Orchidea.
“Nella
vita tutto, tranne la
coltura di orchidee, deve avere uno scopo.”
– Rex Stout
Sonoko si esibì in un’altra giravolta, sollevando
gli orli del suo
vestito acquamarina per amplificare lo svolazzare della gonna, per poi
riportare immediatamente lo sguardo sull’alto specchio da
parete. Sembrava
soddisfatta, mentre si ammirava e si rimirava nel suo abito leggero, di
tulle
delicato.
«Questo mi piace», mormorò, soddisfatta.
«Però, anche quell’altro, con
le rifiniture dorate...»
Il suo sguardo corse all’altro abito, decisamente
più pomposo e adatto
agli standard di un’ereditiera: il corpetto color avorio,
senza spalline, era
decorato con delicati inserti floreali color rosa antico, che si
attorcigliavano come piante rampicanti, fino a sfociare in ampie
corolle che,
dal rosa, sfumavano in un delicato ricamo aureo. Sonoko se
n’era innamorata non
appena l’aveva visto. Era palese l’incredibile
qualità della fattura - e non
fosse mai che la rampolla della famiglia Suzuki dovesse indossare
qualcosa di
seconda classe.
Ma, davvero, non riusciva proprio a decidersi.
«Tu che dici, Ran?» chiese, voltandosi verso
l’amica, seduta alle sue
spalle su uno dei numerosi divanetti del negozio. Osservava il
pavimento,
assente.
Sonoko le rivolse uno sguardo esasperato, portandosi le mani sui
fianchi e sospirando. Ran non ci fece il minimo caso.
«Ran? Ran!» la chiamò, sventolandole una
mano davanti al viso. Per un
attimo, temette che si fosse persino addormentata. «Terra
chiama Ran Mouri!»
La ragazza scosse il capo, come si stesse effettivamente svegliando da
un sogno ad occhi aperti. Le ci volle un po’ per identificare
la mano che
continuava a passarle avanti e indietro davanti agli occhi, fino a che non fu
abbastanza cosciente
per focalizzarsi sull’amica.
«Cosa?» borbottò, cercando di ricollegarsi alla
realtà. Sonoko. Abito
da sera. Negozio. Sabato pomeriggio. Shopping. «Qualcosa non
va?»
«Oh, be’.» Sonoko agitò le
mani, come se stesse per immergersi in un discorso
di importanza universale. «Siamo qui per scegliere un vestito, io sono nel bel mezzo di
una crisi
esistenziale e tu cosa fai?» Il tempo di concedersi un
sospiro rassegnato,
prima di proseguire: «Vorrei proprio sapere a cosa stavi
pensando, Ran.»
La brunetta sussultò impercettibilmente, ricomponendosi in
una frazione
di secondo. «Niente di importante»,
borbottò. «Qual è il
problema?»
Gli occhi di Sonoko ripresero a brillare. Missione, “ottieni
di nuovo
l’attenzione della tua migliore amica”: compiuta
con indicibile successo.
«Il problema è», attaccò,
tutta sorridente, «che amo questo vestito.»
Ran le rivolse l’occhiata più confusa e scettica
del suo repertorio.
«Quindi?»
Sonoko si voltò ancora nella sua direzione, stupita.
«“Quindi”?!»
ripeté, shockata. «E’ tutto quello che
hai da dire? “Quindi”?!»
La reazione dell’ereditiera strappò a Ran un
risolino - forse il primo
realmente sincero dell’intera giornata.
«Seriamente, Sonoko. Non vedo il
problema.»
Ora, Sonoko la osservava come se avesse a che fare con un caso perso.
«Il vestito. Lo adoro.»
«Ma...?», la incalzò ancora
l’altra.
«Ma adoro anche l’altro», e
indicò l’abito color avorio, «e non
saprei
davvero, davvero scegliere.»
Ran sorrise ancora, osservando entrambi gli abiti con attenzione.
Erano, senza dubbio, tutti e due bellissimi, ma non era lei a dover
compiere
quella scelta.
«Ce ne deve essere uno che ti piace più
dell’altro», mormorò la bruna,
rivolgendo all’amica un sorriso d’incoraggiamento.
Sonoko osservò ancora una volta l’abito che
indossava, e si concedette
l’ennesima piroetta. «Questo è
bello», mugugnò, «ma
l’altro... whoa.»
«Sì.» Ran annuì e sorrise.
«Ero sicura che lo avresti scelto.»
Lo sguardo di Sonoko scintillò di rabbia per un attimo.
«Allora
perché... ah, senti. Lasciamo perdere, okay?»
Ran fu felice di sentirglielo dire.
«Piuttosto...» No. Alla bruna,
quell’espressione sul volto di Sonoko
non piacque affatto. «Tu che ti metterai per il
ballo?»
La karateka abbassò lo sguardo, per poi tornare a guardare
il
bellissimo abito che la sua migliore amica aveva scelto di indossare.
Anche lei
avrebbe voluto mettersi qualcosa del genere.
«Non credo ci verrò, Sonoko.»
L’ereditiera non poté evitare di lanciarle
un’occhiata, sorpresa da
quell’affermazione. «Che vuol dire, non credi...?
Oh, signorina, tu ci verrai
eccome!»
Ran sospirò. «No, Sonoko.»
«Sì, Sonoko»,
ribatté
l’altra. «E’ il ballo del diploma, Ran.
Ti capiterà una sola volta in vita tua.
Non puoi perdertelo.»
«Non ho un accompagnatore.»
Sonoko non poté non notare il sorriso malinconico che si
dipinse sul
volto dell’amica. E Ran sorrideva in quel modo solo quando
c’era di mezzo quella persona.
«Ran», la chiamò, sedendosi al suo
fianco. «Non puoi lasciare che quel
detective da strapazzo ti rovini la vita. Se n’è
andato quattro anni fa, non ti
chiama mai. Merita davvero la tua pazienza, Ran?»
Non ci aveva mai pensato. Non si era mai posta il dubbio: è
degno di
essere aspettato? Sì, Ran.
Ancora
quella vocina nella sua testa. Quella che l’aveva spinta a
continuare ad
attendere senza perdersi d’animo. Lui
tornerà. Te l’ha promesso.
La bruna si asciugò le lacrime, sforzandosi di regalare
all’amica il
sorriso più sincero che avesse.
«Non importa, Sonoko. Davvero.»
«Eccome, se importa!» Ora, l’ereditiera
sembrava davvero fuori di sé.
«Non puoi sprecare un’occasione simile per uno come
lui! Puoi venire comunque.»
«Da sola?» A Ran l’idea non piaceva
affatto.
«Con me.» Sonoko le prese le mani. «E con
Makoto.»
«No, Sonoko.» La karateka sorrideva, ma era tutto
tranne che serena.
«Non ci tengo a fare da terzo incomodo.»
Sonoko sembrava delusa, e non avrebbe certo mollato - Ran lo sapeva.
«Davvero», disse ancora.
«Starò bene.»
Ma le sue parole suonarono false anche alle sue stesse orecchie. Non
sarebbe stata affatto bene.
«Non ce la fai proprio a tornare?»
«Mi dispiace, Ran.» La voce di Shinichi suonava
rauca e distorta
all’altro capo del telefono, ma per lei sarebbe sempre stato
il suono più dolce
e rassicurante del mondo. Anche se doveva darle brutte notizie come
quella.
«Farò il possibile, ma non voglio prometterti
nulla che non possa mantenere.
Questo caso è...»
«Difficile e complicato», finì per lui,
con un malinconico sorriso
stampato sulle labbra. «Lo so, lo so.»
Lui rimase per un attimo in silenzio. «Mi
dispiace», disse ancora. «Mi
dispiace tanto.»
«Non preoccuparti», tagliò corto lei,
scuotendo la mano, anche se
sapeva che lui non poteva vederla. «Non ci tenevo poi
così tanto.»
«... Ne sei sicura?» No. Non l’aveva
convinto neanche un po’.
«S-sì, figurati.» Ran sperò
solo che lui non percepisse la sua voce che
tremava per via delle lacrime che lottavano per uscire. «Era
solo per far
contenta Sonoko, niente più.»
«Mh. Ci... ci vediamo, allora. Tornerò il prima
possibile, promesso.»
«Ci conto.»
Rimase ad ascoltare il beep beep che
annunciava la fine della chiamata per quello che le sembrò
un secolo, prima di
premere il pulsante rosso sulla tastiera e lasciarsi andare sul divano,
distrutta.
La luna piena la metteva sempre di buon umore. Era una bella serata,
pensò, con quella lieve brezza fresca che entrava dalla
finestra e le scuoteva
appena i capelli. Ormai era giugno inoltrato, e il caldo aveva iniziato
a farsi
sentire, ma di sera si stava bene. A Ran non dispiaceva affatto
starsene lì,
seduta accanto alla finestra a godersi il venticello gentile che
muoveva le
tende con la delicatezza con cui si muove la gonna di
un’aggraziata ballerina -
e a proposito di ballerine...
Controllò l’orologio, chiedendosi se il ballo
fosse già iniziato, se
Sonoko fosse già lì con Makoto, se si stessero
divertendo.
Sorrise. Ovvio che si stavano divertendo. Erano insieme, al ballo del
diploma. Ran era davvero felice che Makoto fosse riuscito a trovare un
po’ di
tempo per stare con la sua ragazza, nonostante i mille impegni e viaggi
che il
karate gli richiedeva. Era felice, perché voleva che Sonoko
lo fosse a sua
volta. Chiuse gli occhi, cercando di immaginare l’amica
avvolta nel suo
incredibile abito color avorio, mentre volteggiava stretta al suo
cavaliere
nell’immensa sala da ballo dell’hotel Beika che era
stata affittata per
l’occasione: magari il pensiero l’avrebbe
rallegrata, almeno un po’. Poteva
mentire agli altri - a Shinichi persino, ma non poteva certo mentire a
se
stessa. Lei avrebbe voluto andare a quel ballo. Lo avrebbe voluto con
tutto il
cuore. Sarebbe stata una splendida occasione per mettersi
quell’abito blu notte
che aveva visto in quella vetrina in centro e per passare un
po’ di tempo con
quel detective da strapazzo. Avrebbe anche risposto anche alla sua
dichiarazione, visto che non aveva ancora avuto occasione di farlo.
Ma lui era chissà dove in giro per il mondo, a risolvere
casi di
omicidio come se fossero piacevoli cruciverba. Si sarebbe mai stancato
dei
cadaveri, del sangue, della morte? Ran sorrise tristemente, certa che
la risposta
a quella domanda non sarebbe stata certo a suo favore.
Rimase a guardare il cielo scuro, immobile e in silenzio. Aveva acceso
lo stereo a batterie che suo padre le aveva regalato quando aveva dieci
anni, e
aveva scelto di ascoltare un CD di musica jazz. Il volume basso e la
delicatezza della melodia creava un’atmosfera piacevolissima
all’interno della
stanza. Rimase più ferma che poté, evitando di
pensare al ballo, a Sonoko, o a
qualsiasi altra cosa. Tentava di sgombrare la mente, rilassarsi. Magari
un
bagno era quello di cui aveva bisogno...
Tre colpi delicati alla porta furono quello che le serviva per
distrarsi definitivamente. Non aveva dubbi su chi ci fosse
dall’altra parte -
c’era solo una persona in quella casa che avesse la decenza
di bussare prima di
entrare in camera sua.
«Conan», disse, e si lasciò sfuggire un
sorriso. «Vieni pure.»
Lui si affacciò oltre la soglia. Aveva
quest’assurda idea che le sue
visite potessero in qualche modo disturbarla. La verità?
Conan era una di
quelle persone che Ran avrebbe voluto stessero il più
possibile al suo fianco.
Non erano in molti ad avere questa posizione nella vita di Ran: solo
Conan e un
certo detective di sua conoscenza.
Ogni volta che lo vedeva, Ran pensava a quanto Conan fosse cresciuto
negli ultimi anni. Ormai aveva undici anni, ma era decisamente troppo
alto e
maturo per la sua età. Più di una volta Ran si
era chiesta se lui non le avesse
mai mentito sulla sua età; era persino arrivata a pensare
che in qualche modo,
in quel corpo di bambino, in qualche modo si fosse nascosto Shinichi.
Assurdo,
no?
Nonostante il passare del tempo, però, Conan non era
cambiato troppo -
esclusi i parecchi centimetri guadagnati in altezza e i muscoli che
iniziavano
pian piano a farsi vedere, frutto delle ore passate sul campo di calcio
ad
allenarsi. Faceva parte del club della scuola, ormai, ed era stato
promosso
capitano da due anni, ormai. Inutile dire che avesse un talento
incredibile.
Quasi quanto...
«Posso entrare?», chiese di nuovo lui. Fu felice di
vederla sorridere
calorosamente e fargli cenno di accomodarsi.
«Certo», rispose. E allora sorrise anche lui,
chiudendosi la porta alle
spalle e andando a sedersi alla sedia girevole che Ran usava per la
scrivania.
«Come va?» Era una domanda retorica. Glielo si
leggeva negli occhi, si
capiva dal tono della sua voce.
Ran non lo sapeva. Non aveva idea di come facesse un bambino
a capire esattamente quando
stava male, quando aveva bisogno di conforto. Eppure, Conan ci
riusciva, in
qualche modo.
«Sto bene», mentì, anche se era
più che sicura che lui non ci sarebbe
cascato. E l’occhiata scettica di lui non tardò ad
arrivare.
«Sicura?»
Ma Ran non rispose. Ritornò a guardare le stelle con aria
assente, e la
luna piena, e il cielo scuro che pareva seta, come il vestito che
avrebbe tanto
voluto indossare quella sera.
«Ho saputo che stasera c’era il ballo dei
diplomandi», azzardò lui con
tutta la delicatezza di cui era capace. «Perché...
perché non ci sei andata?»
«Non ne avevo voglia», si affrettò a
rispondere la giovane, gli occhi
ancora persi nel cercare di individuare qualche costellazione.
Conan sospirò, poi sorrise. «Il vero
motivo?»
Aveva attirato abbastanza la sua attenzione da farla voltare nella sua
direzione. Ora lei lo squadrava, ma non era affatto sorpresa: era come
se se lo
aspettasse, che lui non credesse a quella bugia.
«C-come?»
«Perché non sei andata al ballo, Ran?»,
chiese ancora, abbassando un
po’ il tono della voce per renderlo ancora più
dolce di quanto già non fosse.
«Per quale motivo?»
Lei esitò, finendo per perdersi in quegli occhi azzurri.
Più li
guardava, più si stupiva di quanto somigliassero a quelli
di...
«Non avevo nessuno con cui andarci.»
Sospirò, chiudendo la finestra.
Iniziava ad avere freddo.
«Ma avresti voluto andarci», concluse per lei. Le
ci volle un po’, ma
annuì. Ammetterlo le era costato più di quanto
pensasse.
Conan non disse nulla, si limitò a rimettersi in piedi e
spingere di
nuovo la sedia sotto la scrivania. Ran pensò che volesse
andarsene, ma lui si
avvicinò allo stereo e alzò appena il volume,
prima di dirigersi cautamente
nella sua direzione, porgendole la mano.
Ran era confusa: non riusciva proprio a comprendere cosa avesse
intenzione di fare Conan. Lui avvicinò un altro
po’ la mano, come a spronarla a
stringerla. La ragazza, confusa, gliela afferrò con
titubanza.
«Alzati», le disse solo, e lei ubbidì.
Conan la portò al centro della stanza, allungando un braccio
dietro di
sé per alzare appena il volume dello stereo.
«Che stiamo facendo?», chiese Ran, che ancora non
era riuscita a capire
dove il ragazzino volesse arrivare.
«Elementare», disse lui, parafrasando con piacere
il suo caro Holmes. Anche in questo,
è identico a Shinichi.
«Balliamo.»
«B-balliamo?»
«Sì. Balliamo.» Le fece fare una lenta
piroetta, seguendo il ritmo
delicato del sax che si diffondeva dagli altoparlanti. «Se
non puoi andare al
ballo, allora porteremo il ballo qui.»
Lei sorrise. «Qui, Conan?», chiese scettica.
«In camera mia?»
Lui annuì.
«Ma sono in pigiama!», ribatté lei,
scoppiando a ridere per il vano
tentativo di Conan di andare a tempo con la musica. Evidentemente,
oltre che
col canto, non aveva un buon rapporto nemmeno con la danza.
«Prova a usare un po’ di immaginazione»,
le disse, mentre lottava contro
i suoi stessi piedi. «Immaginati un bell’abito da
sera, le luci, e... che io
sappia ballare un po’ meglio, per favore.»
La battuta la fece ridere. Li fece ridere entrambi.
Seguirono la musica, volteggiando per la stanza per quelli che a Ran
sembravano appena pochi secondi. Non si era resa conto che, in
realtà,
ballavano da più di due ore. Si chiese se fosse giusto stare
così bene quando
aveva Conan intorno. Si chiese se quel sentimento fosse normale. Si era
resa
conto che le sensazioni che provava quando c’era Conan erano
molto simili a
quelle che provava con Shinichi. Forse era per il fatto che si
somigliavano,
sia nell’aspetto, che nel carattere, che nelle passioni.
Inciamparono un paio di volte, e per poco non si pestarono i piedi in
un paio di occasioni, ma per il resto andò bene. Quando,
però, si resero conto
di essere stanchi e con le fronti imperlate di sudore, si fermarono.
Ran si
sedette sul letto, per far sì che i muscoli provati
potessero rilassarsi. Anche
se avevano ballato un lento, si sentiva stanca.
«Oh, quasi dimenticavo.» Conan si frugò
nelle tasche dei pantaloncini,
alla ricerca di qualcosa. Le ispezionò tutte, fino a tirar
fuori ciò che
cercava. Una scatoletta di plastica trasparente e quadrata, circa dieci
centimetri di lato. Ran poteva già vedere cosa contenesse,
ma la aprì. Prese in
mano il piccolo bouquet, e lo esaminò entusiasta. Era uno di
quelli che i
ragazzi regalano alle loro damigelle il giorno del ballo, di quelli che
si
mettono al polso come bracciali. Quello che le aveva dato Conan aveva
una
fascia di seta bianca da avvolgere attorno al polso, delicata sulla
pelle, ed
era ornato da una bellissima, meravigliosa orchidea bianca spruzzata di
rosa.
«Te la manda Shinichi», aggiunse Conan, mentre Ran
continuava a
rimirare il fiore da ogni angolazione. Quelle parole, però,
catturarono la sua
attenzione. Alzò lo sguardo, in direzione del ragazzino.
«Dice che gli dispiace
non essere potuto venire, che avrebbe voluto esserci. Avrebbe voluto
darti il
bouquet di persona, ma spera che basti affinché tu lo
perdoni. Almeno un po’.»
Ran sbatté le palpebre: quello
era un regalo di Shinichi?
«Tu come l’hai avuta?», chiese, curiosa.
Potevano essersi incontrati,
magari Conan sapeva dov’era Shinichi...
«L’ha mandata per posta. Per questo, ha preferito
scegliere un fiore
finto, perché non si rovinasse durante il viaggio.»
Ran accarezzò i petali dell’orchidea.
Effettivamente, erano di stoffa – una stoffa talmente bella e ben
lavorata che avrebbe
ingannato chiunque.
Conan sorrise. «Ha detto di aver scelto l’orchidea
per via del tuo
nome», aggiunse, mentre si avviava verso la porta.
«Sai, si è messo a
raccontarmi un sacco di cose sulle orchidee: lo sapevi che prendono il
nome da
un tale Orchide? Il mito racconta di questo ragazzo, a cui spuntarono
due seni,
e-»
«Okay, okay», lo interruppe Ran, scuotendo le mani.
«Non ho bisogno di
questa vostra roba da cervelloni, davvero.»
Conan sorrise. «Sì, scusa. Ma»,
aggiunse, «mi ha detto di dirti che nel
Medioevo veniva usata per i filtri d’amore. Cosa credi che
volesse insinuare?»
Ran arrossì violentemente. «I-io... non lo so
proprio.»
Conan annuì, comprensivo. Poi, le rivolse un cenno di
saluto. «Mi sa
che vado a dormire», mormorò. «Tuo padre
tornerà da un momento all’altro.»
«Oh. Certo.» Ran lo salutò, augurandogli
la buona notte.
Si stese sul letto, gli occhi rivolti al soffitto e
l’orchidea tra le
mani. Ne accarezzava i petali setosi con le dita affusolate e pallide,
godendosi la sensazione della stoffa sotto le dita. Suo malgrado, si
lasciò
sfuggire un sorrisetto.
Filtri
d’amore, eh?
Note e angolo autrice. Ma
salve! Quanto tempo che non scrivevo qualcosa per questo Fandom.
Più di un
anno, credo, anche se sono sembrati secoli. Non ricordavo quanto mi
mancasse
scrivere su Detective Conan finché non ho iniziato a
scrivere questa one-shot.
Che dire, di questa storia? Ah: innanzi tutto, partecipa al contest
“Maratona di ballo ShinRan”,
indetto
dallo Shinichi e Ran Official Italian Fan Club. Ho delle avversarie
molto toste
– autrici che seguo dai tempi in cui
ancora bazzicavo
nel DCF, e verso le quali provo incredibile ammirazione – ma ho molta fiducia nella mia
piccola creazione. Ho
adorato scrivere questa storia, davvero. E’ stato bellissimo
scrivere ancora
per questo Fandom, di cui avevo una nostalgia incredibile. E’
bello essere
tornata a casa. ~
E, che altro? Spero che la storia vi sia piaciuta. Lo spero davvero
tanto. E spero anche di avere qualche idea per tornare a scrivere su
DC. Ho
dato tanto a questo Fandom, ma se ho smesso un anno e mezzo fa
è stato per
mancanza di idee, non per altro. Vorrei poter essere fiduciosa in un
ritorno.
Intanto, scaldo i motori. A presto, quindi. O almeno, spero.
[Il mito
citato da Conan è, appunto, quello di Orchide: un ragazzo a
cui spuntò d’improvviso il seno e che, da quel
momento, nonostante fosse un
maschio, vide il suo corpo svilupparsi come quello di una ragazza.
Questa sua
ambiguità sessuale lo portava ad essere evitato sia da
maschi che da femmine, e
per la disperazione si suicidò. Nel luogo della sua morte,
nacquero dei fiori
bellissimi, le orchidee appunto, ognuno unico nel suo genere ma
comunque
bellissimo. Nel Medioevo venivano effettivamente utilizzare per le
pozioni
d’amore, in quanto si credeva riuscissero a sventare le
sciagure dell’uomo. E’,
inoltre, simbolo di armonia e perfezione spirituale.]