveva avere la capacità di rendersi invisibile, e inoltre si muoveva ad una velocità tale, saltando in continuazione da una parte all’altra, che riuscire a inquadrarlo era quasi impossibile, per non parlare del rischio di colpire Kingsey.

Questi, a testa in giù e sballottato da una parte all’altra, dapprincipio tentò inutilmente di liberarsi strattonando la gamba prigioniera, ma non ottenendo risultati si risolse a sfoderare il coltello, con cui prese a menare fendenti a casaccio nella speranza di fare centro. Neanche la visuale termica in dotazione agli agenti era d’aiuto: o la barriera ne pregiudicava il funzionamento, o cosa assai più probabile quell’EDA era dotato di una qualche protezione che impediva di leggerne le emissioni di calore.

Riuscire a muoversi in quelle condizioni era più che un’impresa, ma per qualche miracolo o intervento della buona sorte Kingsey, menando un affondo deciso verso l’alto, trovò una innaturale resistenza nel vuoto e appena spinse un po’ dal nulla comparvero piccoli schizzi di sangue, e la lama del pugnale si tinse di rosso; inoltre, nell’aria risuonò un ringhio di dolore.

Il Capitano affondò con decisione e di colpo la presa si sciolse, minacciando di farlo precipitare al suolo; data l’altezza, neanche l’armatura sarebbe bastata a salvarlo da un volo simile.

Per fortuna intervenne Erikson, che invocata la Wind Cage materializzò tutto attorno al suo caposquadra una specie di cuscinetto d’aria compressa che oltre a rallentare notevolmente la velocità di caduta attutì anche il contatto con il suolo, il quale pur risultando molto violento non ebbe nei fatti gravi conseguenze fisiche.

Kingsey si sentì come il tappetino sbattuto e schiacciato di un’automobile, tanto gli facevano male le ossa dopo quel volo pazzesco, e quando finalmente riuscì a rimettersi in piedi si rese conto, con suo grande sgomento, che quello probabilmente era l’ultimo dei suoi problemi.

Nel momento in cui tornò a poggiarsi sulle gambe, infatti, l’armatura gli sembrò di colpo più pesante, e l’indicatore di energia presente sia sul polso sinistro che sulla parte superiore dell’arma aveva subito un crollo verticale di quasi la metà; qualche cavo di alimentazione doveva essersi rotto o danneggiato, e così ora l’energia arrivava sia all’arma che alle fibre disseminate per la corazza solo in parte.

La fatica era tale che bastarono pochi passi perché Kingsey iniziasse a sentirsi senza forze, ma il suo istinto gli diceva che quell’essere maledetto era ancora lì attorno, e messa una mano dietro la schiena afferrò saldamente il fucile, stingendo con forza la maniglia al centro per dargli stabilità.

«Fate attenzione!» gridò ai suoi compagni che osservavano dall’alto. «Quella bestia è ancora qui!».

E infatti, poco dopo, la bestia comparve, annunciata dallo scheggiarsi del pavimento marmoreo e un rumore di passi stentati, quasi a quattro zampe, ma molto rumorosi. Non fu di nascosto; quasi avesse deciso di giocare ad armi pari, come un fantasma che si materializza dal nulla, il mostro si palesò davanti agli occhi del Capitano rapidamente e avvolto da un tenue bagliore, che fece scintillare per un attimo le scaglie pietrose che ricoprivano parte del suo corpo.

Doveva essere stata una donna prima di mutarsi in quell’abominio, perché dal petto emergeva un vistoso e carnoso paio di seni, forse l’unica cosa che ne testimoniava le origini umane. aveva braccia e gambe piuttosto lunghe, con le articolazioni delle ginocchia posizionate al contrario, mani e piedi con solo quattro dita ciascuno, una testa triangolare con due corna ricurve da diavolo, ed una lunga coda da scimmia a metà della quale faceva mostra di sé una grave ferita che buttava sangue a fiotti.

Di solito era raro che gli EDA mutassero al punto da perdere quasi completamente la loro parvenza umana, ma quelli delle classi più elevate, Alfiere e Regina in particolar modo, potevano assumere fattezze abominevoli, oltre a raggiungere, come in quel caso, dimensioni superiori ai tre metri per diversi quintali di peso. Persino Kingsey e i suoi rimasero impietriti: in tante missioni compiute insieme, non avevano mai visto niente del genere.

Il mostro parve esitare, tenendo le distanze dalla sua preda senza tuttavia smettere di guardarla, il respiro roco e quasi affannoso che per interminabili istanti fu l’unico rumore a riempire di tensione e sgomento un silenzio altrimenti assoluto.

Poi, la situazione precipitò di colpo.

Forse attirati dalla presenza del loro padrone, un gran numero di EDA sbucarono fuori da ogni parte della balconata dove si trovavano Kate e gli altri, costringendo gli agenti ad aprire il fuoco; il rumore degli spari rimbombò fragorosamente in tutto l’edificio, e il Classe Regina, lanciato una specie di assordante ruggito, si scagliò contro Kingsey, che senza indugio tirò il grilletto sparando il primo dei suoi dieci proiettili.

Dal cannone partì un colpo che, senza le dovute protezioni, avrebbe potuto ridurre in brandelli qualunque braccio, tanto che i magneti sotto le suole nel fare presa sul terreno arrivarono ad incrinarlo; per non parlare del fragore, della vampata di fuoco, della nuvola iridescente prodotta dallo scoppio e dell’enorme bossolo che venne automaticamente espulso dal retro dell’arma, grande come una gamba umana.

Il vortice di luce generatosi dalla canna andò quasi a vuoto, riuscendo solo a ferire leggermente l’EDA alla spalla destra, ma scaricatosi contro la parete retrostante ne disintegrò una parte aprendo un enorme squarcio nel muro, che tuttavia resistette.

Cercando di fare appello a tutte le sue forze l’agente cominciò a correre per tutto il salone, sparando uno dopo l’altro tutti i proiettili del caricatore non appena ne aveva l’occasione; ma era tutto inutile, perché anche quei colpi che andavano a segno risultavano inefficaci, a causa della spessa corazza rocciosa che ricopriva quasi per intero il corpo di quella dannata bestia.

E ad ogni proiettile che respingeva, l’EDA caricava sempre più a testa bassa demolendo ogni muretto, aiuola e colonna di sostegno dietro cui il Capitano cercava di rifugiarsi, senza che i compagni impegnati in una lotta alla disperata contro un’orda che non voleva saperne di arrestarsi potessero fare qualcosa per lui.

Quando il caricatore infine saltò via dall’alloggiamento, fu chiaro che la situazione stava precipitando; Kingsey non ebbe altra scelta che passare all’alimentazione diretta, anche se per cercare di risparmiare quanta più energia possibile si limitò fin da subito a sparare piccole raffiche di poca potenza, nella speranza che prima o poi lo scudo dell’EDA finisse per cedere.

Ma era tutto inutile, quella bestia era peggio di un carro armato.

L’unica speranza di averne ragione era un attacco di piena potenza, lo Sturmstahl, ma eseguirlo richiedeva tempo, tempo che l’EDA non sembrava volergli concedere; per questo i Leoni non agivano mai da soli: i loro attacchi erano molto potenti, ma spesso lunghi a caricarsi, e necessitavano pertanto di adeguato supporto, o di qualcuno che distraesse il bersaglio il tempo necessario.

E ad ogni attacco la batteria si scaricava sempre di più, rendendo l’arma meno efficace e l’armatura sempre più pesante, tanto che Kingsey ad un certo punto non riuscì quasi più a muoversi tanto aveva il fiatone.

La resistenza disperata del Capitano venne infine annichilita quando il nemico, sventrata una delle poche colonne decorative ancora in piedi, e con un braccio proteso sul volto per difendersi dall’ennesima raffica caricò il suo bersaglio colpendolo in pieno e scagliandolo via con una poderosa manata che lo sparò contro la parete minacciando di frantumargli la schiena.

Un colpo tremendo, che avrebbe messo al tappeto chiunque, e infatti Kingsey, rantolato al suolo tra calcinacci e detriti, non riuscì più a ritrovare la forza per rimettersi in piedi.

«Capitano!» urlarono dall’alto i suoi compagni, ancora impossibilitati ad aiutarlo.

Il giovane aspettava solo il colpo di grazia, che tuttavia per qualche motivo misterioso esitò ad arrivare, e quando gli riuscì di riprendere coscienza di sé si ritrovò a tu per tu con una scena a dir poco insolita: l’EDA era ancora lì, come immobilizzato, intento a fissarsi la mano con cui aveva colpito il suo nemico ringhiando e ansimando sommessamente.

Forse si era ferito, o forse l’estrema durezza della corazza lo aveva colto un po’ di sorpresa.

Una granata gli arrivò improvvisamente alle spalle, e pur non generando un’esplosione abbastanza potente da riuscire a danneggiarlo lo fece piegare con violenza in avanti, tanto che solo puntellandosi sulle lunghe braccia riuscì ad evitare di cadere.

Alzati gli occhi, Kingsey vide il suo amico Tidus dinnanzi all’ingresso sventrato, il braccio sinistro gravemente ferito, l’uniforme lacera, e il volto ridotto ad una maschera di sangue e odio, che reggeva il proprio fucile sorreggendolo con una mano.

«Hai ucciso la mia squadra, lurido pezzo di merda!».

Immediatamente l’EDA si concentrò su di lui, e fattosi strada tra le raffiche di proiettili gli piantò con forza una mano nello stomaco, facendola uscire dalla parte opposta inondata di sangue per poi alzare violentemente la sua vittima in aria.

«Tidus

Tidus urlò come un dannato, ma non smise un momento di sparare, tanto che il nemico dovette seguitare a tenere il braccio libero davanti al volto per evitare che qualche pallottola gli finisse negli occhi.

«Ora Kingsey! Ammazzalo!»

«Ma se lo faccio…»

«Non commentare, spara!».

Per lui, con quella ferita, era comunque la fine, e probabilmente dal profondo del suo orgoglio Tidus preferiva morire che vivere con la vergogna di essere sopravvissuto al massacro dei suoi uomini.

Kingsey non ebbe altre esitazioni.

Tratto un lungo respiro, e assieme ad esso tutte le energie di cui era capace, si rialzò, si piantò saldamente sulle gambe divaricate, afferrò con forza il fucile e aprì la valvola centrale di alimentazione, facendovi confluire dentro tutto il potere magico rimasto nella batteria.

L’aria tutto attorno iniziò rapidamente a caricarsi di energia, tanto che persino i pochi EDA ancora vivi ai piani superiori presero a correre come pazzi in ogni direzione dimenticandosi totalmente di Kate e degli altri. Tutto attorno al Capitano, il terreno parve tremare, e quasi la gravità si fosse annullata detriti più o meno piccoli presero a sollevarsi lentamente da terra restando a levitare a mezz’aria.

Le turbine del fucile giravano talmente veloce da produrre un rumore quasi insopportabile, e come Kingsey rilasciò il primo dei due grilletti tutta quell’energia si concentrò sulla sommità della canna dando vita ad un grande circolo magico che brillava di un azzurro argenteo.

L’EDA si accorse solo a quel punto di ciò che stava accadendo, ma ormai era troppo tardi.

Il Capitano tirò il secondo grilletto, e quasi fosse un proiettile esploso da una comune pistola, tutta l’energia accumulata all’interno del circolo venne liberata sottoforma di una vera e propria tempesta distruttrice che sventrando il terreno e facendo volare via anche gli oggetti più pesanti investì in pieno il mostro, il quale ebbe appena il tempo di notare l’espressione ghignante della sua ultima preda ormai morta e lanciare un terrificante urlo di dolore per poi scomparire avvolta da un mare di luce.

Quando gli altri membri della squadra riuscirono finalmente a raggiungere il loro Capitano ormai era già tutto finito.

L’atrio della torre era ridotto in pezzi, con un enorme solco a dividerlo quasi a metà, dentro il quale bruciavano piccoli incendi destinati a spegnersi entro breve. Tutto ciò che non era ancorato al suolo, o non lo era a sufficienza, era stato spazzato via. Colonne, statue e altri arredi estetici in pietra giacevano in pezzi e non era rimasto un solo vetro intatto.

Kingsey era anche lui a terra, e per un attimo tutti pensarono che fosse morto, ma tolto l’elmo e la parte superiore della corazza ci si rese conto che in un modo nell’altro era ancora vivo, anche se distrutto dalla fatica.

«Non fare mai più una cosa del genere, ci siamo capiti?» lo ammonì Erikson. «Ci hai fatti morire di paura.»

Alla fine il suo tiro non era stato molto preciso, sicuramente a causa dello sforzo prolungato, ma i risultati c’erano comunque stati. L’EDA era ancora vivo, ma del suo corpo rimanevano solo la testa e la parte destra del torso, braccio incluso; qualche volta era ancora possibile salvare la vittima di una mutazione, ma non quando questa raggiungeva simili livelli, e il destino di quel poveraccio si era compiuto non appena il suo corpo aveva smesso di essere umano.

La creatura rantolava, sembrava piangesse.

Trascinandosi sull’unico braccio che gli restava, si avvicinò stancamente ai quattro uomini, e nel delirio della fatica Kingsey ebbe quasi l’impressione di scorgere delle lacrime nei suoi occhi bruciati dal calore che lo aveva investito.

Kate e Claude erano già pronti a mettere fine alla sua agonia, ma il giovane Masticht fu più veloce di tutti loro, e sbucando dalle loro spalle sfoderò la pistola esplodendo un primo colpo dritto alla fronte; l’EDA lo ricevette in pieno, mugolando un po’ più forte, ma dopo un attimo di esitazione tornò ad avanzare. A quel punto il giovane sparò altri due proiettili in successione, e al terzo colpo la creatura, finalmente, si accasciò senza vita, giusto un attimo prima che potesse arrivare con la mano protesa a sfiorare il proprio carnefice.

«Questo è per i miei amici, stronzo».

 

Passato il momento della crisi, venne come sempre quello di fare la conta dei danni e, soprattutto, dei caduti.

L’Incidente di Saint Augustine, come sarebbe divenuto celebre in seguito, era stato sicuramente uno dei più gravi mai occorsi a Kyrador, almeno per l’alto numero di vittime. Quarantasei morti, tra i quali otto membri delle forze dell’ordine tra TMD, SRT e semplici agenti di polizia.

Kingsey dovette ricorrere alle cure dei paramedici, ma a parte una sindrome da affaticamento e qualche graffio, se l’era cavata egregiamente. Vyce lo raggiunse mentre, terminata l’ultima visita, si stava rivestendo dopo essersi finalmente liberato della sua ingombrante armatura.

«Buon lavoro, Kingsey

«Ma non abbastanza. Sette dei nostri sono rimasti lì dentro.»

«Lo so. Ma ormai ci ho fatto l’abitudine. E scommetto anche tu.»

«Hai ragione. È per questo che ho ufficialmente chiuso. Oggi mi sono trovato a tu per tu col Tristo Mietitore come mai nella mia vita, e ho capito una volta di più quanto voglia godermi la vita il più a lungo possibile» quindi guardò l’amico quasi con severità. «Questo lavoro lasciamolo agli aspiranti suicidi, o a chi non ha nulla da perdere.»

Detto questo, si avviò velocemente verso il furgone della squadra, infilando nervosamente le sue cose dentro ad un borsone.

«Per quanto mi riguarda, io ho chiuso. Fammi sapere per quel posto di cui mi parlavi.» e se ne andò scomparendo nel più vicino taxi, proprio mentre dalla parte opposta giungeva la solita frotta di giornalisti in cerca del superstite da intervistare.

Vyce se ne liberò prima che potessero accerchiarlo, tornando verso la tenda di comando mentre i paramedici e le unità forensi finivano di portare via i corpi.

«Signore.» lo fermò Patton passandogli un palmare. «I dati dell’EDA abbattuto.»

Il Capitano lo  prese, dandogli una rapida scorta in attesa di rileggere il tutto con più calma al momento di stendere il rapporto. i suoi occhi si spalancarono come quelli di una fiera, e una luce di sgomento si accese nei suoi occhi.

«Oddio, no…»

 

Kingsey tornò a casa con l’animo sollevato. Non aveva paura di essere considerato un codardo.

Sapeva che i suoi compagni, quelli veri, non lo reputavano tale; del resto, era difficile trovare padri di famiglia o giovani felicemente legati all’interno del TMD. Chi prima o chi dopo, quasi tutti quelli che sopravvivevano abbastanza a lungo da guadagnarsi il congedo sceglievano di appendere il fucile al chiodo virando su occupazioni meno rischiose; in fin dei conti, Semper Fidelis era solo una frase. Anche per Kate, Claude ed Erikson sarebbe venuto il momento di dire basta, persino per quella testa matta di Jake.

Lungo la strada di casa il Capitano comprò dei pasticcini e una torta: c’erano da molte cose da festeggiare, e da come l’aveva vista quella mattina aveva il sentore che anche la sua compagna, al suo arrivo, avrebbe avuto qualcosa di importante da riferirgli.

Arrivato a casa aprì il portone, salì le scale, e canticchiando la musica che aveva sentito la sera prima nel suo programma preferito girò la chiave nella serratura entrando in casa.

«Maryon

Le tapparelle erano ancora tutte abbassate, e nell’appartamento regnava il silenzio; a quanto sembrava, una volta tanto, era arrivato prima lui.

Meglio così.

Avrebbe avuto tutto il tempo per mettere insieme il più caloroso dei benvenuti.

Accesa la televisione, si diede immediatamente da fare in cucina, ascoltando distrattamente le notizie del telegiornale mentre cercava di arrabattarsi tra pentole, taglieri e il forno a microonde, mentre la cena più fresca e prelibata che si potesse immaginare prendeva gradualmente forma assieme al pensiero di quale stupenda serata lo attendeva.

Lavorò senza sosta per diverso tempo, e prima che se ne rendesse conto si era ormai fatta sera.

«Come mai non arriva?» si domandò a quel punto il Capitano guardando l’orologio.

Non prese neppure in considerazione l’idea di chiamarla sul comunicatore: Maryon era talmente distratta che lo teneva spento praticamente sempre, persino quando aspettava telefonate importanti. Comunque non era raro che tardasse, soprattutto in quel periodo in cui passava il tempo girovagando in cerca di lavoro, così Kingsey non si preoccupò.

Poi, mentre finiva di preparare la tavola, si accorse che il registratore di messaggi accanto all’appendiabiti stava lampeggiando, e nella speranza che contenesse il perché di un tale ritardo lo accese.

L’immagine in tre dimensioni a grandezza ridotta di Maryon apparve sopra l’apparecchio, sorridente come non mai e con indosso il suo abito migliore.

«Amore. A quanto pare non sono riuscita a dirtelo, ma ero così nervosa che stamattina non ne ho trovato la forza. Stasera come al solito dovrei essere a casa prima di te, ma se così non fosse voglio che tu lo sappia appena arrivi. Ho trovato un lavoro. Per la verità è solo un impiego part-time in un negozio di elettronica, ma il datore di lavoro mi ha già detto che probabilmente passati sei mesi mi assumerà a tempo indeterminato. Cercavano qualcuno che sapesse maneggiare i vessel, e tu lo sai che ne ho una certa dimestichezza. Ne sono molto felice, perché finalmente avrò la possibilità di essere d’aiuto all’economia della nostra casa. Così, tu potrai considerare l’eventualità di lasciare le Squadre Speciali. Lo so che il tuo lavoro attuale ti piace, ma non posso fare a meno di essere in ansia per te ogni volta che ti vedo andare via, e tu mi avevi detto che stavi pensando di lasciarlo. Per questo ho accettato questo impiego. Se il Grande Padre lo vorrà, potrebbe essere l’inizio di un nuovo capitolo del nostro rapporto. Un capitolo bellissimo che non vedo l’ora di scrivere» quindi piegò le labbra in uno di quei suoi sorrisi da bambina. «Ora però sto diventando melodrammatica. Se vedi questo messaggio, aspettami. Sarò a casa al massimo per le sette. A prestissimo, amore mio.»

Kingsey sentì un fastidioso e preoccupante moto d’ansia salire dentro di lui.

Qualcosa non tornava.

Nel messaggio Maryon parlava di essere a casa per le sette, ma ormai erano le otto passate, e di lei non vi era ancora traccia.

Sollevò il telefono e chiamò Dorothy, la sua migliore amica, che abitava nello stesso condominio, chiedendole se sapesse dove si trovasse il luogo di lavoro di Maryon o eventualmente come poterla contattare, ma anche lei parve cadere dalle nuvole: sembrava proprio che quella ragazzina immatura avesse deciso di mantenere il segreto con tutto e tutti fino all’ultimo.

«Grazie lo stesso.»

Mentre riattaccava, al telegiornale l’argomento virò nuovamente su quanto accaduto al centro commerciale, poiché a detta della conduttrice c’erano importanti novità.

«Signori, ora ne abbiamo la conferma. In esclusiva per la CNN, siamo in grado di mostrarvi i resti dell’EDA che oggi è comparso alla Cittadella di Saint Augustine. Ricordiamo per coloro che si fossero messi all’ascolto soltanto adesso che l’incidente di oggi ha provocato oltre quaranta vittime, tra le quali un numero imprecisato di agenti di polizia e delle forze TMD che secondo le nostre fonti varia da due a dieci. A quanto pare l’EDA che è apparso alla cittadella era un Classe Regina, il che porta a cinque le manifestazioni di questo tipo avvenute a Kyrador e nel resto della provincia solo in quest’ultimo mese. Vi avvertiamo che si tratta di immagini piuttosto forti, pertanto suggeriamo la vista solo ad un pubblico maturo e consapevole.»

La visuale si spostò quindi sul parcheggio della cittadella, dove in un gruppo eterogeneo e piuttosto movimentato di persone, sicuramente altri giornalisti, si poteva intravedere in lontananza un corpo orrendamente mutilato e parzialmente coperto da un telo, che una raffica di vento o qualche impiegato infedele doveva avere parzialmente rimosso.

Fu sufficiente uno zoom, e il volto del mostro divenne così vicino da dare l’idea che volesse rompere lo schermo, catturando lo sguardo di Kingsey con la forza ed il magnetismo di un esperto ipnotizzatore.

A causa del deterioramento post mortem parte del tessuto esteriore e delle scaglie rocciose che ricoprivano il corpo dell’EDA si erano nel frattempo dissolte o staccate, riducendo di parecchio le dimensioni della creatura, oltre a portare allo scoperto brandelli di vestiti, monili e altre cose che la violenta trasformazione aveva finito involontariamente per inglobare.

Un luccichio di pochi attimi si rifletté sull’obiettivo, mentre quell’immagine confusa girava a destra e a sinistra.

Sembrava un gioiello; forse un pendente. Un gioiello a forma di ali.

 

  
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